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di Luigi Lombardo

Palazzolo e Chiaramonte due paesi simili per tradizioni, costumi, usanze alimentari e legati da rapporti culturali molto forti, specie negli ultimi decenni. La casa editrice Utopia è stato il cemento culturale tra i due paesi. L’editore Giuseppe Cultrera, con altri collaboratori, tramite essa ha tessuto rapporti culturali in provincia e fuori provincia, in particolare con l’area siracusana e il vicino comune di Palazzolo dove l’amicizia col sottoscritto e con Giuseppe Rovella ha prodotto una serie veramente pregevole di pubblicazioni. Utopia ha pubblicato quasi tutti i romanzi di Rovella e diversi saggi del sottoscritto, che sarebbe lungo elencare.

Insieme il Cultrera e il Lombardo hanno dato vita alla rivista “La Siciliana nuova”, che pubblicava in allegato la storica rivista “La Siciliana”, edita dal Gubernale: un tentativo, purtroppo non portato a intero compimento (nel progetto c’era la ristampa di tutta la preziosa rivista), a causa della insensibilità di alcuni enti e imprese private che non seppero rispondere all’invito dei redattori (questa è stata ed è la Sicilia, fatte le dovute eccezioni, di cui qualche volta bisognerebbe parlare).

Ma in altre cose i due paesi sono simili, e quest’aspetto, non sembri effimero, è il Carnevale, l’antico Carnevale naturalmente, quello che ha lasciato tracce consistenti nella pubblicistica e in alcuni residui folklorici persistenti. Serafino Amabile Guastella ci ha lasciato un’opera che è il caposaldo per la conoscenza del Carnevale Ibleo, descrivendo con minuzia rituali, oggi scomparsi, maschere e letteratura orale tipica di questo importantissimo rito festivo che è il Carnevale, l’unica festa senza santi, anzi con una “santo” tutto particolare, il Re Carnevale, un dio che nasce e muore come ogni fenomeno naturale, come la vita stessa.

Dalle antiche feste agrarie legate presso i Romani al Capodanno e note col nome di Saturnalia, deriva, con ogni probabilità, il nostro Carnevale. Sul significato della parola dubbi e ipotesi non mancano. Ma un dato in tanta ridda di teorie sembra incontrovertibile: nella parola stessa si sottolinea il significato della festa: l’eccesso alimentare, l’orgia rituale che caratterizzava le feste di fine anno, che si continua ai giorni nostri.

Base della parola è senz’altro carne cui si aggiunge il composto di più difficile interpretazione, cioè levare, che assai semplicisticamente è stato letto nel significato più letterale, cioè togliere, eliminare: ma il Carnevale non si caratterizza per l’esatto contrario, cioè per l’uso, a volte smodato, sempre comunque esibito, di carne? E allora perché quel significato improprio di periodo in cui si toglie la carne? D’altra parte nel siciliano antico esiste un’espressione livarisi di carni, livarisi di vinu, che significa proprio mangiare smodatamente o bere vino senza controllo, che poi e l’esatto corrispettivo linguistico di tollere vinum latino che significa bere vino in eccesso. Carni luari o carni livari significano dunque l’esatto opposto di quanto a primo acchito può dire l’espressione.

Detto questo, il saggio del Guastella “L’antico carnevale della Contea di Modica” è l’opera più completa sull’antico Carnevale, che forse già ai tempi dello scrittore era in declino se è vero che spesso ne parla al passato. L’opera nella prima edizione fu pubblicata nel 1877 col titolo Antico Carnevale (Modica, Segagno), ripubblicata nel 1887 col titolo più specifico di cui sopra.

La descrizione che del Carnevale fa il barone ci riporta a un carnevale comune all’area iblea, in quanto a tempi, modalità e temi. Come ovunque in provincia (Siracusa e Ragusa fino al 1931 erano un’unica provincia) i giorni propri del Carnevale erano chiamati “sdirri” «e più particolarmente – continua il Guastella – sdirriruminica, sdirriluni e sdirrimarti, e la sera del martedì sdirrisira. Il giovedì grasso, o berlingaccio toscano, è da noi chiamato u iovi lardaloru, il giovedì precedente è chiamato iovi di li cummari, e infine il giovedì che precde i due indicati, il popolo lo battezzò iovi di lu zuppiddu. Per altro in Chiaramonte il giorno del zuppiddu è il mercoledì, e in altri paesi il venerdì: diversità di giorno, non di sostanza; e a ciascuno di tali giorni è stato appropriato un proverbio che all’ingrosso lo definisce. Così diciamo:
Lu iovi di lu zuppiddu / cu nun si cammira e peiu pir iddu; lui ovi di li cummari / cu nul l’ha si li fazza mpristari; lui ovi di lu lardaloru / i frati mmitavanu i suoru; / ora i tiempa su canciati / e i suori mmitanu i frati; oppure: Lu iornu di lu lardaloru /la mamma s’ampigna lu giggiolu; la sdirruminica fatti amica a monica; oppure ancora La sdirruminica: varditi ca lu puieta sbuommica!»
.

Di grande interesse etnologico è senz’altro quest’altro proverbio:
“Lu sdirriluni: aranci a buluni”, cioè il lunedì di carnevale arance a volontà. Arance? come ad Ivrea, cioè lanciate a mo’ di battaglia? proprio così, v’era un po’ ovunque nei paesi iblei e altrove senz’altro l’uso di inscenare battaglie col lancio di vari oggetti: coriandoli, talco, nerofumo, ceci, e … arance, che in questo periodo sono abbondanti. Non meravigli questa usanza, che ancora sopravvive ad Ivrea. In un “banno”, cioè ordinanza emessa dai giurati di Palazzolo nel 1663, si proibiscono diversi giochi soliti farsi a Carnevale, tra cui il lancio delle arance sotto forma di battaglia: com’è piccolo il mondo!

Ma ecco il Banno emesso dal “Municipio” (Università) di Palazzolo:
«Die quinto Ianuarii 1663 … perché si vide che quelli giochi che si fanno in questi giorni di Carnelevari tanto in gittari arangi, darsi mazzolati d’una parte e l’altra, purtari all’acqua et altri giochi … con lo intento di livari gli inconvenienti si have fatto d’ordine del signor capitano l’infrascritto banno per lo quali si ordina che nessuna persona di qualsiasi stato e grado … voglia ne debia giochare et aver giochato con arangi, colpi di mazzonati, purtari ad acqua et altri giochi … sotto la pena di onze 4 e sei mesi de canne».

di Giuseppe Cultrera 

Il convitato (controvoglia) alla tavola del carnevale chiaramontano era il maiale. Ed era pure, durante tutto l’anno, una presenza costante nella fattoria o nel piccolo casolare di campagna, persino nel dammuso in paese. Contadino, bracciante, popolana ne allevavano uno o più l’anno con i resti del cibo o con le ghiande raccolte, dov’era possibile: raramente con un pastone di crusca.

Ciò, chiaramente, avveniva nel tempo andato e fino a metà del secolo scorso. Ma ancor prima quest’animale – diciamolo pure poco apprezzato, spesso vilipeso, evocato nelle invettive o insulti più violenti…  –  questo animale, per lo più mite, era compagno, assieme all’altrettanto mite e bistrattato asino, del contadino o popolano.

La cucina, a base di maiale, è perciò molto antica e radicata nella nostra area. E presenta delle varianti nell’utilizzo delle sue parti: «del maiale, ci ricorda un detto popolare, non si butta niente».

 Non approfondiremo perciò tutte le tecniche per la conservazione, che sono note, né l’impiego nella preparazione di piatti appetitosi: oggi le une e gli altri sono degnamente rappresentati come eccellenze e peculiarità di Chiaramonte, con ricaduta economica e turistica notevole.

Là dove si magnifica il porco
Andy Worhol, Fiesta pig. (A destra): E. S. England, A prize sow

Il mio intervento, invece, scruterà gli inizi della vita socioeconomica della Chiaramonte medievale da poco rinata sul colle, quando, questo convitato involontario del nostro Carnevale, presumibilmente divenne presenza costante nel territorio.

Territorio che sappiamo era ricoperto da vaste distese boschive sottostanti alla città.  Le contrade di S. Margherita, Scifazzo, Canzeria erano rivestite da una folta macchia mediterranea dove avevano preminenza le querce da ghianda e gli alberi da frutto selvatico (il toponimo Pomilia, contrada contigua a S. Margherita, esplicita tale presenza). Sappiamo pure che il feudatario signore del luogo, Manfredi Chiaromonte, aveva concesso, fin dal sorgere della città, agli abitanti lo jus pascendi e lo jus lignandi vale a dire il libero pascolo e il diritto di utilizzare razionalmente la legna del bosco.

Attività primaria, di questa popolazione del XV secolo, era l’allevamento, specialmente quello di maiali domestici e selvatici (canziria, nome della citata contrada è ètimo di origine araba, deriva da kanzir = cinghiale, vale a dire maiale allo stato brado).

Là dove si magnifica il porco
Maiali al pascolo che si cibano di ghiande; miniatura dal Très Riches Heures du Duc de Berry, sec. XV (Museo Condè, Chantilly) – (A destra) San Antonio e il maiale, miniatura medievale del Libro dOre,1480, Aix-en-Provence

Due documenti attestano questa attività economica praticata dal basso medioevo in poi:

– Il primo è una supplica dei giurati chiaramontani indirizzata al Conte Giovanni Cabrera;

– l’altro una narrazione popolare che ha base storica e che, come vedremo, fa riferimento e viene convalidata dalla sopradetta supplica.

Iniziamo con la narrazione popolare, raccolta direttamente dal popolo da un ricercatore d’eccezione, vale a dire Serafino Amabile Guastella, che non pubblicò personalmente ma trasmise allo storico locale P. Samuele Nicosia per le sue «Notizie Storiche su Chiaramonte Gulfi».

Chi volesse leggerla in originale la troverà, nella citata opera, col titolo A turri re muorti. È

pure nota come la Storia dei sette fratelli Minutiddi, porcari che tenevano al pascolo il loro gregge nei boschi attorno al borgo.  Passavano per persone sicure del fatto loro, poco propensi a subire imposizioni, ma disponibili alla difesa dei più deboli. Per questo avevano un grande ascendente sugli altri allevatori chiaramontani.

Là dove si magnifica il porco
Bottega di un macellaio; in: Tacuinum sanitatis, codice miniato del XIV secolo. – (a destra): Pieter Bruegel il Vecchio, Proverbi fiamminghi (particolare), 1559

A quei tempi (siamo nel XV secolo) comandava «don Ramunnu u capitanu ‘ro nuosciu castieddu», racconta l’anonimo narratore popolare, il quale a differenza del buon Manfredi voleva privare il popolo delle agevolazioni concesse, anzi intendeva mettere delle tasse proprio sulle greggi al pascolo e sull’utilizzo del bosco.

Così, mentre gli uomini erano al lavoro, mandò il banditore per le vie del paese: «Bannu e cumannamientu: tutti chiddi ch’anu piecuri crapi e puorci…» entro tre giorni dovranno farne denuncia al capitano pena la confisca degli animali e il carcere.

Si trovava per caso quel giorno in paese uno dei fratelli Minutiddi, il quale al sentire quella prepotenza, afferrato il banditore dapprima con un calcio gli ruppe il tamburo e poi gli urlò sul muso che, «se il capitano aveva voglia e coraggio, il gregge dei fratelli Minutiddi se lo venisse a prendere di persona!»

Là dove si magnifica il porco
Il maiale che pascola le ghiande, in: Tacuinum sanitatis, codice miniato del XIV secolo (Biblioteque nationale de France, Parigi) – (Destra): Maestro Ermengaut, Novembre, Raccolta delle ghiande, Biblioteca del monastero di San Lorenzo, Escorial

Il capitano che conosceva per fama gli antagonisti fece finta di niente anzi andò a rinchiudersi nel castello. Passati alcuni giorni poiché nessuno si era presentato a dichiarare gli animali, dal momento che gli allevatori avevano seguito l’esempio dei porcari ribelli, un sabato nottetempo profittando che tutti i porcari erano in paese, con i soldati cavalcò verso il bosco dove si trovava il gregge dei fratelli Minutiddi; lo assalta aggredendo i garzoni, ruba i maiali più docili, fa uccidere quelli ribelli e poi ritorna al castello.

L’indomani mattina quando i fratelli porcari ritornano nel bosco trovano quella «Gerusalemmi ristrutta». Chiamano subito a raccolta tutti gli allevatori e dopo aver tenuto consiglio decidono di attendere il momento propizio per reagire. Il capitano che si aspettava una risposta, si convinse di aver domato i ribelli. Così alcuni giorni dopo, radunati i suoi soldati, decise di recarsi nei boschi.

carnevale chiaramonte gulfi
Maiali e cinghiali al pascolo nel querceto. Particolare di un codice medievale (da Wikipedia)

I ribelli con in testa i sette fratelli Minutiddi erano pronti a riceverli: una gragnola di sassi (è noto che pastori e porcari di allora erano abili nella fionda) mise in fuga il drappello del capitano. Anzi nel prosieguo della lotta la maggior parte soccombettero mentre il resto, assieme al capitano, cercò rifugio nella vicina torre (ubicata secondo la tradizione nell’attuale contrada Ponte).

Ma qui li aspettavano altri ribelli ai quali si associarono quelli sopraggiungenti che massacrarono il resto del drappello. Del capitano però nessuna traccia!

Lo cercarono per ogni dove all’interno della torre. sicché si convinsero che fosse fuggito riuscendo a riparare nel castello di Chiaramonte. Uno dei fratelli, tuttavia, scorgendo in una sala della torre un suo ritratto si sfogò almeno con quello trafiggendolo col coltello: quale fu la meraviglia di tutti quando, ritraendo l’arma, costui vide che grondava sangue. Strappato il quadro, dietro apparve, rannicchiato e tremante, il capitano ferito. La vendetta fu terribile, l’uccisore dei maiali dei Fratelli Minutiddi finì pasto dei loro maiali!  Da allora quella torre fu detta la torre dei morti.

carnevale chiaramonte gulfi
G. L. Uboldi, Il Norcino all’opera, ex libris, 1984

Dietro ogni narrazione popolare spesso c’è una vicenda storica seppure impregnata, come questa, di violenza anarchica. Tesa a contrastare il tentativo del potere costituito di sottrarre, all’uso collettivo, parte del territorio per trasformarlo, da bosco incolto, in terreno adatto all’agricoltura. Anche se, di lì a poco, il disboscamento di parte del territorio – quello della zona più pianeggiante – e la revoca dello Jus pascendi, furono imposti.

Tale indicazione è nel documento a cui prima si accennava; anche questo recuperato dai polverosi archivi della Contea dal professore Guastella.

Si tratta di una supplica, databile al XV secolo, nella quale i giurati chiaramontani, – in una lingua metà aulica e metà dialettale – rivolti a Giovanni Cabrera, conte di Modica, cercano di far valere le antiche concessione  

«Lu gluriusu et potentissimo conti Manfrey cui nostro signuri Iesu Christu dea gloria in lo suo regno celesti, fra li multi et ampli privilegij cuncissi a qhista antiqua università de Claromonti  havi cuncessu, etiam quillo di lu Ius pascendi in li boschiva di sancta Margarita et de Xyphaczo…» diritto che la città aveva sempre usufruito e per il quale soleva donare nelle varie  festività prodotti della terra, tra cui ad esempio, per Natale, «octo porchi dili plui champuti dili nostri grej» e tutto ciò era durato finché «m. Romualdo de Urcea … fachendu taxsari tam arbitrariamente et dishonestamenti li manniri et zirmi in li prefati boschira… et piglandu prixuni….» aveva infranto i diritti della comunità.

Il documento è lacunoso e presenta parti illeggibili perché molto rovinato, ma si deduce che i giurati di Chiaramonte oltre a chiedere il ripristino delle concessioni avute dal conte Manfredi, tendessero a giustificare la reazione (evidentemente cruenta) nei confronti del rappresentante del conte quel Raimondo de Urcea, che poi era il Don Ramunnu della narrazione popolare.

Sappiamo che tale richiesta non sortì alcun risultato: tra l’altro il Giovanni Cabrera cui si rivolgevano, era succeduto al Conte Bernardo Cabrera che aveva “scippato” la Contea ai Chiaromonte, degno figlio di tal padre che, tra l’altro, avrebbe fatto rimpiangere. Purtroppo, c’è sempre il peggio al peggio. Ma questa è altra storia, anche se è la storia di sempre!

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Una famiglia di contadini intenta alla macellazione e lavorazione del maiale. Foto di metà Novecento (da Wikipedia)

Pertanto, fu soppresso il libero pascolo e si andò verso la trasformazione agricola del territorio. Gli allevatori dovettero adattarsi. Il bosco di S. Margherita, del Pignolaro, di Pomilia, però continuarono ad esistere fino al XVIII secolo con abbondanza di querce da ghianda e frutta selvatica.

Il maiale seguitò ad allietare le feste rurali di allora, condì le giornate allegre delle comunità successive, regnò incontrastato nella cucina del Carnevale, quello che fino al XIX secolo era la principale valvola di sfogo per la popolazione della contea di Modica, in un tripudio di anarchia, con la sospensione delle censure e repressioni del potere. Tonificante anticorpo per un lungo e angustiante anno di privazioni e sacrifici.

Lui, quello che abbiamo chiamato il convitato meno consenziente, continua a onorare la tavola del carnevale chiaramontano.

carnevale chiaramonte gulfi
Disegno autografo di Salvatore Fiume (collezione Ristorante Majore).
«Salvatore Fiume – Là dove si magnifica il porco – Chiaramonte Gulfi 28/12/1996.»

 

Banner: Lotta tra Carnevale e Quaresima (part.) di Pieter Brueghel il Vecchio, 1559.