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Betty Robinson

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Olimpiadi di Tokyo 2021. Anche oltreimuri.blog vuole rendere omaggio ai giochi della XXXII Olimpiade, raccontando una delle storie più belle dell’atletica femminile (ieri sono iniziate le gare di atletica). Inizia tutto nel 1928, negli USA. Ci si preparava alla IX edizione delle Olimpiadi ad Amsterdam, in un’Europa inquieta che già aveva visto nascere il fascismo in Italia e a breve avrebbe conosciuto l’avvento e gli orrori del nazismo.

di Nunzio Spina

Il 31 luglio del 1928 – novantatré anni e ventuno edizioni dei Giochi orsono – una ragazzina non ancora diciassettenne vinceva la prima gara olimpica dei 100 metri piani donne. Si chiamava Betty Robinson, statunitense; col numero 879 sulla maglia bianca con striscia diagonale in blu, bianco e rosso, precedeva sul filo di lana (che allora c’era veramente) le due favorite avversarie canadesi, una delle quali addirittura a braccia levate, illusa della vittoria.

Olimpiadi di Amsterdam, 31 luglio 1928. La piccola statunitense Betty Robinson (col n° 879) vince la finale dei 100 piani

Era la IX Olimpiade dell’era moderna. La capitale Amsterdam aveva dato fondo a tutte le proprie risorse per presentare al mondo il volto migliore dell’Olanda. L’edizione sarebbe passata alla storia per vari primati: fu la prima largamente aperta alla partecipazione femminile (atletica leggera in testa), la prima onorata dalla staffetta della fiaccola olimpica, la prima supportata da uno sponsor commerciale (il cui nome iniziava per Coca e finiva per Cola).

A stupire, nel caso di Robinson, non fu tanto la sua giovane età, quanto il fatto che fino a cinque mesi prima lei non sapeva neanche cosa fosse una pista di atletica. Solo un evento straordinario avrebbe potuto di colpo cambiare la rotta della sua tranquilla vita da adolescente, e il destino dovette proprio mettercela tutta per intervenire nella maniera più bizzarra.

Stazione di Harvey, Illinois, nord degli Stati Uniti. Inverno del 1928, una giornata come tante. Charles Price, professore di biologia nella locale High School, ma anche allenatore della squadra di atletica maschile dell’istituto, è affacciato al finestrino del treno che sta per partire e che lo riporterà a casa. Vede da lontano una ragazza che si affanna a rincorrere sulla banchina quando il capostazione ha già dato il fischio di via e ha alzato la paletta. La riconosce, è una sua alunna, Betty Robinson. Con lo zaino sulle spalle e i libri in mano non ce la farà mai a salire su quel treno. Lui sorride, come a dire “troppo tardi”; ma quando si ritira sul suo scompartimento a sistemare i propri bagagli, se la vede davanti, trafelata, i libri che le cadono da tutte le parti.

La stazioncina di Harvey, dove il prof. Price scoprì, casualmente, le doti da velocista di Betty

«Ma come hai fatto?», è la prima domanda che le rivolge; la seconda, «Ti piace correre?». Discutono durante il viaggio per casa, e prima di salutarsi, il prof le dà un appuntamento per l’indomani pomeriggio a scuola, dopo la fine delle lezioni: «Preparati, faremo una prova col cronometro!»

Chissà cosa immaginava la piccola Betty, che fino allora aveva corso soltanto per inseguire i suoi nipotini, figli delle due sorelle più grandi… Si presentò all’appuntamento con scarpette che avevano la suola di gomma, quanto mai scivolose. Inverni rigidi, da quelle parti; se non c’era la neve, il fondo del terreno doveva essere gelido, quanto meno. Mister Price rimediò così: portò l’alunna all’ultimo piano dell’edificio scolastico, dove il corridoio centrale si estendeva per l’intera larghezza, 50 yards, in metri poco meno. Pronti, via, da un estremo all’altro; cronometro alla mano, 6 secondi e 2 decimi. «Brava Betty, da domani ti allenerai con la squadra maschile!».

Una giovanissima Betty e l’immagine dell’edificio scolastico di Harvey, dove l’alunna Robinson fece la sua prima prova cronometrata

Il suo viaggio verso le Olimpiadi di Amsterdam, da allora, sarà una volata, proprio come appariva la sua corsa. Dovettero solo insegnarle a posizionarsi in partenza, poi via veloce, come natura l’aveva dotata, i piedi che toccavano appena il suolo. Solo il 31 marzo (e siamo a quattro mesi dai Giochi) si cimentò nella sua prima gara ufficiale, un 60 metri indoor: seconda dietro la favorita, munita di quelle scarpette chiodate che lei ancora non aveva.

Il 2 giugno, al suo esordio nei 100 mt, nello stadio di Chicago, strabiliò tutti vincendo con un tempo che sarebbe stato omologato come record del mondo (12.0) se non fosse che il vento soffiava a più di 2 m/sec. Poi i trials ai primi di luglio, una sola settimana dalla partenza: non corse benissimo, ma bastò per farle staccare il pass olimpico.

Chicago, 2 giugno 1928. Prima gara ufficiale di Betty sui 100 piani: primo posto e tempo record (poi non omologato per colpa del vento)

Sappiamo già come andarono le cose sulla pista in terra battuta di Amsterdam, segnata dalle linee in gesso. Prima nella finale dei 100 mt, braccia al cielo, un sorriso grande così. Per il tempo (12.2) non ci fu alcuna spinta d’aria: record del mondo, stavolta! Le canadesi si presero la rivincita nella staffetta 4×100; ma appena dietro, all’arrivo, c’era lei, Betty, ancora braccia al cielo, ancora un largo sorriso, per una medaglia d’argento che evidentemente continuava a farla sognare a occhi aperti.

Il momento della vittoria nei 100 mt alle Olimpiadi di Amsterdam

Le accoglienze al rientro in patria furono da festa nazionale. Dapprima a New York, all’arrivo del piroscafo Roosvelt, con i poliziotti che la sollevarono in trionfo; poi alla stazione di Chicago, dove i genitori – indifferenti fino ad allora – la accolsero con fiori in mano e lacrime agli occhi; per chiudere con un corteo fino alla scuola di Harvey, dove tutto era cominciato, in quell’angusto corridoio all’ultimo piano.

La bella favola era solo all’inizio. Come atleta non poteva che migliorare, doveva; e l’ingresso all’università le permise di dedicarsi maggiormente all’attività agonistica. All’orizzonte c’era un’altra olimpiade, e siccome la sede designata era Los Angeles, a quell’appuntamento in casa fece di tutto per presentarsi al massimo delle sue possibilità. Sennonché, stavolta, il destino si voltò dall’altra parte.

Con l’elegante divisa olimpica statunitense; a destra, viene accolta festosamente al rientro in patria dai suoi genitori.

È il 28 giugno del 1931, siamo a un anno dai Giochi. Betty ha appena concluso il suo quotidiano allenamento; giornata caldissima, per rinfrescarsi accetta l’invito del cugino Wil di fare un giro sul “waco rosso”, piccolo aereo da turismo; non una novità, vi era salita altre volte. Quel giorno, però, il motore cominciò a tossire in maniera sospetta, fino a quando si fermò, e il velivolo inesorabilmente precipitò su un campo. Quando accorsero i pompieri, trovarono solo la carcassa del mezzo, e dopo un po’ avvertirono grida di dolore provenire a una certa distanza: erano quelle del cugino, immobile a terra con le gambe maciullate; pochi metri più in là, il corpo esanime di Betty. Con ogni probabilità si erano lanciati, per evitare di rimanere incastrati.

Il piccolo aereo del cugino di Betty, Wil, schiantato a terra. Betty ne uscirà viva per miracolo.

Trasportarono lui in ospedale, lei aveva già preso la via dell’obitorio. Caso volle che il giovane aiutante dell’impresario di pompe funebri fosse proprio uno di quei nipotini che Betty soleva rincorrere, per gioco, anni prima. Riconobbe la zia, cominciò a scuoterla, più per disperazione che altro; non rispondeva, ma qualcosa lo indusse a trasportare anche lei in ospedale. In effetti non era morta, ma solo in coma; si gridò al miracolo!

Trauma cranico commotivo, frattura a un femore, a una gamba e a un braccio, lacerazione a un occhio. Il bollettino che le dovettero svelare, dopo sette settimane di coma, avrebbe gettato nello sconforto chiunque; eppure, le prime parole che le uscirono di bocca sbalordirono i presenti: «Io proverò di nuovo a correre!». Un proposito che dovette attendere undici mesi di ricovero in ospedale e due anni di dura riabilitazione. Alla fine, era riuscita a liberarsi di carrozzina e stampelle, ma non degli esiti invalidanti permanenti: una gamba più corta di 3 cm, col ginocchio che non riusciva più a piegarsi come prima. Eppure, ci provò davvero a correre, con una incredibile forza di volontà, un passo doloroso dietro l’altro.

Il ritorno agli allenamenti dopo il terribile incidente aereo

Alle Olimpiadi di Los Angeles aveva dovuto già da tempo rinunciare. In vista adesso c’erano quelle di Berlino del 1936; soltanto immaginare di parteciparvi poteva essere uno stimolo lungo il difficile cammino del recupero, ma valeva la pena provarci. Tornò alle gare, riscoprendosi ancora veloce di gambe, nonostante difetti e limitazioni. L’impossibilità di inginocchiarsi non le permetteva di avere una buona partenza sui 100 piani, e quindi di essere qui competitiva ai livelli più alti; era il motivo per cui rendeva molto meglio nella staffetta 4×100, partendo non da prima frazionista. E fu proprio in questa specialità che riuscì a coronare il suo secondo sogno olimpico.

Le componenti della staffetta 4×100 statunitense, oro a Berlino nel ’36

Berlino, 10 agosto 1936, finale della staffetta veloce donne allo stadio olimpico: otto anni dopo l’inaspettato exploit di Amsterdam, le sorti di Betty coincidevano nuovamente con un allineamento dei pianeti. Era strafavorito il quartetto tedesco di casa, anche perché – si verrà a scoprire dopo – due di loro avevano connotati prettamente mascolini, appena camuffati in quella occasione.

Erano lanciate verso la vittoria, le possenti atlete germaniche, quando un clamoroso malinteso nell’ultimo passaggio del testimone compromise tutto. Sul rettilineo finale si vide sfrecciare la statunitense Helen Stephen (che già si era aggiudicata i 100 piani), lanciata proprio dalla Robinson, impeccabile terza frazionista. Oro per gli USA! Betty avrebbe poi confessato che, quando si era trovata sul gradino più alto del podio per la premiazione, aveva ripensato al momento in cui medici e parenti, al risveglio dal coma, le avevano detto che lei difficilmente avrebbe ripreso a camminare.

Il momento della premiazione per la staffetta 4×100. Le quattro atlete americane sul podio più alto.

Si chiudeva così, come una favola a lieto fine, la carriera sportiva di Betty Robinson, che a 26 anni aveva proprio dato tutto, e ricevuto tanto in cambio. Rimase nell’ambiente sportivo come giudice di gara; si sposò, ebbe due figli e tre nipoti. Visse fino all’età di 87 anni, e ogni ricorrenza era buona per essere richiamata a celebrare, qua e là negli Stati Uniti, i suoi indimenticabili successi.

Sarebbe rimasta per sempre una storia incredibile da raccontare, quella di Betty Robinson. L’atleta che visse due volte; e che entrambe le volte vinse una medaglia d’oro olimpica!

Betty mamma con i suoi due bambini