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Chiaramonte Gulfi

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di Giuseppe Cultrera

L’evento mondano al quale non mancava l’alta società iblea era il “Veglionissimo di Ferragosto” alla Villa Comunale di Chiaramonte la sera del 14 agosto. «Venne il giorno del gran ballo all’aperto, un martedì sera, ch’era il ferragosto del cinquantuno. A Chiaramonte Gulfi, nel giardino di sempreverdi pensile sulla valle. Con in cielo, all’inizio, una luna da circo equestre», racconta Gesualdo Bufalino in Argo il cieco. Rievocando una sua incursione giovanile in quel magico mondo.

1959. Nilla Pizzi con Pippo Baudo (in alto) e a cena (in basso)

Nel quale si muovevano grandi personaggi dello spettacolo del tempo: i cantanti Nico Fidenco, Nilla Pizzi e Gloria Christian, la pianista di musica classica e jazz Dora Musumeci, per citarne solo alcuni. Il giovane Pippo Baudo, al suo esordio, fu il presentatore della serata che aveva ospite canora la grande Nilla Pizzi, vincitrice del Festival di Sanremo. E alcuni maestri d’orchestra furono i famosi Giuseppe Marotta e Nino Lombardo.

Venne il giorno del gran ballo
“Veglionissimo di Ferragosto”, 14 agosto 1959, Pippo Baudo, Nilla Pizzi e Dora Musumeci. A destra, biglietto d’invito

Eleganza e buona musica si accompagnavano alla degustazione delle specialità culinarie chiaramontane, grazie alla presenza del famoso Ristorante MajoreC’era persino un concorso di bellezza, “Miss estate Chiaramonte”, al quale partecipavano le ragazze di buona famiglia aspiranti al titolo di “Miss Sicilia”.

1967. (In alto) Nico fidenco insieme al compianto Salvatore Scribano. (In basso) il personale del Ristorante Majore

Era però un piatto prelibato solo per pochi ricchi e notabili – siamo nel dopoguerra, gli anni cinquanta e sessanta – la gran parte della popolazione si accontentava di assistere, assiepata ai lati dell’accesso alla villa, alla sfilata di questo mondo dorato e inaccessibile. Ammirando le auto lussuose, gli smoking dei cavalieri, gli abiti eleganti e i gioielli delle signore. Auspicando o sognando di potervi approdare. In parte ciò avvenne, con il cosiddetto boom economico degli anni successivi, che rese accessibile a tanti gran parte di quei miraggi (anche solo come surrogato consumistico) e persino l’accesso “democratico” al Gran ballo di Ferragosto.

Venne il giorno del gran ballo
Veglione di Ferragosto 1960, Gloria Christian

Si è eclissata lentamente la Festa di Ferragosto ai Giardini Comunali di Chiaramonte, è invecchiata come quel piccolo mondo antico che la animava e la rendeva unica e irripetibile. E i vari tentativi di riproporla e rivitalizzarla sono naufragati e non hanno più trovato sufficienti interessi o interlocutori. Forse meglio così. Tutte le favole belle – come il giardino di “sempreverdi prensili” e la “luna da circo equestre” che affascinarono Bufalino una sera di mezz’agosto del ‘51 – «sono fatti della stessa sostanza dei sogni». (Quest’ultima è una citazione “rubata” a Shakespeare!).

Le foto degli anni ’50 e ’60 sono state tratte da “Senzatempo” volume 5

di L’Alieno

Che bello il suono delle campane, vero? E chissà quanti spiriti romantici che vivono nelle periferie, magari sollecitati dai ricordi nostalgici, desidererebbero vivere, ancora, vicino ad una bella chiesetta con tanto di campane e campanaro. E non avrebbero torto se ad azionare le antiche cordicelle ci fosse ancora uno di quei vecchi sagrestani in carne ed ossa, quasi sempre personaggi coloriti, che ad orecchio e olio di gomito riuscivano ad eseguire brevi sinfonie con grazia e perizia ad ogni occasione, festosa o dolente che fosse.

Le campane nelle loro mani diventavano docili strumenti musicali che lasciavano trasparire anche il loro umore giornaliero, a volte ispirato e gaio, altre volte irritato e mal disposto, a seconda che il tocco fosse perfettamente ritmico e allegro o frettoloso e con qualche nota stonata.

Le campane del Duomo a Chiaramonte… le più infernali

Ma queste sono storie d’altri tempi, di un piccolo mondo antico a passo d’uomo, quando non esistevano timer e centraline elettroniche. Perché è da tempo che al posto del campanaro ci sono insensibili e diabolici meccanismi automatici programmati da altrettante insensibili manine, che impostano tempi e modi delle scampanate a loro esclusivo piacimento, come gli gira. Tanto fa tutto la macchina.

E se al tempo del vecchio sagrestano quel suono entrava nelle nostre case con discrezionedolcezza e rispetto, adesso, entra con menefreghismopervasività e arroganza, ritmicamente, a batterie di fuoco di 5/10/15 minuti per poi riprendere allo stesso modo dopo una pausa della medesima lunghezza circa. Un bombardamento acustico costante, che sembra studiato apposta per massacrare i timpani di noi poveri malcapitati abitanti del centro storico, fedeli e non. Costretti a sopportare e maledire quegl’infernali meccanismi automatici perché vadano finalmente in corto circuito.

Le campane della chiesa di San Filippo

Immaginatevi poi la felicità di chi risiede, come il sottoscritto, chiuso in un piccolo triangolo tra tre chiese e tre orologi, a scandire il passare delle ore. Anche a desiderare di distrarsi per un attimo, senza pensare al tempo che fugge, non si può. Ogni quarto d’ora ben tre orologi mi ricordano che all’ora finale della mia vita sono venuti meno altri 15 minuti.

Il campanile della chiesa del SS. Salvatore

di Silvia Bracchitta

Restaurare significa lasciare un segno, il nostro segno, sopra un’opera che era nata senza di noi, che in origine non ci prevedeva

A questo importante concetto di Giorgio Bonsanti, aggiungerei che restaurare significa permettere ad un’opera d’arte di continuare ad esistere nel tempo, dando la possibilità a chi verrà dopo di noi di continuare a goderne. 

Terminati gli studi a Firenze, e dopo aver messo in campo le mie competenze in Toscana, nel 2015 ho deciso di restaurare, senza lucro, un’opera che appartiene alla chiesa Santa Maria la Nova, di Chiaramonte Gulfi, paese nel quale vivo. 

anime purganti
Santa Maria La Nova, Chiaramonte Gulfi

La tela è quella delle “Anime purganti”, realizzata nella seconda metà del Settecento dal pittore palermitano Gaetano Mercurio.

Dopo alcuni sopralluoghi per capire come spostare la tela senza comprometterla ulteriormente, il dipinto è stato collocato nella zona predisposta ai lavori. La complessità dell’operazione era data dalle dimensioni notevoli dell’opera e dal fatto che questa fosse fissata male al telaio e alla cornice, e quindi instabile.

anime purganti

Questa foto mette a confronto lo stato iniziale e finale delle “Anime purganti”. Saltano agli occhi la condizione del colore, che si presentava sbiadito a causa di diversi fattori: la polvere che si era depositata nel tempo e la selvaggia pulitura che era stata eseguita in un precedente intervento di manutenzione, che faccio fatica a chiamare restauro. 

Ma la causa principale del deterioramento era dovuta alle candele. Infatti, il fumo dovuto alla combustione scurisce e sbiadisce il colore. Probabilmente, se fosse stato protetto con una vernice adeguata non avrebbe raggiunto queste condizioni.

anime purganti
Le tre fasi del restauro delle “Anime purganti”

La prima fotografia evidenzia il pessimo stato di conservazione dell’opera prima del restauro.

La seconda è stata scattata al termine delle operazioni conservative, che hanno previsto la pulitura e il consolidamento della pellicola pittorica, l’inserimento di strisce perimetrali sui bordi della tela e il fissaggio al telaio originale.

Inoltre, qui sono documentate le stuccature e l’imitazione della superficie, due fasi molto delicate e importanti. La preparazione in dipinti di questo tipo ha una duplice funzione: contrastare la tensione e i movimenti della tela e creare una base per il fissaggio colore.

La restauratrice Silvia Bracchitta durante il restauro

Dopo aver stuccato le lacune con gesso e colla animale (come nella preparazione originale) sono stati ripristinati l’andamento della superficie pittorica e la trama della tela. Queste operazioni servono a mantenere una corretta leggibilità del quadro, dopo l’intervento di restauro.

Nella terza foto si possono notare le integrazioni pittoriche eseguite con colori a tempera e la verniciatura protettiva finale.  La differenza cromatica serve per colmare le lacune presenti nella tela e viene eseguita con la tempera perché è stabile nel tempo (cioè non cambia di tono), è coprente e facilmente reversibile.

anime purganti

Il restauro della tela, del telaio e della sua cornice è durato un anno. In quel periodo, il mio lavoro aveva generato molta curiosità tra gli abituali frequentatori della piazza. La chiesa si animò di un via vai di persone che, a detta del vice parroco di allora, non aveva mai visto entrare.

Mi stupii di quell’entusiasmo inaspettato, che fu per me uno sprone ulteriore. 

Il quadro delle “Anime purganti” è tutt’oggi nella chiesa di Santa Maria la Nova, certamente più vicino al suo stato originale. E’ un piccolo esempio di come l’impegno, la passione e la conoscenza abbiano acceso nella comunità chiaramontana un nuovo interesse per il suo patrimonio. Un bene comune molto ampio e variegato che non aspetta altro di tornare a splendere nel tempo. 

di Giuseppe Cultrera

Il tempo passa senza far rumore
(Gàbriel Garcia Marquez, La mala ora)

Il paesaggio urbano muta col tempo, accrescendosi o restringendosi di alcuni elementi. Le botteghe artigianali, le rivendite alimentari, i magazzini e i bazar, per esempio, vanno speditamente scomparendo o mutando radicalmente. Portando via, oltre a un esercizio commerciale, uno spazio comunitario ricco di presenze umane, dinamismo, incontri ed emozioni. Mentre i surrogati si stanno rivelando scintillanti e ammalianti contenitori vuoti.

Torneremo a rimpiangere, probabilmente, le putìe stipate all’inverosimile di alimenti, utensili, materiale vario – certamente meno vivaci e attente alla “cura e conservazione del prodotto” garantita dagli attuali sostituti – ma con al banco di vendita il largo sorriso o l’affaccendata premura dei vari Don Carruzzo, Ronna Paulina, Ronna Ciuciù, don Adolfo, Sariddo, Pippuzzo.

Putìe e putiari a Ciaramunti
Don Carruzzu e don Pippino al bancone della loro putìa. (Foto Carmelo Cupperi)

D’accordo, stiamo parlando del secolo scorso a Chiaramonte Gulfi; ma sembra ieri e parecchi di noi ancora li ricordano quei visi e quei luoghi che, come gli occhi degli antichi proprietari, si chiudono, lasciando uno spazio orfano e dai contorni indefinibili. Le strade si fanno più vuote, più silenziose. La via re’ putìe (via San Paolo, adiacente alla Piazza duomo) già buccirìa della città tardo medievale, ha visto di recente la scomparsa della bottega dei mille articoli, uno dei più antichi negozi di Chiaramonte, così come testimonia una foto d’epoca.

Putìe e putiari a Ciaramunti
Una antica foto della via S. Paolo durante il rifacimento del selciato; a sinistra il bazar dei mille articoli, il cui ultimo gestore fu Peppuzzo Molè (foto a colori, nel riquadro). Archivio: Chiaramonte il fascino e la storia

Pippuzzo Molè “lo ricorderemo seduto proprio dinanzi al suo piccolo bazar dove si trovava di tutto e di più, dal piatto in ceramica di Caltagirone alla caffettiera, dalle forbici al vaso da giardino, dalla pentola ai colorati palloni, dal secchio di plastica al contenitore dell’olio”. È stato il più giovane e forse l’ultimo di questa categoria di lavoratori con una connotazione identitaria.

Né il rimpianto o la nostalgia possono riportare indietro le lancette del tempo o ricreare un mondo all’apparenza più umano del presente, proprio per la lente deformante di quei due sentimenti; possiamo invece conservarne la memoria e alcuni valori.

Putìe e putiari a Ciaramunti
La putìa di Ignazio Buttitta a Bagheria (Archivio Mondadori, 1956)

Ricordo con piacere l’elenco degli esercizi commerciali della via San Paolo (strata re putìe), che mi fece uno di quei putìari .

Nel breve spazio di una cinquantina di metri c’erano la gran parte delle botteghe di città. Partendo dalla piazza, a sinistra: un barbiere, due fruttivendole, la putìa di un ortolano, un ciabattino, una macelleria, un altro fruttivendolo, un magazzino di materiali edili, un ciabattino, una maglieria, due fruttivendoli e uno scarparo. Ritornando dal lato destro una bottega di articoli elettrici (più recente), un panniere, il bazar dei mille articoli, un falegname, una macelleria, un calzolaio, un ciabattino, la trattoria Marabedda, un macellaio (poi pescheria): e siamo di nuovo in piazza, con la sala da barba di don Filuzzo Riggio (ad angolo). Altri “esercizi commerciali” erano nelle vie adiacenti.

Putìe e putiari a Ciaramunti
Don Vito Brullo (‘u Mutilatu) in una foto di Giuseppe Leone. A destra: Venditore di asparagi, cartolina illustrata

La presenza di derrate alimentari, specialmente ortofrutta, rendeva questo spazio pregno di odori: ma su tutti spiccava quello della carne e specialmente salsiccia arrostita nelle trattorie. A pochi metri c’erano quella di Majore, con una clientela anche forestiera, e quella ro Mutilatu, con avventori locali che stazionavano più a lungo nel locale durante la giornata, accompagnando un muorsu di pane e salsiccia con più bicchieri di vino. Stessi rituali nella già ricordata ra’ Marabedda, a inizio della via re’ putìe.

di Giuseppe Cultrera

Il tempo in posa, titolò un suo volume dedicato alla fotografia Gesualdo Bufalino: una sintesi icastica della pregnanza storica, di memoria e di costume, racchiusa in ogni immagine fotografica. Storie di paese, di avvenimenti pubblici, di persone, di momenti famigliari o sociali che restano impresse nelle lastre di vetro (per i primordi di quest’arte) o in migliaia di rullini, tuttora recuperabili per essere trasferiti sulla carta fotografica o su supporti digitali.

un sorriso, prego
Un tipico gruppo musicale degli anni ’60 che allietava le feste da ballo o i banchetti nuziali
un sorriso, prego
Un musicista, prima del concerto, attorniato da curiosi e amici chiaramontani

È quello che ha fatto con certosina pazienza Vincenzo Cupperi, fotografo professionista – operante a Chiaramonte assieme al fratello Giuseppe, tra fine Novecento e primo ventennio di questo secolo – recuperandone il vasto archivio. Che ora possiamo sfogliare. Un album virtuale con dentro vent’anni di vita sociale a Chiaramonte Gulfi.

A Chiaramonte, il ragusano Carmelo Cupperi (1932 / 1976) si era trasferito, con tutta la famiglia, nel 1958 per aprirvi uno studio fotografico: «Sabato 5 aprile 1958, in Corso Umberto numero 10», precisa Vincenzo.

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Il fotografo Carmelo Cupperi nel 1965

Ben presto questo giovane professionista grazie a una personalità affabile e solare si inseriva nella vita sociale del piccolo centro ibleo condividendone momenti di svago e impegno. Non solo quindi fotografo da studio e da cerimonie ma anche testimone di una evoluzione sociale politica ed economica. Le feste religiose e quelle mondane, i mestieri, lo sport e il tempo libero vengono impressi nella pellicola. Accumulando un caleidoscopio di visi, luoghi e momenti di vita che ora Vincenzo estrae dalle polverose scatole archiviate con cura dal padre.

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Chiaramonte Gulfi: il bar di “don Austinu” Guccione (oggi Bar Centro). Sulla sinistra si riconosce il sig. Giuseppe Azzara e sul lato opposto il fratello, cameriere del bar Guccione. – (Al centro): Sala da barba Buonfine, in piazza Duomo. (A destra): Sartoria del sig. Salvatore Morando in corso Umberto. Anni ’60

E riaffiora uno spaccato di vita sociale del piccolo centro ibleo, con i suoi luoghi di svago (i bar,  essenzialmente), le feste religiose e le ricorrenze liete (matrimoni, cresime), momenti di attività lavorative e le botteghe: approdo per servizi e, poi, spazio di incontro e rapporto umano. Dal barbiere, per esempio, oltre ai clienti è sempre presente una varia umanità, che vi staziona spesso – qualcuno, quotidianamente – per informarsi e informare dei fatti & misfatti paesani, per scroccare la lettura del quotidiano o dei patinati settimanali (di regola riservati ai clienti), oppure solo per scambiare un saluto e dare una sbirciata, stando al coperto, alla piazza (dal momento che gran parte delle sale vi sono ubicate). Visi sorridenti, facce svagate, labbra serrate per una preoccupazione o altro, si affacciano dalle patinate fotografie di Carmelo Cupperi come a sussurrare storie da decriptare, gioie e affanni del tempo. Una finestra sul passato.

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Chiaramonte Gulfi. Falegnameria Sciacco, in corso Umberto. A destra don Ciccino Brullo, al centro don Saro Sciacco, a sinistra il sig. Raffaele Failla

Ancor più per le botteghe e gli esercizi commerciali: la falegnameria di don Saro e Vito Sciacco sembra cristallizzarsi nel tempo, tra passato e presente; le putìe di don Peppino Vargetto e don Carruzzu attendono torme di ragazzi in cerca di leccornie e luccicanti giocattoli.

Le sartorie, allora ampiamente presenti, erano rigorosamente separate per i due sessi; quella del sarto per i maschi e quella delle sarte solo per le donne, compreso lo stuolo di lavoranti e apprendisti.

Abiti che poi vanno, di norma, sciorinati nei matrimoni o cerimonie similari e per le feste religiose, in primis quella della Madonna di Gulfi. Provate a ingrandire una delle numerose istantanee di questa festa, presenti nel vasto archivio Cupperi, e troverete il risultato del lungo e diuturno lavoro delle varie sartorie, con padri madri e figli che sembrano “usciti dal catalogo” come si diceva allora scherzosamente, a rimarcare il vestiario fresco di sartoria.

un sorriso prego
Un momento della processione della Madonna di Gulfi; la salita

Ma la maggior parte delle foto veniva realizzata in studio; in posa. E qui la mastrìa del fotografo faceva la differenza. Dal momento che doveva prima approcciare il soggetto con l’obiettivo e poi trasferire, su pellicola e carta, il meglio della sua personalità e dell’aspetto fisico (qui alcuni accorgimenti tecnici compensavano o eliminavano crepe estetiche).

«Una spazzola per pulire le scarpe, accessorio indispensabile dello studio, era sempre a portata di mano; come il paio di occhiali con la montatura priva di lenti, per evitare i fastidiosi riflessi», mi racconta il figlio Vincenzo. E ovviamente lo sfondo con paesaggio o struttura architettonica per gli adulti; e l’immancabile cavalluccio bianco per i bimbi. Ai quali Carmelo Cupperi dedicava una briosa attenzione, mista di amicale afflato e scherzosa complicità, per predisporli allo scatto giusto che, «non poteva essere replicato più volte, dal momento che allora la lastra costava: a differenza dell’attuale digitale, che permette una sequenza gratuita di scatti da cui poi estrarre il meglio» confida Giuseppe, l’altro figlio.

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Monterosso Almo. Matrimonio. Il corteo degli sposi e invitati si muove dalla chiesa di S. Giovanni Battista verso la via Vittorio Emanuele. In primo piano, al centro, Vannino Arena, cameriere e organizzatore del rinfresco per parenti e invitati

Questo suo gioviale rapporto umano lo trasferiva nella vita di tutti i giorni. Spesso era presente nelle feste che amici o conoscenti organizzavano e nelle manifestazioni pubbliche, sempre con la fedele macchina fotografica, pronta a carpire un momento gioioso o un particolare curioso. Così ancora lo ricordano tanti amici ed estimatori, che lo rimpiangono; troppo presto scomparso, nel 1976, ad appena 44 anni.

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Altra istantanea del matrimonio. Gli sposi attorniati dai parenti

Dalla gran mole delle foto recuperate e trasferite in digitale, si intende fare una ristretta selezione per esporle in una mostra da dedicare alla figura di questo giovane fotografo degli Iblei. Lo merita Carmelo Cupperi e lo meritano le istantanee di vita sociale relative a Chiaramonte, Ragusa e altre città viciniore. Un breve assaggio nella Galleria (16 foto) che potrete visionare cliccando il link sottostante.

A differenza delle foto nel testo, hanno una didascalia sintetica; ne avevo approntato di più descrittive, ma la presenza di numerose persone, penso note a gran parte dei chiaramontani, che non riuscivo a identificare, mi ha fatto desistere e rimandare la compilazione di didascalie – complete di nomi e cognomi, fatti e momenti – a una seconda fase: quando, spero, parecchi di voi vorranno dare precise indicazioni nei commenti su Fb o in fine all’articolo. Grazie, in anticipo.

Galleria fotografica. Clicca qui!

Un breve itinerario alla scoperta di un interessante edificio sacro di Chiaramonte Gulfi: la chiesa di S. Filippo, poco discosta dalla Piazza Duomo, verso levante.

di Giuseppe Cultrera

Accanto alla chiesa di Santa Sofia, tra le prime della città medievale, sorse quella di San Filippo nei primi del XVI secolo. Tra le prove citate dallo storico P. Samuele Nicosia, l’antica statua del Santo, un documento che attesta al 1512 la fondazione di una Congregazione in onore di S. Filippo, e la data 1565 incisa nel pulpito oggi scomparso “Nel pulpito di detta chiesa che si conservò sino al secolo passato, si leggeva la data 1565” (P. Samuele Nicosia, Notizie storiche su Chiaramonte Gulfi, Ragusa 1881, pag. 94).

Nel 1535 vi si riunì la confraternita laicale sotto nome di S. Filippo.
La Cappella del Rosario (parte della quale oggi si trova in sacrestia) fu eretta, a spese della famiglia Failla intorno al 1620, dallo scultore gaginiano Nicolò Mineo, e nel 1624 vi fu collocata la statua della Madonna del Rosario in marmo alabastro.

Chiesa di San Filippo a Chiaramonte Gulfi

Fu danneggiata dal terremoto del 1693 e ristrutturata nei primi del Settecento. Ma demolita nel XIX secolo e rifabbricata più grande ed elegante, fu ultimata nel 1852. L’interno fu decorato con stucchi da Andrea Sesta di Comiso, bottega Gianforma, sotto la direzione del pittore Gaetano Distefano, autore delle quattro tempere della volta, la gran parte oggi scomparse (resta solo quello raffigurante Dio Padre). La chiesa fu inaugurata, con una solenne cerimonia, nel 1847.

Particolare della facciata della chiesa di San Filippo

Tra gli artisti chiaramontani che resero più bella questa chiesa, voglio ricordare, lo scultore Nicolò Mineo, la cui lapide sepolcrale si trova in sacrestia accanto all’Arco di Cappella che intorno al 1620 scolpì per la Cappella della Madonna del Rosario. È uno dei monumenti rinascimentali più interessanti presenti nell’area iblea. Il Mineo, che probabilmente, proveniva da Caltagirone, ma che nel 1593 risulta stabilmente residente a Chiaramonte con la famiglia, è un artista gaginiano di grande inventiva e di eleganti soluzioni stilistiche. Basta guardare il citato Arco presente in Sacrestia per rendersene conto. Ben fecero i nostri padri, nell’ultima ristrutturazione della chiesa (quella di inizio Ottocento) a preservare questo reperto del passato, quale testimonianza di fede e di arte.

(Sopra) L’arco di Cappella della Madonna del Rosario scolpito intorno al 1620 da Nicolò Mineo, la cui lapide sepolcrale (sotto) si trova in sacrestia

Inoltre, la statua della Madonna del Rosario che era collocata all’interno di questa cappella fino all’inizio ottocento, e che viene indicata come opera di artista ignoto, ad un attento esame stilistico sembra palesare la mano del citato scultore Nicolò Mineo: ad esempio le testine di angeli che ornano la base, hanno molto attinenza con quelle simili presenti nelle decorazioni dell’Arco. Anche l’eleganza formale dei due medaglioni, della Vergine e del Redentore, presenti nell’Arco, danno adito ad una tale attribuzione. In ogni caso le due opere sono coeve.

La statua della Madonna del Rosario viene indicata come opera di artista ignoto, ma ad un attento esame stilistico sembra palesare la mano dello scultore Nicolò Mineo

Ad un altro artista chiaramontano, contemporaneo del Mineo, Melchiorre Ereddia rimanda la statua lignea di S. Filippo di recente restauro. A questo artista rinascimentale è attribuita la statua lignea del Patrono San Vito, quella di S. Maria Maddalena, un tempo nel convento dei Cappuccini, ed una statua dell’Annunziata, datata 1547, entrambi scomparse. La somiglianza di stile tra la prima e la datazione di quest’ultima, avvalorano questa ipotesi attributiva.

La statua lignea di S. Filippo opera di Melchiorre Ereddia

Tra le pale degli altari minori, primeggiavano due grandi dipinti dell’illustre pittore chiaramontano Simone Ventura (1700-1770 circa) L’annunciazione e L’assunzione, oggi non esistenti in quanto rubati un ventennio fa. Un artista in particolar modo legato alla chiesa di S. Filippo: accanto alla quale, a pochi metri dal prospetto, nella attuale via S. Sofia aveva la casa di abitazione e nei bassi la bottega di pittura, dalla quale uscirono certamente i due citati dipinti.

Tra le pale degli altari minori, primeggiavano due grandi dipinti di Simone Ventura: L’assunzione (a sx) e L’annunciazione (a dx). Oggi non più esistenti perché trafugati

Nella fase di realizzazione della chiesa attuale, tra inizi e prima metà dell’800, troviamo altri artisti locali impegnati ad arricchire la struttura con decori ed arredi sacri. In particolare, una famiglia di esperti artisti-artigiani: i Distefano, abili scalpellini, intagliatori del legno, pittori, capomastri, decoratori.
Carmelo Distefano (Chiaramonte 1784-1861) è certamente la personalità artistica di maggiore valenza. Scultore della pietra e del legno, intagliatore e scalpellino di pregio, lavorò per oltre trent’anni a Catania, e anche a Chiaramonte dove scolpì Il Cristo alla colonna nella chiesa di S. Giovanni, la Madonna del Carmine nella chiesa di S. Teresa e un grande Crocifisso, per la Chiesa Madre ed infine la parte intagliata e scolpita del prospetto di S. Filippo, dal 1829, come è attestato da un contratto del 15 luglio 1829. Interessante è il gruppo scultoreo, con l’allegoria della Fede, che fa da coronamento al prospetto (completato nel 1838).

Il Cristo alla colonna (conservato nella chiesa di S. Giovanni) e il grande Crocifisso (Chiesa Madre). Entrambe opere di Carmelo Distefano

Anche il fratello di costui Rosario (1789-1874), oltre che scalpellino anche capomastro, è tra coloro che parteciparono alla costruzione della chiesa: numerosi documenti attestano la sua presenza nell’iter dei lavori e l’apporto estetico di scalpellino (specialmente nel secondo ordine).
Nella fase di ornamento della chiesa intervenne un terzo artista della famiglia Distefano il sacerdote don Gaetano Distefano (1809-1896), figlio di Carmelo e nipote di mastro Rosario, che seguì in qualità di “consulente artistico e direttore dei lavori” la pittura e stuccatura dell’interno e degli altari, eseguendo egli stesso i grandi quadri della volta (4) con episodi della vita di S. Filippo: dipinti oggi purtroppo andati quasi tutti distrutti. Sono invece rimasti alcuni suoi quadri, piccoli e grandi tra i quali sono originali i 15 misteri del Rosario. Simile per stile e formato La Via Crucis (oggi non più esistente in quanto trafugata): uno dei suoi soggetti preferiti, avendone eseguite per molte chiese di Chiaramonte e per parecchie dell’area iblea – allora provincia di Siracusa.

Particolari della Cappella del Rosario

Un altro pittore presente nella chiesa di S. Filippo è Nicolò Distefano (1842-1919), figlio di mastro Rosario e pertanto cugino del citato sacerdote don Gaetano, a cui dobbiamo il Calvario firmato e datato, 1896. Interessante per la storia sociale di Chiaramonte perché riproduce un dipinto simile del 1867 presente nella chiesa dell’Immacolata (oggi Sala L. Sciascia), non più esistente, unica opera di un giovanissimo pittore chiaramontano, Michelangelo Casì, allievo del catanese Giuseppe Sozzi, che – a detta dei contemporanei – dimostrava grande estro, facendo presagire ottimi risultati futuri: morì all’improvviso ad appena 18 anni, lasciando incompleta l’opera. Che poi fu ultimata da Gaetano Distefano suo maestro.
Il fratello di costui, Mariano (1824-1879), abile scultore del legno e della pietra, oltre ai citati lavori del prospetto eseguiti assieme al padre Rosario, fu l’artefice della struttura lignea che contiene l’organo, orgoglio dei procuratori e fedeli di S. Filippo, perché è un Serassi.

2012. L’interno della chiesa di San Filippo dopo l’ultimo restauro

La storia della chiesa di S. Filippo, come appare chiaro, si intreccia con la vita sociale e culturale della città: questo sottile filo di memoria, che unisce i cittadini del passato a quelli del presente, è possibile leggerlo nella struttura e nelle opere contenute al suo interno. Una visita alla chiesa di S. Filippo a Chiaramonte Gulfi – tra l’altro di recente restauro – diventa un itinerario interessante ed istruttivo.

di Giuseppe Cultrera

Espone, fino al 12 dicembre, al Riso di Palermo: 200 pezzi fra oggetti, modelli, prototipi, disegni tecnici, bozzetti preparatori, studi di logo, francobolli, monete e macchinari, capaci di ripercorrere oltre quarant’anni di carriera. Vito Noto (Chiaramonte Gulfi, 1955) è un designer (diploma di Industrial Designer presso la Scuola Politecnica di Design di Milano e vari perfezionamenti a Zurigo, Amburgo e Parigi), emigrato giovanissimo in Svizzera, a Lugano, dove tutt’oggi vive e lavora.

Lo incontro, alcuni giorni fa, tra le strette stradine chiaramontane. Mi dice che è venuto per la raccolta annuale delle olive del fondo famigliare. Quest’anno è coincisa con l’esposizione Quarant’anni di grafica e design. Il senso dele idee al Museo di arte contemporanea di palazzo Riso a Palermo.

un siciliano a lugano
Album di famiglia: (da sinistra in senso orario) 1- Il nonno Vito Noto e la nonna Lucia Incardona, anni ’20. 2- Foto del matrimonio del padre Francesco e della madre Rosa Riggio, 1948. 3- Vito Noto, all’età di due anni, Chiaramonte, via Roma. 4,5,6- Tre istantanee da ragazzo 1957/63. 7- Ritratto del nonno Vito, anni ’30

Tuo nonno Vito Noto era un artista-artigiano, un maestro di carretti siciliani, con rinomata bottega in Chiaramonte Gulfi: quanto di quest’impegno lavorativo e creatività si è trasferito nel nipote?

Forse la volontà di fare cose utili, mentre giocavo davanti alla bottega del nonno e lo vedevo lavorare e realizzare cose concrete.

Un noto proverbio siciliano recita “cu nesci arrinesci” (chi va fuori si realizza): anche se da giovanissimo, tu sei uno dei tanti siciliani emigrati con la famiglia paterna all’estero in cerca di una situazione lavorativa migliore o più stabile di quella che poteva offrire il paese natio…

Già mio nonno era andato a Buenos Aires più volte per acquisire nozioni per produrre carretti.  Anch’io, dopo aver studiato al Politecnico del Design a Milano sono andato a cercare esperienze in Svizzera ad Oberrohrdorf nel Canton Argovia, ad Amburgo ed a Parigi. La differenza è che il nonno è riuscito ad importare la sua arte per esercitarla in Sicilia mentre io non ho trovato accettanza a queste latitudini. Il mio servizio si è sviluppato in Svizzera, in Germania, in Italia del nord con alcune eccezioni anche in Svezia, in Spagna, in Turchia ed in India.

Gli influssi e gli incontri nel mondo del design hanno formato la tua originale cultura di freelance, prima, e di professionista con studio affermato poi; qualcuno di quelli più incisivi e appaganti…

Il design è una attività che si sviluppa anche a bottega nelle discendenze. Ho avuto la Fortuna di poter esercitare come dipendente principiante presso studi rinomati in Svizzera da Ludwig Walser (Walserdesign) che aveva lavorato da Hewlett Nois a Chicago e poi soprattutto in Francia presso la Endt Fulton Partners; Evert Endt e Jeames Fulton erano collaboratori stretti discendenti di Raymond Loewy nello studio di Parigi (creatori dei marchi Shell, BP, Exxon, NewMan, ecc.). Infine, la breve collaborazione con Francesco Milani in Ticino dove ho fondato il mio studio Vito Noto Industrial Design che strada facendo è diventata agenzia VitoNotoDesign che tutt’ora si occupa di immagine aziendale (Corporate Product Design) a tutto campo.

un siciliano a lugano

Una peculiarità delle tue creazioni è la originalità strettamente connessa con la funzionalità: è la tua visione della missione del designer?

Certamente il design è, per me, un’attività impregnata da empatia che mira a soddisfare prioritariamente le esigenze del fruitore in equilibrio ai fattori economici, ecologici e sociologici.

Nei tuoi spazi del tempo libero e dell’impegno culturale trovo la fotografia: la macchina fotografica come “inchiostro” per la scrittura dei tuoi racconti, personali ed etici?

La fotografia mi accompagnava già da giovane per le mie sperimentazioni visive, professionalmente poi come supporto alle attività. E nel tempo libero, come hobby, sempre per raccontare quello che vedo e sento rilevante nei miei percorsi.

Una o più volte l’anno ritorni, spesso con la famiglia, nella tua città di origine Chiaramonte Gulfi: rito dell’emigrante, vacanza rilassante o bisogno di riapprodare alle radici affettive e culturali?

Le radici sono importanti.  I miei frequenti rientri sono uno stimolo istintivo, quasi fisiologico, appagati da incontri talvolta fugaci ai quali sento il bisogno di ritornare continuamente.un siciliano a lugano

Il più bel progetto realizzato?

Sono tanti ma tra questi può spiccare “Lyset” per Hamilton, apparecchio elettromedicale per la preparazione di campioni per le analisi Citofluorometriche.

Quello che vorresti realizzare?

Nel corso degli anni ho sviluppato e continuo a sviluppare soluzioni in diversi ambiti per cui sono alla ricerca di partner che si entusiasmino con me per accompagnare questi progetti verso gli obiettivi.

Cosa significa esporre in due prestigiose gallerie (quella al Palazzo Riso di Palermo è ancora in corso fino al 12 dicembre)?

Rendere pubblica la creatività sviluppata durante il periodo del passaggio dall’epoca analogica a quella digitale. Sarà importante anche successivamente quando tutti i progetti sviluppati saranno consultabili fisicamente presso la biblioteca del m.a.x. museo di Chiasso.un siciliano a lugano

Quindi sintesi del percorso lavorativo e creativo quarantennale. O incontro e dialogo?

Entrambe, in quanto il materiale esposto è stimolo al dialogo. Reputo il dialogo fondamentale per poter costruire e dar seguito a opportunità di collaborazioni che spero possano crescere tra studenti ed industria.

Ha fretta di concludere, Vito Noto, lo aspettano le olive che sta raccogliendo. Per estrarne quel buon olio che durante il freddo inverno sprigionerà calore e sapore chiaramontano sulla tavola della sua abitazione di Cedro (Lugano). Segno e simbolo delle radici. Non ho il tempo per chiedergli se tra i tanti progetti, ce ne sia qualcuno legato all’olivo e all’olio…vito noto

di L’Alieno

Da tempo mi chiedo che senso abbia continuare a dedicare alcune vie importanti di Chiaramonte a certe figure molto discutibili della storia d’Italia. Per tramandarne quale memoria ai nostri posteri?

Come possiamo giustificare l’intitolazione del nostro Corso principale al “Re buono”, Umberto I, che di buono non aveva proprio nulla? Possiamo tacere della sua svolta autoritaria e della convinta adesione ai metodi assassini del Generale Fiorenzo Bava Beccaris che a colpi di cannone aveva sedato i moti di Milano del 1898? Diverse centinaia furono le vittime tra i manifestanti inermi che chiedevano pane e lavoro. Ma la dura repressione colpì anche la stampa e i partiti di opposizione. Furono arrestati circa 2.000 persone, fra cui diversi oppositori politici.
A termine di quella sanguinosa repressione il “macellaio di Milano” Bava Beccaris fu premiato dal “Re buono” con la nomina a Senatore del Regno e con la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.

(Da sx in senso orario) Umberto I, il Generale Bava Beccaris e alcuni esponenti politici di opposizione arrestati durante moti di Milano del 1898

E dell’altro gran campione di casa Savoia, Vittorio Emanuele III, cui abbiamo intitolato un’altra via importante, cosa dovremmo ricordare? Le sue terribili colpe nel concedere il potere a Mussolini dopo la buffonata della “Marcia su Roma”? O la firma sulla vergogna delle leggi razziali? Oppure la disonorevole fuga da Roma verso Pescara e Brindisi, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943?

(Da sx) Vittorio Emanuele III insieme al Maresciallo Badoglio nel 1943

Altra figura oscura fu quella di Costanzo Ciano, titolare della via di ingresso della città dall’Arcibessi. Parliamo di un fascista della prima ora. Ministro del Duce, che nel 1922 partecipò alle violenze squadristiche che sfociarono nell’occupazione del Municipio di Livorno. Dopo il delitto Matteotti si segnalò per la dura intransigenza verso gli oppositori politici e nel perorare misure repressive straordinarie. Insomma, una figura di nazionalista conservatore e autoritario che non disdegnava nemmeno speculare e fare affari all’ombra del suo potere politico.

Costanzo Ciano in uniforme della regia marina

Non esiste una sola ragione per continuare ad intitolare le nostre strade a questa gente. E, per favore, mettiamo da parte la solita retorica del “fanno parte della nostra storia” o, peggio, della “cancel culture”. I simboli contano. Eccome.

Perché allora non reintitolare Corso Umberto al Presidente della Repubblica più amato dagli italiani: Sandro Pertini? E perché no la via Vittorio Emanuele III al grande Alcide De Gasperi o a Piersanti Mattarella? Per la via Ciano, poi, un’idea precisa l’avrei, più casereccia. Però in questo caso preferisco tacere per… conflitto di interessi.

(Da sx) Sandro Pertini e Alcide De Gasperi

di Giuseppe Cultrera

Adesso i luoghi che visse e calcò Vincenzo Rabito si tingono dell’inchiostro dei suoi libri e trasfigurati letterariamente ci appaiono icone comuni (o comunitarie?) che contraddistinguono il paesaggio urbano e quello della sottostante piana che degrada verso il mare d’occidente: le scale ripide del carrugghiu di S. Giovanni, che percorse più volte, a due scalini per volta, correndo transfuga alla casa materna; o l’angusto cortile della casa natia e il prospetto dell’abitazione acquistata con “i soldi dell’Africa” dove avrebbe voluto riposare fino alla vecchiaia, ma che dovette vendere per trasferirsi a Ragusa; le società di Mutuo soccorso in piazza delle quali, adulto, fu assiduo sodale; il balcone panoramico accanto alla Villa Comunale dal quale si vedono, nitide, la casetta cantoniera e il Santuario di Gulfi, l’uno accanto all’altra per l’effetto della distanza.

Frammenti del suo memoriale ed ora di parte del nostro vissuto condiviso e ritrovato, dentro quelle narrazioni compresse in ortografia e sintassi alchemiche e asimmetriche – un po’ come le opere grafiche di Escher – che lo hanno consegnato alla letteratura del Novecento prima con Terra Matta e ora con Il romanzo della vita passata, che ne è rilettura e sedimentazione. Chiaramonte Gulfi diviene, pertanto, l’imago mundi. E le vicende che vi si dipanano: archetipi e sintesi.

vincenzo rabito
M. C. Escher, Relatività, 1953. Vincenzo Rabito

La Festacrante di domenica 16, ha animato la sua città non solo per festeggiare il secondo capitolo, fresco di stampa, ma per tributare – compaesani, amici acquisiti, studiosi e accademici – un attestato di simpatia all’analfabeta Rabito che ha svelato la magia della scrittura. Lo so che è un ossimoro. Ma non è l’unica asimmetria (Maurits Cornelis Escher, sorride).

Vincenzo Rabito
I fratelli Tano, Salvatore e Giovanni Rabito (foto Tony Vasile)

«Lo sanno bene quelli che, dopo aver letto e, a volte, riletto “Terra matta” hanno contratto il virus della rabitìte chiosa Chiara Ottaviano, una delle artefici della manifestazione – che ha indotto, ad esempio, il prof. David Moss, antropologo anglosassone, a penetrare i meandri del “rabitese” e dedicargli uno studio ancora in itinere; oppure il giovane attore milanese Stefano Panzeri a portare in scena, per capitoli, la vita “molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata” assorbendo e restituendo al pubblico la particolare ortografia e musicalità della lingua. O ancor più la sua voce narrante, nel docufilm “Terramatta” di Costanza Quatriglio e mio, nutrita della conoscenza diretta dello scrittore o dall’aver frequentato casa sua a Ragusa, quale amico del figlio Giovanni: parlo del compianto Roberto Nobile, a cui abbiamo dedicato un commosso ricordo durante la festa.»

Vincenzo Rabito
Tano Rabito, Giovanni Rabito e Saverio Senni

Ma penso pure al professore Saverio Senni, docente dell’università della Tuscia, approdato a Chiaramonte per svelare un varco poetico nel memoriale: parole e pause che sono versi e poesia. Da più lontano sono giunte Laura Brignon, Elena Gerola West e Anke Stark per volgere il “rabitese” in lingua francese, inglese e tedesca.

Le parole sono pietre diceva Carlo Levi. Quelle di don Vincenzo Rabito hanno la ruvida scorza e l’indefinita dolcezza degli altopiani iblei.

Vincenzo Rabito
Da destra: Elena Gerola West, Anke Stark, Laura Brignon e Giovanni Rabito (foto Tony Vasile)

La manifestazione (16 ottobre) in omaggio all’opera di Vincenzo Rabito, ‘Festacrante’ è stata voluta ed organizzata da Archivio degli Iblei e Oltreimuri.blog in collaborazione con i figli Giovanni, Tano e Salvatore, il Comune di Chiaramonte Gulfi, Cliomedia Public History, Associazione Teatro club ‘Salvy D’albergo’ Ragusa, Amici del teatro e Pro Loco di Chiaramonte. La nostra redazione ha ritenuto, inoltre, di proporre, prima durante e dopo l’evento, una serie di contributi, articoli e analisi relativi a “Il romanzo della vita passata” e al personaggio Rabito. Il primo contributo è di Saverio Senni, docente presso l’Università della Tuscia, tra i relatori alla Festa di domenica prossima.
In coda al testo, per coloro che fossero interessati, è disponibile il link di “Qui Terra matta”, dove sono raccolti gli articoli inerenti a Vincenzo Rabito e “Terra Matta” già pubblicati nel nostro blog.

di Saverio Senni

Giovanni Rabito mi sta aspettando all’ingresso della prestigiosa Società Dante Alighieri, dove siamo venuti per presentare “Il romanzo della vita passata” di cui è il curatore.
“Ma sei alto!” esclama quando mi vede per la prima volta in carne ed ossa. Fino a quel momento, infatti, avevamo avuto solo contatti a distanza. Era marzo del 2017, quando gli scrissi la prima e-mail. Da quel giorno è iniziato un e-pistolario, come mi piace dire, di alcune centinaia di messaggi, dall’Australia all’Italia e viceversa, che raccontano di come ha preso corpo il nuovo Romanzo di Vincenzo Rabito, suo padre.
Ma andiamo con ordine.

(Da sx) Giovanni Rabito e il padre don Vincenzo

La corrispondenza con Giovanni iniziò nel 2017 quando cominciarono le repliche del reading teatrale sui “Ragazzi del ’99 nella Grande Guerra”, tratto da Terra matta e scritto con Aldo Milea. Quell’anno era, infatti, il centenario della chiamata alla leva della classe 1899, narrata magistralmente da Vincenzo nelle sue memorie. È solo nel 2019 però che è partita l’avventura che ha portato alla pubblicazione del nuovo libro. Ad aprile di quell’anno, infatti, Giovanni mi inviò la “traslazione” (così lui preferisce chiamarla) che aveva fatto delle pagine del secondo memoriale del padre dedicate alla sua partecipazione alla Grande Guerra. Pensava che avrebbero potuto essermi utili per lo spettacolo. Nulla lasciava presagire cosa è poi scaturito da quell’invio. Sbadatamente per oltre un anno non aprii gli allegati presenti in quel messaggio. Lo feci nel luglio del 2020 e quando cominciai a leggere quei testi ne rimasi letteralmente folgorato.

La corrispondenza tra Giovanni Rabito e Saverio Senni è stata raccolta in due volumi dal titolo emblematico

“Caro Giovanni – gli scrissi – mi sto divorando le pagine che mi hai inviato più di un anno fa: musica per le mie orecchie. È come ascoltare un inedito di Mozart o di Bob Dylan. Un “bootleg” si direbbe per la musica pop. A mio avviso anche queste memorie andrebbero pubblicate.”
Ci accordammo per parlarne in una videochiamata in cui Giovanni mi spiegò che negli anni precedenti aveva cominciato a trascrivere il secondo memoriale ma si era fermato al 1938, quando Vincenzo era in Africa orientale. Non avendo una specifica finalizzazione di natura editoriale non aveva motivo di proseguire speditamente.

Mi mandò allora le altre parti trascritte e la mia folgorazione fu confermata. Ragionammo allora su come proporre ad un editore la pubblicazione di un testo che poteva apparire poco interessante dal momento che c’era già Terra matta. Eravamo pieni di dubbi. Ma ci dicevamo, per scherzarci un po’ sopra, non era successo qualcosa di simile per Alessandro Manzoni? Prima scrisse “Fermo e Lucia”, poi lo riscrisse e ne venne fuori “I promessi sposi” che com’è noto oscurò del tutto la prima versione del romanzo.

La Olivetti lettera 32 di Don Vincenzo insieme al nuovo romanzo

Concordammo che la cosa più opportuna era sentire Einaudi e, nel caso di un diniego, esplorare altre vie. La prima risposta della casa editrice torinese fu incerta perché si trattava di spiegare ai lettori che non era vero, come scritto nell’ultima pagina di “Terra matta”, che Vincenzo smise di scrivere nel 1970. E poi il timore che potesse essere una sorta di “doppione” (di Terra matta), visto che in fondo si trattava del racconto della medesima vita.
Ma quando Giovanni inviò i primi capitoli la redazione di Einaudi trovò quelle pagine bellissime e concordò sull’opportunità di pubblicare anche il secondo memoriale, seppure in forma ridotta vista la sua mole.
La strada ormai era tracciata e in discesa.

L’abbiamo percorsa, passo dopo passo, insieme discutendo dei tagli da fare e dei termini che potevano risultare incomprensibili ai non siciliani, per prevedere alcune note a piè di pagina. Giovanni mi chiese anche un aiuto per i titoli dei capitoli, cosa che feci estraendoli dal testo, come in Terra matta. Preparai pure la lista dei nomi di tutti gli altri personaggi menzionati nel secondo memoriale: da Rafaele Picireditto a Vita la Milinciana, da don Ciovanne lo Sparato a don Turiddo Picicanedda e tanti altri. Individuai nel racconto oltre duecento personaggi secondari, a testimonianza della grande coralità, anche umana della scrittura di Vincenzo.

La prima pagina del dattiloscritto del secondo memoriale di Vincenzo Rabito

Per farla breve ad un certo punto del nostro dialogo telematico, divenuto presto quotidiano, Giovanni mi scrisse:
“Saverio, vedremo ‘sta mazza una buttana vo’ cari!’… frase che mio padre usava parecchio quando prefigurava una operazione dagli esiti incerti. La attribuiva a Salomone, che una volta, parlando al popolo avrebbe detto: ‘puopulu, ri cca banna e ddabbanna ro mari, vardati sta mazza unni buttana vo’ cari!’ (Popolo, da questa parte e dall’altra parte del mare, guardate questa mazza dove cavolo va a cadere!) Frase oscura e zaratustreggiante che a me è sempre piaciuta moltissimo.”

E oggi questa “operazione dagli esiti incerti” ha raggiunto il primo obiettivo: la mazza dal 20 settembre è in libreria. Il secondo risultato, ovvero il riscontro che avrà di pubblico e di critica è ancora incerto, ma la comunità dei “rabitisti anonimi”, a cui appartengo, è ottimista.
Sapremo presto “sta mazza una buttana vo’ cari”.

8 ottobre 2022. (da sx) Giovanni Rabito, Matteo Motolese, Saverio Senni e Maurizio Ridolfi, alla libreria Spazio Sette di Roma durante la presentazione de “Il romanzo della vita passata”

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