Tag

Catania

Browsing

di Redazione

Se vi trovaste a camminare per il centro di Catania, nei pressi del Castello Ursino, potreste imbattervi in un luogo insolito, un pozzo risalente al XII sec. che prende il nome da una fanciulla, Gammazita.

Questo toponimo fuori dal comune affonda le sue origini nella seconda metà del Duecento, quando la Sicilia era governata da Carlo d’Angiò, ed è collegato ad una triste vicenda, ad un suicidio per essere più precisi.

Gammazita
Castello Ursino

Gammazita era una catanese nel fiore dei suoi anni, che viveva vicino alle mura della città. Era poverissima, eppure era dotata di una nobiltà d’animo che avrebbe potuto far invidia alle sante, ed era bella come poche donne al mondo. Con migliori natali avrebbe fatto impallidire le damigelle della regina.

Un giorno, il paggio della baronessa Macalda di Scaletta, un tale Giordano, la vide sull’uscio di casa mentre ricamava. Se ne innamorò perdutamente e la fanciulla di lui. Più volte il giovane si recò nel povero quartiere per cercarla, anche solo per incrociare il suo sguardo.

Queste fughe, però, non passarono inosservate. La baronessa, invaghita di Giordano, ordinò ad un soldato francese di sedurre la fanciulla di fronte al paggio, mostrandogli tutta la sua lascivia. Così il soldato trovò Gammazita nei pressi della fonte e cominciò a importunarla. Non una sola volta ella cedette alle sue viscide lusinghe.

Gammazita
Due ritratti moderni di Macalda di Scaletta

Poi, il francese adiratosi per quel rifiuto la strinse a sé, palpandola. Gammazita cercava inutilmente di divincolarsi, tutti si erano barricati nelle loro case per timore delle guardie; la fanciulla urlava disperatamente, Giordano era lontano… Con uno strattone insperato riuscì a liberarsi ma sapeva che il bruto le sarebbe saltata di nuovo addosso e l’avrebbe violentata. Guardò il pozzo. Vi si buttò. Preferiva morire piuttosto che tradire il suo amato.

Il corpo di Gammazita non venne ritrovato. Molti anni dopo, quando gli angioini erano stati cacciati e tanti altri dominatori si erano succeduti nell’Isola, furono rinvenuti alcuni giacimenti di ferro sulla parete del pozzo, rossi come il sangue. Non vi erano dubbi, era il sangue secco di Gammazita…

Gammazita
Un quadro del Pozzo di Gammazita

Crudele è la fine di questa fanciulla, crudele come sanno esserlo le leggende. In questo racconto popolare sono presenti elementi tipicamente siciliani: la purezza e la bellezza delle isolane e la crudeltà del governo angioino.

Non è un caso che la tradizione voglia che il Vespro siciliano sia scoppiato a causa di una donna violentata da un soldato francese. Un topos che si ripete anche qui. Molto più concretamente, il pozzo prenderebbe il nome dall’arabo “al gawsit” (luogo d’acqua dolce), ma, diciamolo pure, la storia di Gammazita è maledettamente più attraente.

di Nunzio Spina

Quasi mille anni di storia per giungere alla soluzione di un giallo. Non un semplice, interminabile sfondo, su cui disegnare l’intreccio di una trama, ma un lungo succedersi di eventi e personaggi che – aderenti alla realtà – avvolgono il mistero di alcuni omicidi, e inconsapevolmente ne muovono le fila; al punto da riservare a vittime e carnefici il ruolo di semplici figuranti.

L’autore di questa originale avventura letteraria è Roberto Bolelli, 68 anni, trascorsi a Catania dall’infanzia alla giovinezza, il resto a Bologna, attratto e poi ghermito dalla musica in tutte le sue applicazioni (suono, canto, insegnamento, anche terapia). Il titolo del libro è quasi un compendio dei suoi legami di cuore: Troparium de Catania; omaggio alla sua città e alle composizioni musicali contenute in un manoscritto del XII secolo (Troparium), che dalla Sicilia prenderà un bel giorno la strada di Madrid, tenendo nascosto in sé l’enigma di quelle vicende criminose.

Roberto Bolelli (secondo da dx) mentre si esibisce col suo gruppo “Al Qantarah”

Il giallo ha per scenario Catania per tre quarti del suo racconto, saltellando dalla dominazione normanno-sveva di Federico II (primi secoli degli anni 1000), a quella spagnola degli Aragonesi e poi degli Asburgo; per l’ultimo quadro ci si trasferisce a Madrid (e siamo già al 1900), dove la ricerca del Troparium – attualmente ancora conservato nella Biblioteca Nacional, ultimo sprazzo di storia vera – porterà finalmente alla luce testimonianze inconfessate. Con l’immancabile colpo di scena, come ogni giallo che si rispetti.

Il sipario si apre sulla morte di due monaci, in due conventi diversi della città etnea ma a breve distanza di tempo e di spazio, che il clero vorrebbe sbrigativamente archiviare come incidente, il primo, e come suicidio, il secondo. Il forte sospetto che si tratti di omicidi, peraltro collegati tra loro, emergerà ben presto, ma dovranno trascorrere secoli, e altri due decessi dalle inquietanti analogie indiziali, prima che si riesca a scavare a fondo per far venire alla luce la verità.

Dato alle stampe lo scorso mese di novembre (con la prefazione del noto scrittore e musicista jazz Paolo Fresu), il libro ha riacceso su di sé una luce di attualità in occasione della recente festa in onore di Sant’Agata, patrona di Catania, giovane martire vissuta nel III secolo d.C., disposta a subire il duplice supplizio dello strappo delle mammelle e dei carboni ardenti pur di non tradire la sua fede cristiana e di non sottomettersi alle voglie del proconsole romano Quinziano.

Giovanni Lanfranco, Sant’Agata visitata da San Pietro in carcere,1613

È lei la figura centrale intorno a cui ruotano tutti gli avvenimenti; è lei che ispira l’istituzione di una “confraternita” di monaci (non per niente chiamati “Agatini”), dove il passionale culto della santa verrà contaminato – complice la suggestione di certa musica innovativa – da fuorvianti interpretazioni teologiche e pratiche aberranti. Da “confraternita” a “setta” il passo sarà breve, e il reclutamento di laici, comprese le donne, finirà per allargare il campo dei delitti, nel pieno sgomento generale.

Dello scrittore erudito e brillante, quale non è per professione, Bolelli dimostra di avere tutti i requisiti. L’ambientazione storica è un affresco variopinto, ancorché curato in ogni sua sfumatura, che trascina con sé il lettore, facendolo emotivamente partecipe – e non distaccato spettatore – di fatti realmente accaduti o quanto meno verosimili. Gli fa respirare quell’atmosfera, gli fa ascoltare quelle voci, lo fa camminare per quelle antiche strade.

L’Etna incombe, le colate laviche e i terremoti scandiscono il trascorrere del tempo e mutano ripetutamente il volto della città, la gente di Catania, rassegnata a questi eventi, guarda sempre benevola il suo vulcano.

Giacinto Platania, Eruzione dell’Etna del 1669

Sembra di vederlo Federico II, l’imperatore Stupor Mundi, aggirarsi tra l’antica cattedrale-fortezza (dove Sant’Agata è già celebrata con inni sacri), il vociante mercato del pesce (trasposizione dell’attuale “piscaria”) e il Castello Ursino da lui fatto erigere a protezione della città. Sembra di entrare nei palazzi gentilizi spagnoli, dove l’idioma castigliano si impasta col dialetto siciliano; o nei monasteri benedettini di San Nicolò e di Via dei Crociferi, dove rispettivamente un cadetto o una figlia delle nobili famiglie locali erano soliti prendere i voti.

E se viene descritta una delle chiese dedicate alla Santuzza – in particolare quella di Sant’Agata al Carcere, luogo per la “confraternita” delle sue riunioni segrete – si ha la sensazione di ritrovarsi nel bel mezzo di una istruttiva visita guidata.

L’autore condisce tutto con il sale di quadretti ironici e divertenti, col pepe di espressioni in vernacolo catanese (anche spinte), ma “quanto basta” per insaporire la pietanza ed esaltarne il sapore, senza sminuire l’alta qualità – diremmo il valore culturale – degli ingredienti principali.

Via dei Crociferi, Catania

Similitudine culinaria che ci suggerisce altri gustosi intermezzi del testo, quando il popolo catanese scopre via via (con diffidenza prima, con pieno appagamento del palato poi) i nuovi cibi introdotti dalle varie dominazioni e i nuovi piatti che ne derivano: i pomodori, le melanzane, la parmigiana; e soprattutto la cassata, dolce a base di ricotta introdotta dagli arabi (qas’at), o la sua versione mini delle “cassatelle”.

Come le “cassatelle di Sant’Agata” o “minne di Sant’Agata”, perché con quella forma emisferica, la glassa bianca che le ricopre e la ciliegina candita che le sormonta, ricordano proprio le mammelle che furono strappate alla vergine e martire. Un simbolo gastronomico che, nella trama del giallo, si eleverà al ruolo di indizio dominante. Per accorgersi in fondo che l’intero caso, più che attorno a Sant’Agata, ruoterà attorno… alle sue minne!

Copertina del libro, con l’immagine iconica di Sant’Agata che tiene in mano, in una coppa, le due mammelle; il quadro, opera dello street artist siciliano Ligama

L’ultimo articolo di Alto_Volume: Due romanzi dai finali incrociati

di Letizia Dimartino

Prima di Natale andavamo a Catania, nel sole e nel tepore dell’auto. Durante sentivamo le musiche di Bacarach, e i giardini di aranci avevano i frutti appesi ai piccoli alberi disposti in file ordinate, lungo la strada. Il cielo celeste nel primo pomeriggio, la mia gonna cortissima e scozzese, le gambe velate dai collant per sentirmi una londinese. La testa appoggiata al finestrino, il desiderio di essere nella città amata che era diversa da Ragusa, i negozi moderni, le pasticcerie profumate, il nero dei palazzi, il tempo come fermo, le donne piccole e scure, la bellezza nostra, le compere affannose e la sciarpa da togliere, e il cappotto da scostare dalle spalle, la diversità e la gioia. Una spremuta, un cannolo, lo sguardo sulla Villa Bellini, sul teatro, sulla piazza di Santa Agata, il senso, l’eros dei miei giovani anni, tutto ciò che si poteva godere, la sera che si posava sull’Etna maestosa e già bianca in fondo alla via del centro, l’arancio del tramonto. Il ritorno per strade con curve impossibili, nel buio e nei sogni che facevo: d’amore, solo d’amore. Ed era Natale subito subito.

di Vito Castagna

Roma, 1960. Il giovane Antonio Magnano riceve una lettera dal padre. Con una calligrafia incomprensibile, gli ordina di tornare a Catania, sua città natale, e di prendere come moglie una sconosciuta.  

Questo l’incipit de Il bell’Antonio, film diretto da Mauro Bolognini e ispirato al celebre romanzo omonimo di Vitaliano Brancati. La sceneggiatura scritta a quattro mani da Pasolini e Visentini mantiene intatta quella nota di malinconica denuncia che si palesa nel libro, non tradendo quel gioco degli eccessi che lo hanno reso celebre. Perché difatti, l’Antonio interpretato da Marcello Mastroianni è considerato a furor di popolo l’uomo più bello di Catania, un Don Giovanni che non può non essere corrisposto.  

Marcello Mastroianni

Ma superata questa maschera, ci si accorge quanto il protagonista sembri indefinito, un adulto dai tratti fanciulleschi, quasi femminei. Lo spettatore si trova di fronte ad un ermafrodito”, tanto attraente quanto incapace di riprodursi.  

Ed è qui che si raggiunge il nocciolo della questione, il paradosso dell’eccesso: l’uomo più bello della città etnea, il più conteso e voluto dalle donne, è impotente. A fargli da contraltare, vi è il padre, Alfio Magnano (Pierre Brasseur), un borghese che ostenta la sua virilità, fiero delle fantasiose scappatelle che gli abitanti di Catania affibbiano al figlio. Nonostante ciò, secondo i disegni paterni, Antonio dovrà sacrificare la sua bramosia d’amore per un matrimonio di convenienza, quello con Barbara Puglisi (Claudia Cardinale), appartenente ad una delle famiglie più influenti della città.  

Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni

Le premesse non sembrano delle migliori ma l’amore tra i due attecchisce. Eppure, non è destinato a durare.  

Con questa pellicola, Bolognini apre un solco nella società siciliana, palesando le insicurezze celate dietro un ipocrita machismo. Antonio è un diverso in un mondo che riconosce la sessualità solo come atto fisico e lui, in quanto impotente, non può essere considerato uomo. 

La sua impotenza è uno stigma così infamante, da superare di gran lunga quello del “cornuto”.  

Lo stesso amore di Barbara viene travolto dalle ingiurie, il suo rifiuto al marito è patrocinato dalla Chiesa che è disposta a sciogliere il vincolo del matrimonio. Un altro paradosso: come si può spezzare ciò che non può essere spezzato?  

A nulla vale la strenua e inutile opposizione del padre di Antonio alle malelingue. In verità, non è rivolta al bene del figlio, bensì alla salvaguardia del proprio nome perché, rispettando la verticalità patrilineare, l’onta dell’impotenza discende dal figlio al padre, infestando l’intero albero genealogico.  

Solo la madre del ragazzo (Rina Morelli), ne ricerca le cause frugando nel campo dei sentimenti, ma la sua è una reazione di difesa inconscia di Antonio, un afflato di maternità, non un rifiuto consapevole al preconcetto in quanto tale.  

In questo film, Mastroianni sveste i panni del latin lover che gli erano stati cuciti addosso. Nella sua biografia, scritta da Matilda Hochkofler, dirà: «Le proposte che avevo avuto dopo La dolce vita erano tutte da conquistatore, da amatore che batte i locali notturni. Amai subito demolirla questa immagine […]». 

Marcello Mastroianni

L’interpretazione di Claudia Cardinale non sfigura di fronte al divo: incantevole e gelida, risoluta e ottusa. Anche la sua Barbara è una perdente, schiacciata dai disegni della propria famiglia.  

La macchina da presa di Bolognini inquadra Claudia e Marcello in nuove pose, si sofferma sui primi piani, sugli sguardi silenti. Dedica caroselli alla Catania barocca, di via dei Crociferi e di porta Garibaldi.  

Chi pensa che Il bell’Antonio sia una critica contro l’ostentata virilità siciliana, che tanto facilmente parlava di onore, si sbaglia. Come già detto, questa pellicola ha il pregio di muoversi per eccessi: il più bello ma impotente viene calato in una delle realtà più retrive, affetta dalla chiusura isolana. In fondo, qui vi è l’affresco di «una Sicilia metafora del Mondo», di una repulsione nei confronti del diverso che unificava la Penisola.  

 

Recensione precedente – Il signore delle formiche

di Vincenzo la Cognata

Dopo aver aperto l’argomento del city branding con una serie di contributi appositamente ideati per Chiaramonte, questa volta proveremo ad analizzare i casi di progetti realizzati che hanno avuto esiti opposti. Questo perché non basta disegnare un logo e inventare uno slogan perché si possa parlare di city branding.

Esempio lampante in tal senso la città di Gela, che nel suo logo ha voluto puntare molto sulla presenza del mare e sulle origini greche. Come se non esistessero – neanche troppo lontani – posti con spiagge più belle e caratteristiche o un’influenza greca molto più marcata (si pensi ad Agrigento). Mare e “grecità” non sono caratteristiche esclusive di una città siciliana, meno che meno di Gela.

Il logo della città è stato preparato un po’ alla buona da un laureando (gelese) all’Accademia delle Belle Arti. Ovviamente l’idea denota improvvisazione e una certa sufficienza nell’affrontare la questione. Poiché per massimizzare i risultati, e avere il riscontro sperato dal mercato, avrebbe dovuto essere parte di un progetto ben più complesso, in un gruppo di lavoro che avrebbe dovuto comprendere la presenza di analisti di mercato e esperti del marketing del territorio. Anche per le criticità notevoli del caso: a cominciare dall’immagine pessima della città nell’hinterland e non soltanto.

Appare infatti ovvio che la direzione da prendere, in un progetto così problematico, non può essere basata sui gusti personali, ma su dati oggettivi frutto di attente indagini di mercato. Al di là del logo, si parla di brand quando si considera una “vision”: cioè un obiettivo preciso e una visione comprensiva che tenga conto di diversi fattori.

Un buon progetto di city branding dovrebbe riuscire a trasmettere al target di pubblico che intende raggiungere i valori che la città vuole rappresentare. Un’identità precisa che nello stesso tempo deve avere caratteristiche di tipicità e di unicità sul territorio.

Il City branding a Bologna con l’applicazione del concetto sulle cartoline

Una delle identità visive più interessanti tra quelle realizzate recentemente è sicuramente quella della città portoghese di Porto, che risulta semplice e incisiva, senza nessun gioco di parole forzato che storpia il nome della città. Il logo è rappresentato da un alfabeto di illustrazioni a formare un mosaico che va a comporre l’immagine della città. Il tutto richiama in modo velato – ma non troppo – le azulejos: le famose piastrelle di ceramica di Porto. Il risultato è esteticamente gradevole e funzionale dal punto di vista delle numerose applicazioni.

Città portoghese di Porto. L’applicazione del simbolo della città nei vagoni della metropolitana ( Credit: Alexandre Delmar)

Un progetto interessante geograficamente più vicino alla nostra realtà è quello di Catania. Trattandosi di un progetto giovane l’analisi dettagliata dei benefici risulterebbe ancora precoce. Ciò nonostante il risultato d’impatto è stato estremamente positivo e fa ben sperare.

Il Catania Independent Symbol è stato premiato in un concorso mondiale per luoghi e simboli tra i più prestigiosi del settore con un Worldwide Logo Design Award (WOLDA). Si tratta di un progetto del tutto indipendente operativo da poco tempo, ma nato 11 anni fa per identificare la città siciliana in modo universale e attraverso ciò che è la sua vera essenza. L’ideatore è il designer catanese Bob Liuzzo, docente e coordinatore del corso di laurea triennale in Graphic Design presso l’Istituto Europeo di Design di Milano. Un’autorità del settore.

(Immagine da qds.it)

Il sistema visivo è basato su tre semplici linee e colori da decodificare. Basterà un rapido sguardo per far sparire la geometria e far apparire l’Etna, il vulcano più alto d’Europa (in nero), la Lava dell’eruzione (in rosso) e il Mare che viaggia verso l’orizzonte (in blu). Un progetto che appare come un sistema visivo realmente identificativo per la città, che Bob Liuzzo spiega non essere un vero “logo”.

Questo “non-logo” infatti non è un marchio registrato, ma un simbolo che si trova di frequente lungo le strade di Catania e in cui i cittadini catanesi hanno cominciato a identificarsi. Etna, lava e mare: questi sono gli elementi dominanti che distinguono davvero Catania. Quale altra città nel mondo può offrire altrettanto?

Bob Liuzzo con il simbolo di Catania da lui inventato (qui in una nota via di Catania)

Il progetto catanese, frutto di studio, competenza e professionalità, ha tutte le carte vincenti per diventare un successo duraturo. Già, studio, competenza e professionalità! Saranno forse questi i segreti di un progetto di successo?

LINK ALL’ARTICOLO PRECEDENTE