di Vito Castagna
(Canto XXXI)
Abbandonammo le Malebolge senza dire una parola. Solo qualche pietra che si staccava dal costone roccioso e rotolava verso il fondo spezzava quel nostro silenzio e distoglieva i miei pensieri dal sangue appiccicoso che avevo visto scorrere dai corpi mutilati, dalla furia dei falsari che spinge l’uomo ad azzannare coi denti il proprio compagno. A quanto dolore avrei dovuto assistere, mi chiedevo; quanto in fondo sarei dovuto scendere per sfuggire dai peccati dell’uomo? Più conosco e più mi perdo in questo labirinto.
Ad un tratto, il canto di un corno arrivò da lontano, fendendo quella luce irreale che non apparteneva né al giorno né alla notte. Fu un suono così forte che avrebbe zittito il rombo dei tuoni e che mi spinse ad indovinarne la direzione. Nemmeno Orlando avrebbe potuto suonare con così tanta veemenza il suo corno a Roncisvalle, pesai. Poi, la luce si fece un poco più alta e riuscii a scorgere delle torri, che mai mi sarei aspettato in quel luogo: «Maestro, dove siamo? Quelle laggiù sono torri!» ed egli mi rispose: «Tu guardi troppo da lontano. Queste tenebre ti fanno vedere quello che non c’è». Virgilio sembrava irritato dalla mia affermazione ma, forse ricordatosi dei miei limiti umani, prese la mia mano e disse dolcemente: «Quelle non sono torri, sono giganti. E stanno tutti intorno a questa voragine, conficcati nella roccia dall’ombelico in giù».
Come quando la nebbia si dissipa, riuscii lentamente a scorgere quelle figure; pareva di scorgere Monteriggioni incoronata di torri, qui, invece, i giganti svettavano su quel pozzo nero. Eravamo così vicini che ne potevo scorgere le fattezze. La Natura fece bene a smettere di generare tali bestie, questo è un esempio della sua saggezza. Nessuno, infatti, potrebbe resistere ad una tale unione di razionalità, crudeltà e forza.
Ne vidi uno che aveva il volto talmente grosso e allungato che somigliava alla Pigna di San Pietro e di quella proporzione erano tutte le altre membra. Quello si volse verso di noi con gli occhi stralunati e cominciò ad urlare: «Raphél maì amèche zabì almi!». La sua voce era talmente possente che una raffica di vento ci travolse. Virgilio non se ne turbò e gli disse: «Anima sciocca, sfoga la tua ira col tuo corno piuttosto! È lì, legato al tuo collo e sta sul tuo petto!». Poi si rivolse a me: «Questo è Nembrod, fu lui a far costruire la torre di Babele ed è per colpa sua se oggi si parlano così tante lingue. Lasciamolo stare, perché tutto ciò che diciamo gli sarà incomprensibile, così come lo sono le parole che pronuncia».
Ci allontanammo fino ad imbatterci in un altro gigante possente, dalle braccia legate dietro la schiena da una catena avvolta attorno al suo corpo: «Questo è Fialte, colui che sfidò Giove quando i titani diedero battaglia agli dei. Quelle braccia che levò contro di loro adesso sono legate. L’altro che vedi qui vicino è Anteo, l’unico a non essere imprigionato nella roccia» e lo indicò col dito. Fialte tentò di muoversi e la terra si scosse con così tanta forza che una torre sarebbe caduta al suolo. Le catene lo tenevano divincolato, serrandogli il collo, e quello provò con tutte le sue forze a romperne gli anelli, ma fu tutto vano. Mai come allora temetti di morire.
Corremmo verso Anteo, così alto da uscire per sette metri dal proprio anfratto. Virgilio si rivolse a lui: «Anteo, deponici sui ghiacci del Cocito. Questi che è con me è vivo e potrà darti la gloria sulla terra». A quelle parole, il gigante aprì il palmo della sua mano e ce lo parò dinanzi. Virgilio allora mi abbracciò, come se fossimo un unico fascio. Anteo ci prese ed era tanto enorme a vedersi che sembrava stesse per cadere su di me. Poi, lentamente, ci depose sul fondo ghiacciato, che punge Lucifero e Giuda, e tornò indietro.