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di Vito Castagna

Caro Goffredo, con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto, per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto).

Quando Elsa Morante scrisse questo incipit a Goffredo Fofi, in una lettera speditagli il 21 dicembre 1971, non avrebbe creduto possibile che proprio quel fatto, apparentemente insignificante, sarebbe divenuto la traccia che avrebbe condotto Alice Rohrwacher alla candidatura all’Oscar.
Come sovente accade, i grandi scrittori lasciano segni a volte inconsapevoli, del tutto fortuiti, che solo animi trafitti dal dardo della sensibilità possono riportare all’attenzione del pubblico, donandogli una veste nuova.

Alice Rohrwacher

Così, su invito di Alfonso Cuarón a produrre una pellicola natalizia, Rohrwacher ha voluto mettere in scena un mediometraggio (38 minuti) che ripercorresse il breve racconto di Elsa Morante e che, al contempo, potesse dargli la possibilità di creare qualcosa di nuovo.
“Le pupille” è ambientato nella Bologna degli anni ‘40, quando le forze italo-tedesche cercavano di opporsi all’avanzata delle truppe alleate nel Nord Africa. Le protagoniste sono un gruppo di orfane accudite in un collegio di suore che si accingono a festeggiare il Natale.

Nella struttura vi è una linea ferrea e intransigente, quella della madre collegiale, interpretata dalla sorella della regista, Alba Rohrwacher, fatta di preghiere e del rispetto dello status quo, e quella molto meno apparente delle bambine. Queste si dimostrano accondiscendenti, costringono i loro corpi alla stasi, eppure, le loro pupille guizzano su ogni cosa, libere, pensanti, rivoluzionarie.
Nonostante il regime che vige all’interno e all’esterno delle mura del collegio, le giovani menti brulicano di idee e di canzoni proibite, alle quali la madre collegiale dà categoricamente la dicitura di cattive. E chi ha idee cattive e non prova rimorso, è cattivo a sua volta.

I richiami pasoliniani di “Le pupille”

Questo sistema di giudizio apparentemente perfetto è destinato ben presto a sgretolarsi. A farlo sarà una zuppa inglese (ironia della sorte nell’anti-esterofila Italia fascista!), portata da una nobil donna, recitata da Valeria Bruni Tedeschi, che cerca di ingraziarsi le preghiere delle orfanelle, nel tentativo di far tornare da lei il conte che l’ha lasciata.
Una torta di 70 uova, nel pieno di una guerra, può essere forte quanto dinamite. Può addirittura far crollare qualunque stigma, dopo averne palesato le contraddizioni.

Alice Rohrwacher dimostra ancora una volta che far cinema è una questione di sensibilità. La sua immaginazione dilata il racconto, lo irrobustisce con elementi nuovi e caratterizzanti; con delicatezza ridisegna spazi colmi di alterità rendendoli poetici e ovattati. I suoi mondi ricordano quelli delle fiabe, eppure, sono carichi dei problemi quotidiani nonostante ne disconoscano le brutalità. La sua candidatura all’Oscar è il giusto riconoscimento al percorso intrapreso da una parte del mondo cinematografico italiano, quello che proviene dal genere documentario, che ha lasciato parlare gli altri, prima di dar voce alle proprie istanze.
“Le pupille” è un invito alla libertà, non urlato, non palesato, ma semplicemente bisbigliato dal gioco furbesco degli occhi. 

di Vito Castagna 

Bologna. 12 ottobre. 17:30. Giunto di fronte alla Feltrinelli di Piazza Ravegnana, tra i passanti che si dirigono verso le fermate del bus, incrocio Silvia, una ragazza trasferitasi da poco in città per studiare Filosofia. Come me, si è diretta in libreria per assistere alla presentazione dell’ultimo libro postumo di Vicenzo Rabito, “Il romanzo della vita passata”, edito da Einaudi.

Non potendo farmi sfuggire questa occasione, le chiedo: cosa ti emoziona della prosa di Rabito? Lei mi risponde: «Rabito è un caso unico nella letteratura italiana. È importante da un punto di vista storico, ma soprattutto mi colpiscono le difficoltà che ha dovuto affrontare in gioventù. È personale, diretto, sembra di leggere un diario. La mancanza di una rifinitura stilistica lo rende assolutamente puro. Per questo, credo che valga la pena superare l’ostacolo della lingua».

Questa affermazione viene incontro alla piccola inchiesta che mi ero proposto di condurre: cosa spinge i lettori italiani ad affrontare una lettura complessa come quella di Rabito? Credo che Silvia centri in pieno la questione. Infatti, sembra che sia proprio la lingua ibrida, il “rabitese”, a rendere questi testi universali, e ad essere capace di far leggere chiunque per ore ed ore, in un’attrazione vorticosa.

Incipit de “Il romanzo della vita passata”

A questo punto, mi domando se vi sia un legame particolare tra Rabito e la città felsinea. Ne parlo col figlio dell’inconsapevole autore, Giovanni, mentre attendiamo che la sala “Kids” della libreria si riempia di spettatori. Egli sostiene che la scelta di Bologna, non è dettata dalla presenza di un bacino di lettori più consistente, ma è dovuta ad un fattore puramente affettivo, nato quando Giovanni decise di iscriversi all’Università.

Per quanto riguarda il successo di “Terra Matta” (2007) non ha alcun dubbio: sono le persone di cultura che si sono di più incuriosite a questo singolare caso editoriale, perché la conoscenza può essere placata solo da altrettanta conoscenza.

(Foto Einaudi)

Dopo questo breve scambio di battute, la presentazione ha avuto inizio. Ad affiancare Giovanni Rabito, vi è Riccardo Gasperina Geroni, docente di Letteratura Contemporanea italiana all’Università di Bologna. I due hanno avviato un dialogo che ha messo in luce il Vincenzo Rabito scrittore e uomo, che tanto bene sapeva narrare oralmente e che con pazienza e riserbo aveva scolpito quei fatti con l’inchiostro.

E con quella scrittura, che il professore Gasperina Geroni definisce «materica, selvaggia e primitiva», Rabito si presenta a sé stesso, costruisce la sua storia, scegliendo i momenti salienti di un’intera esistenza, e il suo stile.

Presentazione de “Il romanzo della vita passata” a Bologna (foto G. Rabito)

Uno stile che si irrobustisce e si appropria di nuove possibilità: “Terra Matta”, infatti, è uno sfogo contro le miserie della vita segnato da quella prima persona singolare che nasce dal bisogno di raccontarsi. Il romanzo, invece, è caratterizzato sin dal suo incipit dalla terza persona singolare, è attento alle descrizioni di luoghi e personaggi.

Nel secondo dattiloscritto, Rabito sembra aver fatto suo il “mestiere di scrivere”, e qui non posso non citare un passo della prefazione di Hemingway ad “Addio alle armi”: «… non sapevo come si fa a scrivere un romanzo quando lo incominciai … Così la prima stesura fu molto brutta. … dovetti riscriverla completamente. Ma riscrivendola imparai molto».

Lo splendido Terra Matta nasce dall’impeto e questo è ciò che lo rende un capolavoro; Il romanzo, dal canto suo, dimostra che si può possedere la scrittura solo dopo essersi “sporcati le mani”.

Chiaramonte, piazzetta Manfredi I, anni ’60 (foto Giuseppe Leone)

Conclusa la presentazione, rimasto in sala, mi meraviglio di come Vincenzo Rabito voglia continuare a sfuggire alle logiche del mercato editoriale. Solo quell’attaccamento del figlio a Bologna, il quale fu mandato lì proprio dal padre, lo ha condotto sotto le Due Torri. Una casualità, così come quella che lo portò a trovare in Africa un baule colmo di classici della letteratura, forse fautori della sua attività di scrittore autodidatta.

Questa volta non c’erano Dumas o Hugo ad attendere il suo ultimo libro, ma devo costatare che l’”Odissea” illustrata e “Il manuale delle giovani marmotte”, che erano esposti in sala, hanno riservato un’accoglienza altrettanto calorosa a “Il romanzo della vita passata”. Immagino la faccia compiaciuta di Umberto Eco alla vista di questa singolare commistione…

Dal dattiloscritto di “Terra Matta” (foto L’Espresso)