Continua il nostro interesse per il mondo carcerario, soprattutto alla luce dei tanti suicidi che quest’anno segneranno un picco mai rilevato in passato (79 al momento). Una strage silenziosa che è un chiaro atto d’accusa per una politica “distratta”, che ha smesso da tempo di occuparsi degli ultimi. Spinti da questa problematica, abbiamo voluto dialogare con Carlo Mazzerbo, già direttore della Casa di reclusione di Gorgona (Livorno) dal 1989 al 2004, e poi dal 2013 fino al luglio scorso. Per la casa editrice Nutrimenti ha scritto “Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro, riscatto” (2013): frutto di un’esperienza lunga quasi 40 anni.

di Vito Castagna
Da anni si parla di una riforma in grado di rinnovare il sistema carcerario. Purtroppo, tutt’oggi questa esigenza rimane inascoltata. Cosa ne pensa al riguardo?
Durante la mia attività, ho notato la mancanza di una politica che rivedesse l’esecuzione penale e giudiziaria, e che si interrogasse su quale senso dover dare alla condanna, Non voglio farne un discorso politico ma, di fatto, nel corso degli ultimi vent’anni, il sistema carcerario ha vissuto sulle eredità passate, senza ricevere investimenti materiali ed umani. La mancanza di visione ha colpito molto la Giustizia, così come la Sanità.
Nel mondo degli addetti ai lavori, vi sono stati cambiamenti significativi sulla gestione dei detenuti?
Nel 2020, si è tentato di sganciare in linea gerarchia la figura del Comandante da quella del Direttore. Ciò comporta che quest’ultimo, che è un civile, sia responsabile dell’istituto e al contempo sia il solo a comandare il personale, compreso il capo degli agenti. Questa operazione può essere intesa come la volontà di far prevalere una visione più “custodiale” del carcere e non “trattamentale”. Purtroppo, così facendo, si è cercato di preservare la sicurezza degli istituti, mettendo in secondo piano la rieducazione dei detenuti.
La popolazione carceraria è in costante mutamento. Ciò ha generato ulteriori problematiche?
Certamente, basti pensare che i detenuti che provengono dalla criminalità organizzata costituiscono solo il 5% della popolazione dei distretti. Invece, la massa è composta da stranieri, tossici, malati mentali, che nel carcere trovano un contesto inadeguato alla loro condizione. La nostra amministrazione è del tutto impreparata alla gestione di un nucleo così alto di casi di questa natura. Molti detenuti potrebbero ottenere l’affidamento ai servizi sociali e alle comunità terapeutiche se ci fossero strutture in grado di accoglierli. Ma la scarsezza di fondi e di strutture attrezzate costituisce un problema atavico.

In questi undici mesi, il numero dei suicidi in carcere è salito a 79 persone. Può il contesto di abbandono essere uno dei possibili responsabili di questo dato spaventoso?
Per spiegare questo fenomeno potremmo mettere insieme diversi elementi. Innanzitutto, le strutture sono fatiscenti. Ad aggravare la situazione vi è la concezione che sta dietro alla loro costruzione, volta alla sola custodia e non al recupero, poiché il detenuto è costretto a passare venti ore al giorno chiuso in una cella sovraffollata, lontanissima dagli standard imposti dalla legge. A ciò uniamo la mancanza di educatori, psicologi e medici. Ad ogni educatore sono affidati circa 50 detenuti, i quali avranno possibilità di dialogare con lui solo una volta al mese. Si è parlato tanto di carcere della speranza, ma togliendo anche quella il suicidio può divenire purtroppo una soluzione.
In che modo si potrebbe combattere l’inadeguatezza delle carceri italiane?
Non c’è una ricetta precisa, ma credo che bisognerebbe limitare il carcere a chi è estremamente pericoloso. I dati hanno dimostrato che chi termina la pena in due alternative, in semilibertà o ai domiciliari, ha il 70% di possibilità di non tornare in carcere, mentre chi trascorre tutta la sua detenzione in galera all’80% vi fa ritorno. In secondo luogo, bisogna avviare attività scolastiche, laboratori teatrali, guidare i detenuti nel mondo del lavoro, incentivare con convinzione i colloqui con i familiari. Il carcere dovrebbe avere continue relazioni con l’esterno.
In conclusione, potrebbe parlarci del modello virtuoso di Gorgona (Livorno), del quale è
stato direttore per molti anni?
Gorgona in quanto isola ha mille potenzialità ma al contempo può essere un posto infernale.
E’ una questione di prospettiva. Lì non abbiamo fatto altro che applicare la legge, cercando di creare una piccola comunità, nella quale ognuno aveva un proprio compito. Ciò era possibile anche grazie al numero contenuto della popolazione carceraria, che potevi conoscere e seguire. Noi operatori eravamo rigorosi e al contempo elastici e cercavamo di trovare un giusto rapporto tra legge e umanità. Fondamentalmente, il nostro obiettivo è stato quello di dimostrare che lo Stato è lì per aiutarti e con convinzione abbiamo cercato non di formare dei buoni detenuti ma dei buoni cittadini.