di Giuseppe Cultrera
“È una bella soddisfazione essere tema di una tesi di laurea. Ancor di più se il laureando è Mario Incudine e relatore il Prof. Sergio Bonanzinga, entrambi prima miei punti di riferimento culturale e poi anche amici”. Me lo dice con quel suo abituale sorriso sotto il baffo, un po’ sottovoce, Peppino Castello cantastorie e operatore culturale di Monterosso. Se non avete ascoltato il suo Falconi e Borsellinu vi invito a sentirlo, per la carica narrativa e di impegno civile e per la musicale poetica del racconto che accompagna l’ascoltatore fino al tragico epilogo.

Ma anche Cola Pisci, Emigranti, U baruni ri li Canalazzi, sono avvincenti ed emozionanti, riuscendo a ricreare il clima di empatia che contraddistingue il rapporto cantastorie-pubblico. Peppino Castello ripropone un modulo comunicativo del passato e nel contempo recupera sostrati e temi popolari sempre attuali. Ecco perché è ancora oggetto di studio per una tesi di laurea (qualche anno fa lo fu per quella di Elisa Ragusa) discussa la settimana scorsa dal musicista siciliano Mario Incudine.

Ma come ti è nata l’idea e la voglia di fare il cantastorie?
“Galeotto fu il Presepe vivente, una manifestazione che si svolge nel quartiere storico di Monterosso Almo e ricrea ambienti della civiltà artigianale e contadina del passato.
Nell’edizione del 1994 pensammo bene di inserire la figura tradizionale del Cantastorie. Per l’occasione scrissi la storia U Baruni re Canalazzi, ispirata a una narrazione popolare legata al territorio. Preparai i bozzetti e, insieme a un mio amico, bravo pittore, realizzammo il cartellone, utilizzando un lenzuolo bianco trattato con colla fatta in casa mischiando aceto e farina. Cantai la storia in un ambiente caratteristico e suggestivo del percorso del Presepe vivente. Con mia grande meraviglia riscossi un enorme successo”.

Scopro, anche, che abbiamo in comune il primo incontro con un cantastorie: il mio fu a Chiaramonte nella piazza S. Salvatore, dove da bambino abitavo e dove si svolgeva il mercato settimanale. Qui giunse una mattina Ciccio Busacca: assiso sul portabagagli della sua auto, chitarra imbracciata, cartellone alle spalle, cantò le imprese di Turiddu Giuliano e la tragica fine della baronessa di Carini.
“Per me il cantastorie per antonomasia è Ciccio Busacca – mi fa eco Peppino Castello – l’ho ascoltato da piccolo cantare la storia del Bandito Giuliano nella piazza San Giovanni del mio paese ed è ancora vivo in me il ricordo dei suoi occhi magnetici che tenevano incatenate al racconto le persone che lo ascoltavano incantate. Era un grande affabulatore! Nel tempo ho approfondito la sua conoscenza e quella di altri cantastorie: Franco Trincale, Nonò Salamone, Vito Santangelo, Orazio Strano… Tutti molto bravi, ma per me Ciccio Busacca resta il modello di riferimento per l’equilibrio tra la musica e il recitato che contraddistingue il suo stile”.

Da più di 25 anni il cantastorie di Monterosso inanella “storie” antiche e moderne, amare e dolci, che fanno riflettere e pensare, destinate a un pubblico vario, regionale e non, in festival, eventi, scuole e istituti culturali ma anche cortili e piazze con gente comune.
Ma il cantastorie oggi chi è. Non appare anacronistico nell’era digitale?
“Sono mutate le modalità e le forme di comunicazione – mi risponde – ed è difficile sostenere la concorrenza del cinema, della radio, della televisione, di internet. Il cantastorie può avere ancora un ruolo se propone storie capaci di suscitare negli ascoltatori emozioni, sentimenti e riflessioni, utilizzando la narrazione e il canto senza alcuna mediazione.
La relazione è diretta fra chi racconta e chi ascolta. Io scrivo testi che sono caratterizzati da un forte impatto emotivo e dalla trasmissione di valori e di ideali culturali. Mentre mi esibisco sento il coinvolgimento affettivo ed emotivo degli ascoltatori. Mi sembra di entrare in empatia con loro. Non mi sento quindi il custode della tradizione e delle figure mitiche del passato, ma una persona che tenta di leggere e raccontare in modo critico il presente”.
Peppino Castello, A morti e u miliardariu