Tag

Chiafura

Browsing

di Grazia Dormiente

Il frumento macinato manualmente diventava farina che, assimilata alla fluidità dell’acqua e cotta nella forgia del fuoco, approdava all’aria della convivialità familiare dei contadini di un tempo lontano, da cui sono derivate sia le ricerche sugli strumenti molatori manuali, sia il recupero dei sapori antichi rivisitati tutt’oggi dai sensibili chef della terra iblea. Cosi la farinata di frumento duro frantumato a pietra “cuturru” (dall’etimo arabo “kuturu”, di grano spezzato o dal verbo cutir – colpire) sopravvive a Modica, Scicli e nei paesi limitrofi. Anzi a Modica perdura il lemma “cuturru”, a Scicli “caturro”.

(foto pexels.com)

La voce “cuturru” è riportata nell’ottocentesco vocabolario del siracusano Sebastiano Macaluso Storaci: «s. m. Frumento mezzo infranto, che usano i poveri per minestra: Farricello [grano antico]».  Leggesi pure “cuturru” nel Vocabolarietto delle voci siciliane di Antonino Traina, Stamperia Reale di Torino,1877.
L’antica ricetta della polenta del sud richiedeva lo strofinio manuale dei grani antichi, la cui integralità assicurava anche l’apporto proteico. Nella terra iblea perdurò fino ai primi anni del ‘900 “‘u cintimulu” (il mulinello familiare) una specie di mulino ante litteram che, azionato da mano femminile, indicava un utilizzo d’ambito strettamente casalingo.

Un esemplare, manufatto dallo stesso contadino, è custodito nel Museo Ibleo delle Arti e Tradizioni Popolari “S.A. Guastella” di Modica, proprio nel baglio della masseria. Tale manufatto è formato da una pietra superiore munita di una visibile presa per consentire la rotazione sopra una pietra inferiore concava. I chicchi di frumento erano versati con una mano nel foro centrale della parte superiore.

Il ruolo femminile era attestato anche nell’uso delle prime macine a sella, diffuse in tutto il Mediterraneo sin dall’età neolitica, come hanno rivelato le ricerche archeologiche e le rotte commerciali nel “mare nostrum”, narrando l’efficacia molatoria di tali semplici macine frumentarie manuali. Sia come sia, ma il cuturru prodotto tutt’oggi dai moderni mulini iblei, porta con sé le pose oscillatorie e rotatorie della macinazione manuale ed attende d’essere cotto e gustato, esaltando la feconda tradizione dei grani antichi siciliani e le connesse storie gastronomiche.

Museo Ibleo delle Arti e Tradizioni Popolari “S.A. Guastella” di Modica. Un esemplare in pietra di “cintimulu” (mulinello familiare)

Il mio ricordo sul cuturru è legato alla convivialità provata al Museo della Pietra Contrada Trippatore a Sampieri, ideato e creato dal medico e amico Gaetano Mormina, cresciuto a Scicli nella zona rupestre di Chiafura (morì nel 2017 all’età di 83 anni). A lui dobbiamo la conservazione della memoria di una tipicità (per quanto ci è dato sapere) della terra iblea assicurando la preziosità del lascito de “La tavola contadina” alla stessa Accademia della Cucina Italiana per rispettare la genuinità dei sapori, senza dimenticare che il cuturru si preparava quando i braccianti agricoli erano pagati in natura, e propriamente con le fave nel tempo di raccolta delle fave, nel tempo di mietitura frumentaria con grano, nel tempo di vendemmia con mosto, nel tempo di raccolta delle olive con olive o con l’olio, poiché il bracciante non era mai retribuito con moneta sonante.

Il dott. Gaetano Mormina

Un cibo povero che consente pure di sfogliare le pagine storiche dell’arte culinaria contadina come sostiene Il Giornale del Cibo:
“durante l’ultima guerra questo piatto fu riscoperto per evitare di portare il grano a macinare nei mulini in quanto ne sarebbe stata confiscata una cospicua parte ufficialmente per mandarla alle truppe al fronte. Poi nell’immediato dopoguerra se ne sono perse le tracce e – ad eccezione di qualche vecchia contadina – nessuno più ha memoria storica di questa antichissima preparazione. Solo da pochissimo qualche ristorante d’élite ed uno o due agriturismi in zona lo servono ai propri clienti come una rarità”

La ruota gastronomica oggi gira verso il “recupero” della tradizione, in quanto “il pasto dei contadini” è storia di gesti, di riti legati al consumo dei cibi con carattere sociale, culturale, simbolico, in cui la natura si incontra con la cultura, tracciando la metafisica del quotidiano riacceso dalla memoria.

 

di Giuseppe Cultrera 

Cristo si era davvero fermato a Eboli: e nessuno meglio di Carlo Levi che, in quella assolata giornata del maggio 1959, si inerpicava per le scoscese balze di Chiafura al margine orientale di Scicli, poteva spiegarlo agli altri stupiti visitatori che erano scesi da Roma per inoltrarsi in quel girone infernale stipato di grumi di povertà. Del gruppo facevano parte Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Maciocchi, direttrice della rivista Vie nuove che avrebbe pubblicato in un inserto immagini e testi di quel mondo, difficile da credere al resto d’Italia che superato il dopoguerra si avviava al boom economico.

Gli aggrottati di Chiafura
1959: un momento della visita (a sinistra) e copertina della rivista “Vie nuove” con l’articolo su Chiafura (a destra)

A Scicli, mentre ci inerpicavamo lungo i fianchi sconvolti della montagna, in una sorte di paesaggio, dove si spalancavano le bocche nere delle grotte abitate dagli uomini, il nostro più sicuro Virgilio, nella piccola folla che ci accompagnava, era una giovane donna vestita di nero, dal viso fermo e nobile, dalle parole facili, dal passo leggero e sicuro, che correva lungo gli anfratti della roccia. Davanti ad una di queste grotte, forse la più orrida, perché precipitata in un antro sottostante, in una voragine di pietra tutta aperta da un lato ai venti della montagna, la donna, Carmela Trovato, ci ha detto semplicemente, come se la notizia si aggiungesse senza spicco a tutte le altre che ci aveva dato: ‘Sono nata qui dentro. Sono chiafurara anch’io’.

Gli aggrottati di Chiafura
Pagine interne della rivista “Vie nuove” con il servizio speciale su Chiafura

Sull’onda del servizio di Vie nuove la stampa nazionale ma anche molti intellettuali e politici si interessarono del caso Chiafura. Tanto da smuovere il Parlamento, che approvò la legge Aldisio. Grazie alla quale furono costruite le case popolari di contrada Iungi, dove furono ospitati quasi la totalità degli abitanti delle grotte. Chiafura man mano venne abbandonata e divenne disabitata.

Gli aggrottati di Chiafura
Alcune immagini del fotoservizio di Egidio Vaccaro dedicato alla visita di Chiafura (1959)

Metafora della Sicilia: quella antica con la stratificazione di storie ed uomini che la cava groviera di Chiafura raccontava e quella nuova che i giovani intellettuali del Circolo Brancati, nel maggio del ’59, aspiravano a percorrere: magari con l’apporto dei Pasolini, Levi, Guttuso, Trombadori, Alatri, Maciocchi chiamati a dar voce al loro sogno di riscatto.

Scicli
Chiafura (Scicli) oggi

Oggi Chiafura è un parco; le bocche spalancate delle grotte che hanno ospitato per  mille anni uomini e donne schiacciati dal bisogno e dalla precarietà, ci appaiono suggestive, persino poetiche inserite nel paesaggio che abbraccia Scicli. Quella che fa esclamare a Vittorini (Le città del mondo): “È la più bella città che abbiamo mai visto!”

Chiafura
Scicli (foto di Giulio Lettica)