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Barone Corrado Melfi

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di Giuseppe Cultrera

L’esistenza di briganti e banditi nelle zone più impervie della Sicilia è una costante del XVIII secolo. I viaggiatori stranieri ne attestano la presenza durante i loro percorsi nelle aree interne dell’isola, fornendo delle colorite descrizioni non prive di fascinazioni romantiche.

La notte in cui i briganti assaltarono Chiaramonte
Viaggiatori assaliti da briganti, acquerello di B. Pinelli, 1817 (a sinistra), brigante siciliano, stampa popolare (a destra)

Era invece un problema per gli abitanti e specialmente per le autorità costituite. Sul finire del secolo (nel settembre 1791), ad esempio a Chiaramonte, il capitano giustiziere barone Bernardo Melfi, andato a contrastare i banditi che infestavano la parte occidentale del territorio (e che avevano come buon nascondiglio i boschi di Mazzarrone e Sciri), nella contrada Piraino, fu sequestrato da questi briganti. E al danno le beffe: per riaverlo i parenti e la città dovettero sborsare un esoso riscatto di cento onze. Sicché l’amministrazione e i notabili della città, impauriti dalla tracotanza dei banditi e dal loro incontrastato controllo del territorio, si rivolsero al viceré affinché provvedesse.

La notte in cui i briganti assaltarono Chiaramonte
Il territorio e le città del Val di Noto (a sinistra) e Sigillo del Regno delle due Sicilie (a destra)

La risposta del governo fu tempestiva, con l’invio di una compagnia, al comando del generale Lentinez, per “purgare” il territorio. Ma l’effetto fu momentaneo se, pochi anni dopo, nel 1802, altre bande di briganti assaltarono varie fattorie in contrada Cicogni, Piraino e Lago, ingaggiando persino conflitti a fuoco coi proprietari delle case.

E il 26 marzo dell’anno successivo si spinsero fino in città: 12 banditi assaltarono il palazzo del barone Michelangelo Ventura Intorrella, che sorgeva al margine estremo della città accanto al convento dei Cappuccini, rapinando, mettendo in fuga i proprietari e uccidendo il fratello del barone, Don Carmelo.

La notte in cui i briganti assaltarono Chiaramonte
Stemma di casa Ventura, particolare di lapide sepolcrale, Chiaramonte, Chiesa di S. Giovanni Battista (a sinistra),
Stemma dei Ventura. Disegno acquerellato, fine ottocento (a destra)

L’accaduto suscitò nella popolazione grande impressione e sdegno. E di lì a poco, quando i banditi furono arrestati, la famiglia Ventura ottenne che tre di essi fossero giustiziati dirimpetto al loro palazzo, nel Piano dei Cappuccini.

Una cupa e lugubre scenografia scandì l’esecuzione:

Sul far dell’alba nella casa del capitano giustiziere barone Francesco Melfi si vide sventolare la bandiera cittadina con la scritta: Discite populi iustitiam. Più tardi un colpo di mortaretto, dal piano del castello, dava l’avviso che i giustiziandi muovevano dal carcere. La piazza del Duomo fu presto gremita di popolo, e si vide procedere il trombettiere, il capitano e i miliziotti ai quali seguiva la confraternita della Carità e Pace vestita col sacco. Dopo venivano i giustiziandi assistiti dal parroco Cultraro, dal reggente Buè e dal maestro Ascone. Saliti sul palco uno di loro oriundo di Girgenti dichiarò i molti omicidi che aveva commesso, mentre un altro con l’agnome u Russu, che aveva chiacchierato lungo la via, se ne stava silenzioso. Ed appena decollati, i loro corpi furono sepolti nelle vie all’entrare dell’abitato, e le teste dentro graticole appese nel palazzo Ventura a perpetua ricordanza dell’accaduto. (Corrado Melfi, Cenni storici sulla città di Chiaramonte Gulfi, Ragusa 1912; pagina 124).

Briganti
Paolo Balsamo (1764 –1816) e il
Frontespizio del suo saggio “Giornale del viaggio fatto in Sicilia” (1809)

 Nel marzo 1808 Paolo Balsamo, studioso di economia e funzionario del regno, percorre la Contea per accertarsi della situazione socio-economica e, visitando Chiaramonte, dà del tragico evento la propria valutazione, che non è benevola, ma neppure lontana da una visione obiettiva dei fatti.

Prima di sortire dalla città guardammo per la seconda volta con dispiacere la casa crollante, ed abbandonata di Ventura, riguardevole e benestante persona del paese, che alcuni anni addietro fu rubato, ed ucciso con aperta violenza da dieci, o dodici banditi, a mezz’ora di notte, ed al cospetto dei magistrati, e di tutta la popolazione. I rei furono quindi scoperti, e puniti col rigor delle leggi. Del resto chiunque si fa a considerare quest’orrendo misfatto quasi non sa cosa più condannare, o l’arditissima malvagità dei furfanti, o l’opprobriosa viltà di cuore di quegli abitanti, e sopra tutti dei gentiluomini, i quali, sentito il fracasso, ed i tonfi delle archibugiate, si chiusero nelle loro case, e per un ignominioso solipsismo non respinsero con la forza, una forza della loro cento volte minore. (P. Balsamo, Giornale del viaggio fatto in Sicilia e specialmente nella Contea di Modica, Palermo, 1809; pag. 83).

 

La notte in cui i briganti assaltarono Chiaramonte
Il Palazzo Fontanazza e il teatro Comunale, edificati a fine ottocento sul sito del palazzo Ventura Intorrella. Sulla sinistra si vede il complesso monastico dei Cappuccini.

Il palazzo Ventura Intorrella, il più grande e fastoso di Chiaramonte, finì di crollare e la famiglia tra liti patrimoniali, affari sbagliati e disgrazie varie, nel volgere di pochi anni scomparve. Anche la memoria dei tragici fatti si assopì. All’immaginario popolare rimase il solo Timpunazzu, una tozza fabbrica quadrata all’incrocio delle due vie di accesso al paese (attuale zona Quattro Cappelle), dove era stato sepolto il corpo di uno dei tre briganti. Oggi non esiste più traccia; né risulta facile identificare l’ubicazione. Ci resta, invece, il dubbio instillato dal Balsamo: se stupirci di più dell’audacia dei briganti o della pavidità dei “gentiluomini”.

Briganti
Chiaramonte Gulfi, Quattro Cappelle (cartolina illustrata, metà 900)

di Redazione

L’ultimo capitolo del volume di Gesualdo Bufalino Il tempo in posa (1992) è dedicato alle fotografie amatoriali del Barone Corrado Melfi di Chiaramonte Gulfi, che ritraggono momenti famigliari e pose di alcuni amici e conoscenti. Testimonianza di una febbre o fregola di modernità che contagiò sul finire dell’ottocento possidenti e notabili delle città iblee, alle prese con cavalletti e macchine fotografiche a soffietto, acidi e artigianali camere oscure, collodio e lastre di vetro per trarre fuori le magiche pose. Per fermare l’attimo. O, come acutamente titola Bufalino, “il tempo in posa”.

Diversi gli intenti e gli auspici di chi nella nuova arte intravide una opportunità di lavoro e di guadagno: i fotografi professionisti, che impiantarono prima nelle grandi città e poi in ogni paese uno studio fotografico. Il campo di questa ricerca di Tony Vasile è la provincia di Ragusa – da metà ‘800 a metà secolo successivo – con i vari fotografi ambulanti o stanziali che approdarono nei paesi per esercitarvi l’arte fotografica, ma anche i tanti dilettanti che acquistarono macchina fotografica e kit per la stampa, cominciando a ritrarre familiari ed amici o momenti di vita sociale e politica oppure le esuberanti feste laiche e religiose.

Chiaramonte. Una foto di fine ‘800 (probabilmente di R. Palermo) con la Piazza Duomo stipata di folla per l’inaugurazione della Società operaia Umberto I. Si tratta ovviamente di un falso – una fake news d’antan – perchè la Società fu inaugurata nel 1901 mentre la foto è anteriore di almeno un decennio.

La ricerca prevede un capitolo per ognuna delle dodici città che, dal 1927, formarono la nuova provincia di Ragusa. Un assaggio è arrivato con l’articolo – già pubblicato – dedicato a Santa Croce Camerina. Per domani, su oltreimuri.blog, un altro “estratto” dedicato ai fotografi professionisti (alcuni forestieri) e dilettanti che operarono a Chiaramonte Gulfi. Dal Cavaliere Raimondino Palermo che giunto, proveniente da Messina, a Vittoria vi stabilì la base da cui spaziare nei comuni iblei, e tra questi Chiaramonte (sono interessanti testimonianze antropologiche le grandi foto in posa relative alla celebre festa della Madonna di Gulfi con centinaia di volti immobili sull’obiettivo e le quinte sceniche di una città in espansione), agli emuli locali Bentivegna, Distefano, Landolina e Vargetto che assecondano le richieste ed esigenze della clientela, mentre la crisi avanza ed alcuni – come tanti altri artigiani – intraprendono il calvario dell’emigrazione verso le Americhe.

L’Arrivo in Piazza della Madonna di Gulfi. Foto di Raimondino Palermo, 1890 Chiaramonte.

Torneranno, i più, carichi di esperienza e progetti ma troveranno ad attenderli la seconda crisi innescata della dittatura fascista e dalle conseguenti strettoie dell’autarchia. L’ambito della ricerca ha come sponda finale il secondo dopoguerra.

Nelle migliaia di immagini di volti e di avvenimenti scorre la storia di questa piccola comunità dell’entroterra ibleo: un atlante con tanti tasselli sociali, culturali, religiosi, politici ed economici. “Un autoritratto che ha comunque in sé rilevanza antropologica. Ma soprattutto, per alcuni di noi, fuori di ogni scienza, ha rilevanza affettiva” (Diego Mormorio: introduzione al citato, “Il tempo in posa”).

1899. Domestiche di casa Iacono. Particolare di fotografia di Gioacchino Iacono Caruso. In Il tempo in posa di G. Bufalino. Sellerio, 1992

Per inciso, il Barone Melfi non comprò ne usò quel marchingegno magico con cui si fermava il tempo; fu suo figlio Vincenzo, il fotoamatore. Le foto pubblicate in fine al volume di Bufalino appartengono a lui. Mentre il padre Corrado è soggetto semmai, come tanti altri amici e notabili del paese sul monte. Questa è una chicca che scoprirete leggendo l’articolo di domani.