Tag

Chiaramonte Gulfi cultura

Browsing

di Giovanna Giallongo

Definire “La pelle” di Curzio Malaparte (edito nel 1949) solamente un romanzo è talmente riduttivo da disperderne perfino l’intrinseco valore storico, emotivo, sociale, etico e culturale che un’opera letteraria di questo spessore offre ai suoi lettori. “La pelle” è cronaca vera, senza veli, priva di falsi quanto inutili tentativi di addolcire avvenimenti la cui immane importanza non si riversa solamente sulla politica e sulla storia mondiale e, nella fattispecie, italiana, ma anche e soprattutto sull’essere umano in quanto tale e sul concetto di umanità che ne deriva.

Un giovane Curzio Malaparte con la divisa di Alpino

La penna di Malaparte si mostra straordinariamente rivelatrice degli orrori che lo circondano, dell’amoralità di cui egli stesso è spettatore sorpreso, a tratti disgustato, a volte persino divertito. La mente del lettore si ritrova sul dorso di un pendolo che oscilla ma che non scandisce il tempo, bensì le contraddizioni delle emozioni e dei pensieri intorno ai fatti vissuti. Ossimori e crude contraddizioni sono la rappresentazione del limbo in cui si agitano le anime umane rese confuse dal dolore e dalla disperazione. La continua lotta per la sopravvivenza tira fuori uno schietto e crudele dualismo che si estende per tutto il romanzo: lottare per non morire e lottare per vivere. Quale tra le due è la più dignitosa? Quale delle due porta l’anima dell’uomo a decomporsi e a imporre la fredda logica dell’hic et nunc (qui e ora)?

Curzio Malaparte, nel suo confino a Lipari, in compagnia del fedele Febo (protagonista di uno dei più toccanti capitoli del romanzo)

Difficilmente l’immaginario collettivo è capace di abbinare l’orrido al sarcasmo o all’ironia, Malaparte ci riesce. Irrompe con la sua grande maestria per dare vita ad un neorealismo che indaga sul significato dell’essere vincitori o vinti, mostrando una Napoli che incarna entrambi gli aspetti. Contraddizione, sarcasmo e crudele schiettezza tingono quelle pagine che mostrano il popolo partenopeo come specchio fedele delle profonde contraddizioni dell’Europa. Incomprensibili per la rigidità e il sentimento di malcelata (quanta ingenua) superiorità degli americani. Ed è qui che il popolo napoletano attua la sua “vendetta” attraverso la leggendaria furbizia di cui è stato sempre capace: si spaccia furbescamente per vinto per meglio approfittare dell’ingenuità e delle debolezze del vincitore. È la crudele lotta per la sopravvivenza.

Cosa rimane da difendere allora? Per cosa si combatte tutti i giorni in un contesto che spinge sempre di più oltre ciò che può essere considerato lecito ed etico? Se non esiste più un’anima a cui aggrapparsi, cosa rimane se non la pelle?

Negli anni ’50

La complessità della lettura porta inevitabilmente alla diversità di opinioni e, come ci si poteva aspettare, all’interno del nostro gruppo di lettura, non tutti hanno mostrato particolare gradimento per l’angosciante ma vivida forza descrittiva (quasi violenta) degli avvenimenti. Comprensibile alla luce dello stato emotivo personale quando ci si approccia alla lettura. Tuttavia la grandezza dell’opera è stata unanimemente riconosciuta, anche nella sua tragica attualità.

La prima edizione del 1949, edito da Aria d’Italia