di Chiara Giampieretti
“I’m gonna pop some tags, only got twenty dollars in my pocket, I’m hunting, looking for a come-up” (Cercherò qualche etichetta, ho solo 20 dollari in tasca, sono a caccia di un’occasione) recita Macklemore nel ritornello di quello che è divenuto l’anthem di chi ama comprare capi d’abbigliamento usati, “Thrift shop”. Thrifting (o thrift shopping) è il termine che indica l’attività di acquisto di articoli di seconda mano, in special modo vestiario e accessori.
Ma chi conosce la pratica sa che è molto più di semplice shopping: è una vera e propria caccia. Le montagne di abiti stropicciati accatastati sui banconi del mercato e la giungla fitta di grucce che affolla i negozi vintage costituiscono l’habitat dei thrifters, amanti del brivido che solo scovare l’abito perfetto dopo ore di ricerca può offrire. Ma perché tanta fatica per articoli già indossati, talvolta difettati o macchiati, se siamo circondati da negozi che offrono prodotti nuovi, ben in vista, facili da individuare e da acquistare?
Innanzitutto, elemento di non poco conto è il prezzo: un maglione usato pescato fra le bancarelle del mercato costa, solitamente, meno di 10 euro. Spesso si trovano, addirittura, capi a 3 euro, talvolta persino a 1 euro. L’accessibilità economica spiega perché il thrifting sia così diffuso fra i giovani, soprattutto fra gli studenti, notoriamente squattrinati.
A ciò si deve aggiungere la qualità degli indumenti: allo stesso prezzo di un abito in fibre sintetiche e materiali scadenti mal cuciti si possono acquistare molteplici capi di ottima fattura in lana vergine, cotone, cashmere, lino, che spesso recano il nome di brand rinomati. Il loro sfortunato destinato, dettato da una piccola macchia, un filo tirato, o talvolta dal semplice fatto di essere fuori moda, viene improvvisamente ribaltato da chi sceglie di dargli nuova vita.
Non meno importante è la dimensione ecologica. Comprare usato è una scelta sostenibile perché riduce il nostro impatto ambientale riducendo l’emissione di Co2 derivata dalla produzione (o sovrapproduzione, forse) di nuovi beni e evitando ulteriori sprechi d’acqua. Inoltre, si incentiva la pratica di allungare la vita degli indumenti, a cui si riconosce valore e funzionalità finché è possibile. Poi, quando saranno troppo usurati per continuare a essere indossati, potranno essere riconvertiti a nuovi usi o i loro tessuti reimpiegati per creare nuovi capi.
Infine, un altro motivo che spinge sempre più giovani ad acquistare second-hand è l’obiettivo di accaparrarsi un pezzo unico, accogliendo con entusiasmo la sfida di pensare ad abbinamenti originali che esaltino le sue caratteristiche, trasformando ciò che è datato in un capo capace di esprimere personalità. Ecco allora che scavare sotto mucchi di abiti disordinati non è più un fastidio ma una caccia divertente e stimolante: ogni vestito che attira la nostra attenzione induce a mettere in discussione i propri gusti, il proprio stile, offrendo spunti di riflessione come indumenti confezionati, conformi alla moda corrente, selezionati ed esposti in vetrina non potrebbero mai fare.
Seguire il proprio istinto, dare spazio alla creatività, dettare la moda invece che seguirla: il second-hand è la via per andare a caccia di sé stessi.