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Caccianemico

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di Vito Castagna

(Canto XVIII)

Scendemmo vorticosamente in groppa a Gerione, che planò fino a raggiungere un antro dalle pareti ferrose. Guardai sotto e vidi numerosi dannati disposti in due file precisissime, che attraversavano un ponte di pietra nera. Atterrammo senza che nessuno si prendesse pena di noi, poi, Virgilio congedò la bestia e svoltò verso sinistra, immergendosi nella teoria di anime.

Ci trovavamo nelle Malebolge, un enorme pozzo buio circondato da dieci valli che si proiettano verso le viscere della terra. Ve le descrivo brevemente: come i fossati che circondano i castelli, così si presentavano le bolge infernali che, a loro volta, erano attraversate da ponti che congiungevano le due rive.

Mi mossi dietro al mio maestro ma procedetti nel senso opposto a quella lunga fila di dannati che, senza rallentare, mi venivano addosso. Erano nudi, ricoperti da lividi violacei. Diavoli cornuti li frustavano nella schiena e nelle natiche per non rompere le fila. Quella folla così crudelmente precisa nei movimenti, mi riportava alla mente l’anno del giubileo (1300), quando i romani trovarono un modo per far attraversare ordinatamente i pellegrini da ponte sant’Angelo.

Ah, come si contorcevano quei dannati allo schiocco della frusta, tanto che nessuno aveva il coraggio di rompere la fila una seconda volta! Ad un tratto, uno di questi, incalzato dai colpi, mi travolse. Egli si voltò, incredulo di aver trovato un ostacolo; non era la prima volta che osservavo quel viso. Abbassò lo sguardo nel tentativo di non farsi riconoscere ma lo incalzai: «Tu, che getti gli occhi a terra, sei Venedico Caccianemico! Che ci fai qui?». Egli mi rispose mal volentieri, cercando con lo sguardo i suoi carnefici: «Condussi mia sorella nel letto del duca d’Este, ma qui non sono l’unico bolognese avaro!». Mentre parlava, un diavolo lo colpì: «Vattene, ruffiano! Qui non ci sono donne da vendere!».

Raggiunsi Virgilio e cominciammo ad attraversare il ponte. Giunti sul punto più alto, mi disse di osservare coloro che procedevano nel senso opposto al nostro:
«Guarda quel grande che non piange… che aspetto regale! Quello è Giasone, colui privò i Colchi del Vello d’Oro, che ingannò Isife e Medea, giurandogli amore eterno ed abbandonandole. Quelli della sua schiera sono gli ingannatori».

Arrivammo nell’altra sponda e qui le pareti erano incrostate di muffa e i dannati soffiavano col naso per allontanare l’aria. Infatti, un tanfo pestilenziale si arrampicava dalle pareti, tanto pungente da irritare gli occhi. Risalimmo sul ponte per osservare meglio il fondo della bolgia. Fu qui che scorsi un uomo, così lordo di merda, che era impossibile capire se fosse laico o chierico. Quello mi sgridò: «Perché guardi me più degli altri?». Ed io: «Perché io ti ho già visto coi capelli asciutti! Sei Alessio Interminei di Lucca!».

Cominciò a battersi la testa con le mani e mi gridò: «Qua giù mi hanno sommerso le lusinghe delle quali la mia lingua non era mai stanca!». Dopo aver udito quelle parole Virgilio mi disse: «Lascialo piangere. Guarda quella donna che, sozza e scapigliata, si graffia con le unghie merdose. Si chiama Taide, quella puttana che quando il suo amante le chiese se avesse meriti presso di lei, gli rispose che ne aveva grandissimi. Adesso andiamocene da qui!».