di Giuseppe Cultrera
Certo il posto è suggestivo: una cava incontaminata con una serie di ipogei di epoca paleocristiana e bizantina, un pigro torrente che scorre a fondo valle tra ciottoli bianchi e crescioni e nel dedalo di stradine annaspanti tra stretti e cadenti muri a secco, maestosi carrubi secolari, ruderi di edifici rurali, resti di abitati medievali, ricoveri segreti di antichi e misteriosi briganti. E una antica masseria con al centro la “turri ‘i Rrenna” avanzo di un castello feudale. Nucleo centrale di un ex feudo di 300 salme che un manoscritto del canonico G. Boscarino ricorda ormai incolto e abbandonato, ricovero nel passato di briganti che avevano occupato gli aggrottamenti. Con una storia – anzi due o tre – insolitamente pepate.

Queste terre l’abitarono dei monaci che stavano nella torre, dicevano messa nella chiesetta accanto, confessavano massari e contadini della zona; ma specialmente stavano attenti a non farsi arrubbare dai mezzadri e braccianti che coltivavano il loro feudo. Tutti chiesa e casa di giorno. Di notte, quando nessuno poteva vederli, briganti di roba e di donne. Rubavano di tutto a man bassa, ma la loro passione erano le belle donne, specie quelle giovani. E guardate come facevano.
Se una massarotta andava a confessarsi, arrivato il momento della penitenza il monaco biascicando con sussiego la penitenza, diceva che data la particolarità del peccato non poteva assolverla subito, anzi dopo aver ottemperato alla penitenza a casa, necessitava che ritornasse il pomeriggio per riconfessarsi onde avere finalmente l’assoluzione.
Quando la sfortunata vittima ritornava il vespero a confessarsi, entrava in chiesa e non usciva più. E non capitava a una o due, erano in tante a sparire, specie tra le più belle e giovani.

Non vi dico l’angoscia delle ignare donne oggetto di concupiscenza, spasso e crapula, di questi monaci birbanti. Che quando avevano finito di scapricciarsi le chiudevano in un sotterraneo e tornavano a caccia di roba fresca.
I contadini, incapaci di venire a capo delle numerose sparizioni di mogli e figlie, andarono a consigliarsi con il guardiano (non lo sapevano, poveretti, che era il capo opera!) che con voce roboante e strabuzzando gli occhi:
“Sciocchi! Che cercate? È opera degli spiriti maligni, questa. La tentazione del Maligno se l’è portate via.”
Restarono come allocchi. Ammutoliti si guardavano l’un l’altro tentennando il capo. Poi andarono via.
Ma la cosa andava a peggiorare, perché ne sparivano sempre più, nonostante i massari e contadini della zona mettessero la massima attenzione a proteggere le loro donne. I mariti finirono per restare persino a casa, per proteggere moglie e figlie femmine.

Accadde, però, che una giovinetta dolce e bella come uno zucchero, volle andare a confessarsi e il padre temendo che gli spiriti durante il tragitto potessero rapirla, volle seguirla. Così l’accompagnò fino alla porta della chiesa e restò ad aspettarla. Si fece notte e la figlia non usciva. Risoluto il contadino entrò, ma non vide nessuno. Allora infuriato chiamò i monaci e ne chiese conto: “L’ho vista entrare con i miei occhi!” Ma quelli, sornioni, “Vostra figlia a quest’ora sarà a casa. È uscita e non ve ne siete accorto. Vedete, qua dentro non c’è anima viva!”
Il povero padre se ne tornò speranzoso a casa. E come era prevedibile non trovò la figlia. Ma la voce che si era sparsa fece accorrere gli altri massari e contadini, che armatisi di bastoni, falci, tridenti si avviarono alla torre di Renna decisi a fare chiarezza una volta per sempre:
“O ci fate vedere tutte le stanze – intimarono ai monaci – o vi facciamo la pelle.”
I monaci per dimostrare la loro buona fede e che non avevano soggezione, spalancarono le porte e li fecero entrare in tutte le stanze.
Ma non trovarono nulla. Anche quando scesero nei sotterranei, nisba!
“Avete visto che qui non c’è nulla?”

Massari e contadini se la presero allora col padre della picciotta: “Chissà dove se n’è andata tua figlia!”
“No – urlava il povero padre – vi giuro, l’ho vista entrare qui. Non è potuta volare, qua deve essere!” E mentre parlava gli occhi si soffermarono su una grande valata in un angolo, che al centro aveva un anello. Risoluto afferrò l’anello, sollevò la botola e vide una scala in pietra che scendeva sottoterra: urlò il nome della figlia ed ebbe la sensazione di sentire delle voci che rispondessero. Corse verso il sotterraneo mentre gli altri, afferrati i monaci, li legarono come salami e subito dopo seguirono l’infelice padre. Sotto c’erano tutte le donne sparite (c’erano anche parecchi bambini: i figli che le sventurate avevano avuto coi monaci): li tirano fuori e al loro posto ci ficcarono i monaci.
Non finì: il padre della picciotta, furente, andò a Palermo dal Re: “Giustizia maestà!”. E l’ebbe. Perché il Re non solo fece ammazzare i monaci perversi, ma diede in censo a quei contadini e massari le terre confiscate.
Nei sotterranei del castello restò incantesimato un tesoro – una ninfa (lampadario) tutta d’oro massiccio – che viene custodita dagli spiriti dei briganti che abitarono quei luoghi o da un monaco, anima dannata di uno di quegli altri briganti che rubavano anche donne.
Una volta quattro fegatosi, due mascoli e due femmine, s’avventurarono nel sotterraneo muniti di corde e lampade all’acetilene: dopo un arduo percorso giunsero a una serie di cammare tutte ricavate nella roccia e qui si presero un bello scanto, perché le lampade spentesi di colpo non ci fu verso di riaccenderle; e per ritrovare l’uscita solo Dio sa come ci riuscirono, con quello scuro che si tagliava a fette. E fu tanto lo scanto che tutti e quattro caddero malati!
Ma qualcuno, a mezza voce, racconta che una partita invece superarono quelle stanze (ora non più raggiungibili perché intasate di materiali) e nell’ultima trovarono un monaco che li aspettava a braccia aperte: voleva abbracciarli, il buontempone! Che se l’avessero fatto l’avrebbero sbancata la trovatura e si sarebbero arricchiti come pascià. Invece si scantarono e se ne tornarono di prescia indietro: restando con l’occhi cini e le mani vacanti!
Pertanto anche questo tesoro incantesimato, aspetta un predestinato.

Due note a margine:
Torre di Renda: La Torre, la chiesetta e il fabbricato rurale assieme al vasto feudo furono proprietà del Collegio Gesuitico di Modica, pervenuti probabilmente per eredità del P. Girolamo Renda Ragusa (1665-1727), scrittore e storiografo di quell’ordine. Il toponimo cava e contrada di Renna, è la corruzione popolare del nome del famoso gesuita. Soppressione dell’ordine (sul finire del ‘700) e conseguente alienazione del fondo, nell’immaginario popolare si combinò con la presenza di monaci birbanti, briganti che nascondevano refurtive e tesori sepolti nei meandri della terra.
I briganti: Nelle grotte adiacenti, si tramanda, anticamente si nascondevano dei briganti che operavano scorrerie nelle regioni limitrofe. E forse, come è usuale nei sostrati leggendari, c’è del vero: per lo meno a leggere il documento (conservato nell’archivio di Stato di Modica, Tribunale del Patrimonio, Registro 6° di lettere patenti, c. 167) di nomina a capitano di una squadra di armati destinati a reprimere il banditismo. Datato 1 agosto 1627 e firmato dal governatore della Contea di Modica don Paolo La Restia : “conoscendo per esperienza ch’il tempo che la campagna se trova senza continua guardia viene continuamente ad essere molestata de ladri non solo con furti alli viandanti ma con cattivatione et compositione et altri gravi eccessi notabili in Giudicio della Giustizia et della securtà publica particularmente delle masserie et arbiarcanti che tanto importano, delle quali in puocho tempo sono stati fatti diversi furti e particolarmente la cattivatione di Manfrè Cabibbo della città di Ragusa, il quale al presente sta in potere loro havendolo asaltato cinque compagni armati essendo nella aira sua in contrada di Renda, et quelli si presero et purtaro seco”.

Banner: Foto di Giovanni Tidona