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calcio a Chiaramonte

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La seconda e ultima parte della nostra pagina di storia del calcio chiaramontano inizia e termina nel decennio degli anni ’60. Tratto dal racconto di Giovanni Catania su “Senzatempo” vol. 3, edito nel 2010, vuole essere non soltanto un racconto attinente le gesta sportive e lo sport più popolare di un paesino, ma una storia di costume all’insegna di una convivialità e di uno “stare insieme” di cui oggi si è perduta quasi ogni traccia. Un “piccolo mondo antico” dove vivevamo tutti più felici ma non lo sapevamo.

di Redazione

Gli anni ’60 furono caratterizzati da un maggiore benessere diffuso che contribuì all’acquisto degli apparecchi televisivi nelle famiglie italiane. Nel mondo del Calcio si assistette, invece, alla nascita di alcune squadre-mito con le loro stupefacenti vittorie nei tornei continentali e intercontinentali: dal Real Madrid di Di Stefano all’Inter di Herrera e al Milan di Rocco. Così la popolarità del calcio finì per oscurare quella di qualsiasi altro sport, facendo da sfondo al “boom” che scosse l’economia e la società in quegli anni. Mentre la “Domenica Sportiva” e “Lascia o Raddoppia” di Mike Buongiorno diventavano le trasmissioni televisive più amate e seguite dagli italiani.

(Sopra) l’Inter di Herrera vincitrice della Coppa dei Campioni nel 1965. (Sotto) il Milan di Rocco che vinse lo stesso trofeo Internazionale nel 1969 (foto Wikipedia)

Nel territorio ibleo già si organizzavano tornei intercittadini come la “Coppa Monte Lauro” e la “Coppa Monsignor Pennisi”. Quest’ultima si giocava a Ragusa sul campo Enal (non ancora circondato dal muro di cinta) caratterizzato da un fondo durissimo di terra bianca che ad ogni incontro mieteva diverse vittime per infortunio. I tanti tifosi si assiepavano lungo la rete di recinzione del terreno di gioco, a strettissimo contatto con i giocatori, e la partita molto spesso diventava una vera battaglia senza esclusione di colpi, con il pubblico che incitava la propria squadra all’aggressione fisica degli avversari e in particolar modo dell’arbitro.

Si svolgeva solitamente a inizio estate, quando i tornei ufficiali erano già terminati e prima delle vacanze estive.  Era una preziosa vetrina per i numerosi talenti che riuscivano a dare spettacolo in un campo ai limiti della praticabilità, spesso riuscendo a fare anche giocate notevoli con le scarpe non sempre della propria misura (non di rado si giocava con scarpe a prestito). E nonostante il trofeo fosse intitolato ad un venerato Vescovo, si bestemmiava senza risparmio sia in campo che fuori, compreso nei commenti del dopo-partita.

1967. Una rappresentativa della città di Chiaramonte per la “Coppa Monsignor Pennisi” (coll. V. Alescio – Senzatempo)

Erano i tempi di Vittorio Modica, vera e propria diga invalicabile in difesa, di Vittorio Alescio, portiere di scuola catanese (aveva studiato ad Acireale), sinonimo di classe e sicurezza, di Giovanni Buscema, punta e fantasista dotato di grande velocità e ottimo tiro, di Salvatore Scribano, roccioso difensore, di Giovanni Morando, l’ala sinistra per antonomasia, di Paolo Calabrese, il Bettega dell’epoca, di Giovanni D’Amato, centravanti di sfondamento, di Vito La Terra, uno dei temibili “brasiliani”: tocco fine, classe e ironia e, infine, dell’inossidabile Paolo Morando, una vita da mediano a tutto campo (Altri li ritroverete nelle foto a corredo).
La nostra “Domenica Sportiva” in versione paesana andava in onda di lunedì, tipicamente in piazza Duomo, seduti all’ombra e vicino alla sala dei primi flipper e dei “bigliardini” (calcio balilla) di don Vincenzo (rigorosamente lato bar Italia).

1967. Vittorio Modica e Paolo Calabrese. La maglia era quella dell’orologeria del Sig. Raffaele Salerno (coll. V. Modica – Senzatempo)

Giovani e meno giovani stavano ad ascoltare i racconti dei loro beniamini sportivi tra un sorso di gazzosa e una leccata di gelato. Così si raccontava di goal evitati perché qualcuno aveva abbassato, di soppiatto, i pantaloncini all’attaccante avversario o per averlo intimorito con astute minacce grazie alla propria prestanza fisica. Oppure, ancora, delle furbizie del chiodo che il portiere conservava di nascosto da inizio partita e che tirava fuori, eventualmente, a partita ormai irrimediabilmente compromessa per far fuori l’unico pallone disponibile.

Come avveniva il giochetto disonesto? Si aspettava che la palla varcasse la linea di fondo e il portiere, nel recuperarla, provvedeva con mano lesta a bucare il pallone, per poi liberarsi immediatamente del “corpo del reato”. Il pallone si sarebbe ovviamente afflosciato dopo pochi secondi. Così nell’impossibilità di continuare la partita senza pallone di riserva, il povero arbitro era costretto a sospendere e rinviare l’incontro tra le bestemmie della squadra prossima alla vittoria e la soddisfazione malcelata di quella prossima alla sconfitta.

I compianti Salvatore Scribano e Giovanni D’Amato con la maglia del Bar Nicosia (coll. Bertucci – Senzatempo)

Altra curiosità riguardava l’attrezzatura tipica dei giocatori della squadra che rappresentava la città. In mancanza di una divisa ufficiale, almeno i borsoni sportivi della squadra, nei tornei forestieri, erano uguali per tutti. Si trattava di una pesante valigia in legno poco pratica e molto scomoda. Venivano costruite artigianalmente dal Signor Vito La Terra (uno dei cosiddetti “brasiliani” di cui sopra).

1966. La squadra del Bar Firenze (antenato del Ristorante ‘U Dammusu’) (coll. Bertucci – Senzatempo)

Intorno al 1965/66 iniziarono i tornei cittadini sul mitico campetto polveroso di San Vito. Essendo di misura più piccola rispetto allo standard previsto, si poteva giocare soltanto con squadre composte da sette giocatori. Le stesse squadre però cominciarono ad assumere non più i nomi delle origini, ma quelli degli sponsor. Una vera rivoluzione epocale. Dunque, non più l’Edera (repubblicana) ma il Caffè Guccione, non più la Libertas (democristiana) ma il Bar Firenze (l’antenato dell’attuale Ristorante “U Dammusu”), non più la Fiamma (missina) ma il Bar Nicosia. Poi, grazie ai miti televisivi, si affacciarono nomi come l’Indipendiente, il Real, e così via. ll boom economico degli anni sessanta aveva cambiato abitudini e modalità di vivere il calcio. Era finita anche l’epoca delle collette per comprare il pallone, adesso era possibile trovare anche i soldi per comprare non soltanto più di un pallone, ma addirittura i completi sportivi per tutti i giocatori delle squadre. Miracoli di un inizio di benessere diffuso.

1968/69. La squadra sponsorizzata dall’albergo ristorante ‘La Pineta’ (coll. V. Modica)

Negli anni sul campetto di San Vito si vide di tutto, ma proprio di tutto, tra pianti a dirotto e gioie incontenibili, tra pugni ben assestati e baci per far pace, tra goal impossibili e goal clamorosamente mancati, tra liti furiose e riconciliazioni da libro cuore. Si videro anche giocatori quasi nudi (non c’erano spogliatoi) e signore eleganti che si fermavano a guardarli, squalifiche ignominiose a vita per aggressione agli arbitri e ritorni fraudolenti in campo con nuove false identità, fino alla sospensione di partite per furto di palloni e partite disonorevolmente vendute a tavolino per una cena luculliana a base di salsiccia.

Anni ’60. La squadra cittadina del Chiaramonte festeggia nell’Aula Consiliare del Municipio una delle sue vittorie (coll. P. Morando – Senzatempo)

Dal 1969 (circa) in poi si cominciò a giocare anche di sera grazie alla nuova illuminazione artificiale installata e iniziò così l’era dei tornei notturni. Nacquero nuove squadre e nuovi  giovani campioni. Finita l’era della Fiamma, quella dell’Indipendiente e del Bar Guccione, nasceva il nuovo astro della Gulfi… e la storia continuerà.

Link alla prima parte. Clicca qui!

Tra le tante storie che abbiamo raccontato nelle nostre pagine, non poteva mancare la pagina del calcio. Ci ha pensato l’amico Giovanni Catania che, nel 2010, su “Senzatempo” (vol.1 e 3) di Giovanni Bertucci (di cui oggi ricorre il sesto anniversario della scomparsa), ha raccontato quella piccola epopea paesana fatta di grande e genuina passione e che noi di oltreimuri.blog abbiamo rieditato in due puntate, con diverse foto. Il secondo appuntamento sarà per il prossimo mercoledì.

di Redazione

Si giocava anche sei, sette ore al giorno nel polveroso campo di San Vito e credevamo di essere i primi e unici calciatori del mondo. Erano momenti di felicità da raccontare a scuola l’indomani, descrivendo gesta che restavano nei ricordi e nei racconti di quanti trascorrevano le lunghe serate invernali al Bar Nicosia (oggi Bar Arena), o in quello ro Salitu (Caffè Roma) o al Bar Di Giacomo (non esiste più) tra una nota di Salvatore Adamo e una steccata a vuoto nel famigerato biliardo (per noi “carambola”), o qualche anno dopo davanti alle pizzette calde, profumate e dal vago sapore veneto, del Bar Sicilia del Sig. Gatto e gentile Signora.

Quattro degli storici caffè chiaramontani, ieri e oggi

La nostra storia inizia negli anni ’50, ancora prima dell’Inter di Herrera, del Milan di Rocco o della Juve di Boniperti. Inizia precisamente nel 1949, con la tragedia del grande Torino a Superga, dove perì l’intera squadra in un disastro aereo. La tragedia ci apparve come una maledizione biblica che il nostro paese, uscito a pezzi dalla rovinosa guerra mondiale, non meritava.
A Chiaramonte invece, i campioni erano altri. Da noi si chiamavano Noto, Scribano, Morando, Guccione, D’Amato, Zaffarana, Buscema. Le squadre avevano i nomi di gruppi religiosi, politici, di quartiere, di calcio balilla, di bar e ristoranti.

Il grande Torino (campionato italiano 1948/49)

Qui i presidenti spesso erano i segretari delle sezioni di partito (quelli più illuminati, ovviamente), che investivano nei giovani e, senza saperlo, utilizzavano il calcio per operazioni di puro marketing politico. Ancora prima delle sigle politiche, però, il calcio chiaramontano fu “inventato” da un prete e dal presidente di Azione Cattolica dell’epoca. Fu così che tra il 1951 e il 1952 nasce ufficialmente la squadra dell’Azione Cattolica, diretta dallo storico Presidente (e professore) Paolino Failla e da padre Leggio, che curava anche l’oratorio parrocchiale. Padre Leggio fu prete, parroco, vicario, curato di campagna e tutto quanto allora un prete poteva e doveva essere, compreso l’allenatore di calcio. Le magliette erano a strisce giallorosse, un ripiego, perché l’allenatore in tonaca le aveva cercate inutilmente a strisce gialle e bianche: i colori del Vaticano.

La squadra dell’Azione Cattolica (in alto nel 1952, in basso nel 1953) (Collezione S. Morando-Senzatempo)

In un giorno del freddo inverno del 1952, i ragazzi che frequentavano l’Azione Cattolica trovarono un cartello affisso proprio davanti l’oratorio dell’Annunziata dal contenuto inequivocabile: “Vuoi partecipare al torneo di calcio che si svolgerà nel campo di San Vito?…”. Cominciò così l’avventura paesana e finalmente il pallone di gomma fu sostituito da uno più adeguato di cuoio, chiamato “Super Santos”.
Negli stessi anni nasce l’U.S.F (Unione Sportiva Fiamma). Gioacchino Falsari primo Presidente e Vito Failla, dirigente e sindacalista del Movimento Sociale, primo direttore sportivo. Poi a seguire nacquero altre squadre come l’Edera (del Partito Repubblicano) e la Libertas (della Democrazia Cristiana).
Nacque così anche la nostra “Champions League” chiamata “Coppa Monte Lauro”… famosa per le lotte all’ultimo sangue tra squadre iblee, ma soprattutto per le botte!

La squadra della Fiamma (1952) ((Collezione Bertucci-Senzatempo)

Le partite venivano disputate inizialmente nel piano di San Vito, poi sull’Arcibessi, nei pressi della vecchia stazione ferroviaria: un rettangolo di gioco con due pendenze a più di 800 mt di altezza, immerso, d’inverno, nella nebbia e nel gran freddo. In seguito ci si spostò più saggiamente a valle, vicino al Santuario della Madonna di Gulfi, dove il clima, almeno d’inverno, era un po’ più accettabile. L’idea e la realizzazione fu merito dell’allora Presidente della Fiamma, Falsari. Le porte senza pali né reti erano delimitate da due pietre da una parte e dall’altra, poi, successivamente, sostituite da più “professionali” porte smontabili a fine partita.

La squadra del Chiaramonte, con i tifosi, l’arbitro e i dirigenti sul campo dell’Arcibessi vicino alla vecchia stazione ferroviaria (1960/61) (Collezione C. Pulichino-Senzatempo)

Della prima “Coppa Monte Lauro” più che i risultati sportivi si ricordano ancora le botte da orbi tra i giocatori della squadra della Fiamma e quelli di una squadra di Buccheri: uno scontro rimasto epico per il numero dei feriti e per le giornate di squalifica accumulate: praticamente per l’intero campionato. Fu l’occasione per spostare il campo sportivo, come detto, in un rettangolo di terra di fronte al Santuario di Gulfi, preso a prestito e sistemato dagli americani della compagnia petrolifera Gulf (grazie ad una enorme ruspa) in quel periodo impegnati nelle ricerche di petrolio negli iblei. Pare che il proprietario del terreno fosse anche disposto a cederlo per la non-modica somma di 200/250 mila lire, per cui l’acquisto fu prospettato al Consiglio Comunale dai consiglieri di minoranza del Movimento Sociale, ma respinto dalla maggioranza consiliare (democristiana).

La squadra della Fiamma negli anni ’60 (Collezione V. Laterra-Senzatempo)

La prima squadra della Fiamma si sciolse nel 1955, forse per mancanza di fondi, o forse perché le elezioni andarono male, e i suoi giocatori entrarono a far parte di altre squadre. Era un periodo in cui le società sportive aprivano e chiudevano con grande facilità: tutto nella massima precarietà. Ovviamente non si giocava per soldi e nemmeno per i trofei. Ai vincitori dei tornei cittadini spesso andava qualche chilo di salsiccia e nient’altro. Ma il calcio rimaneva forse lo sport più inclusivo: tutti potevano giocare, anche se non sapevano calciare, spesso bastava che sapessero almeno atterrare l’avversario.

La squadra dell’Edera in trasferta nel campo ragusano di via Archimede (1961) (Collezione V. Alescio-Senzatempo)

Le difficoltà erano tante anche per comprare un pallone, che per anni fu sempre lo stesso, di cuoio ruvido, cucito e ricucito mille volte dai ciabattini locali. Le squadre più fortunate avevano tra i loro tifosi addirittura delle ragazze che, grazie al loro savoir faire raccoglievano i fondi necessari a pagare le spese. La compianta Signora Iana D’Amato pare fosse tra le più brave e determinate e riusciva sempre a raggranellare quel che bastava per la partita del giorno e quella seguente.

I fratelli Noto, meglio conosciuti come “l’africani” (perché erano stati a lavorare in Africa) (Collezione Guccione-Senzatempo)
La squadra dell’Azione Cattolica con padre Leggio nel campetto di San Vito (1953) (Collezione S. Morando-Senzatempo)