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Chirone

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di Vito Castagna

CANTO XII (parte seconda)

Lentamente ci avvicinammo alla schiera di centauri che ci sbarrava il passo. Alle loro spalle, i violenti venivano ustionati dall’implacabile sangue del Flegetonte e le loro urla si scontravano sulla frana che avevamo disceso. Il fiume scorreva senza posa, con violenza, trascinando a volte i dannati che non riuscivano ad opporsi alla sua corrente.

Uno di loro, vedendo i centauri venir meno al proprio compito a causa della nostra presenza, sbucò dall’acqua e tentò di fuggire con passi incerti. Era una donna, le sue membra erano ricoperte di sangue. La osservammo da lontano e non dicemmo nulla, in un atto di strana complicità. Un centauro vicino a Nesso, però, fu attirato dal nostro sguardo e si voltò verso il fiume. Rapidamente scagliò una saetta che trafisse il ginocchio della fuggitiva che, agonizzante, cadde tra la polvere e i sassi.

Ruppe i ranghi e si diresse verso di lei; quella imprecò contro il suo carceriere ma il mostro la prese e la trascinò lungo il breve tragitto che aveva percorso. Poi, la adagiò sul bordo del fiume e con un colpo di zoccolo la rigettò tra i flutti. Quella scena ci terrorizzò più delle frecce che avevamo puntate contro.

Chirone, imperturbabile, si accarezzava la barba con le piume del suo dardo. Ad un tratto si rivolse ai compagni: «Non vi siete accorti che costui muove quello che tocca? Questo non possono farlo i piedi dei morti».

Virgilio si avvicinò al suo petto, dove l’essenza umana e animale si fondevano, e gli rispose: «Si, egli è vivo e lo conduco per questa valle oscura. Ma il suo viaggio è dettato dalla necessità, non dal diletto, così è stato deciso in Paradiso. Una donna lasciò il suo scranno per affidarmi questo compito. Credimi, Chirone, non sono un bugiardo e lui non è un ladrone. A nome di quella forza che mi ordinò di fargli da guida, manda uno dei tuoi ad aiutarci. Che ci mostri il guado del fiume e che porti il mio compagno sulla groppa, dato che egli non può fluttuare sulle acque».

Chirone si voltò verso Nesso e gli ordinò di fare quanto noi avevamo richiesto. La schiera si sciolse, dopo aver riposto le frecce nelle faretre. Ci dirigemmo verso il Flegetonte e vedemmo le anime contorcersi tra gli spasmi. Le loro lacrime si perdevano nel sangue divoratore. Io ero a cavallo del centauro e mi sporgevo nel tentativo di riconoscere qualche volto. «Questi che vedi sono i tiranni, coloro che vissero nella violenza e nella bramosia di ricchezze. Qui piangono tutto il dolore che hanno causato; c’è Alessandro, lo spietato Dionisio di Sicilia, quello lì di fronte, con i capelli neri, è Ezzelino da Romano e l’altro è Obizzo d’Este, che venne assassinato dal suo figliastro». Senza le indicazioni del centauro non avrei saputo riconoscerli, tanto era nutrito il numero di violenti immersi nel fiume.

Dopo un breve tratto, Nesso si fermò dove il sangue sembrava più alto e i dannati ne erano raggiunti fino alla gola. Ci indicò un’anima solitaria: «Quello è Simone di Monfort, colui che uccise nel tempio di Dio Enrico d’Inghilterra».

Di fronte a noi c’erano coloro che tenevano l’intero busto fuori dalle acque e di questi ne riconobbi molti. Il fiume si faceva sempre più basso, tanto che cuoceva solo i piedi dei dannati. Attraversammo il guado.

Come commiato, il centauro mi disse: «Questo è il punto più basso del fiume, poi il fondale diventa sempre più profondo, fino a dove ribollono i tiranni. Lì la divina provvidenza punisce Attila, Pirro e Sesto Pompeo, Rinieri da Corneto e Rinieri de Pazzi, che sparsero tanto sangue per le strade».
Si zittì e mi fece scendere dalla sua groppa. Senza voltarsi, attraversò il fiume al galoppo.

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di Vito Castagna

CANTO XII (parte prima)

Scendemmo lungo una scarpata scoscesa, una frana ormai salda nel suo equilibrio precario. Ed infatti, ad ogni mio passo, le rocce fremevano sotto i calzari e alcune ruzzolavano rumorosamente verso il fondo cupo. Temevo di poter precipitare, per colpa di un sasso o della debolezza delle mie gambe ma, quando trovavo una base salda, volgevo lo sguardo verso Virgilio che, come un daino, scendeva lesto. La sua agilità mi infondeva una strana sicurezza e la tenacia per poter andare avanti. 

Ad un tratto, durante la discesa, le parole di Cavalcanti mi tornarono alla mente. Perché esitai a rispondere quando mi chiese se suo figlio Guido fosse vivo? Forse furono le parole di Farinata a scuotermi ma non saprei dirlo con certezza. Se solo Cavalcante dei Cavalcanti mi avesse dato il tempo di dissipare i mostri di Montaperti dalla mia testa. Se solo avesse atteso un’istante, prima di affondare nuovamente tra le fiamme del suo sepolcro, avrei potuto dirgli che il figlio non era morto come egli, invece, aveva dedotto dal mio silenzio. Ora non sarebbe disperato e io non porterei questo peso nel cuore.

Non era soltanto il dolore recato ad un padre a darmi spiacere; la profezia di Farinata degli Uberti era un presagio nefasto. A suo dire, tra soli quattro anni, sarò esiliato dalla mia Firenze. Forse, mentiva per rispondermi a tono, o almeno lo spero… Di colpo, scorsi qualcosa tra i sassi, una figura animalesca distesa sull’antico pietrame.

Quando fui più vicino la riconobbi. Il Minotauro, la vergogna di Creta, nato da una donna e da un toro, si issò sui suoi arti e, alla nostra vista, corrotto dall’ira, cominciò a mordersi le membra. Virgilio allora gli gridò: «Forse credi che con noi viaggi Teseo, colui che ti diede la morte? Vai via, bestia! Costui non venne guidato da Arianna, tua sorella, ma è qui per vedere i vostri tormenti!».

Il mostro venne stordito da quelle parole, come il toro che colpito a morte barcolla prima di stramazzare al suolo. Solo allora, la mia guida si rivolse a me indicandomi la via: «Corri, ora la bestia è attanagliata dalla propria furia; lì c’è il passaggio».

Lasciammo il mostro e i suoi muggiti alle nostre spalle. La via indicatami, purtroppo, era più impervia della precedente e ogni pietra si smuoveva al mio peso. Vedendomi pensieroso, Virgilio disse: «Forse ti starai chiedendo cosa ha generato questa frana, che era sorvegliata dal mostro che ho ammansito. Sappi che l’ultima volta che fui qui le rocce che vedi non erano crollate. Se ben ricordo, questo è accaduto prima che Cristo discendesse e portasse con sé i patriarchi del Primo cerchio. Quella volta tutto l’Inferno venne scosso da un terremoto, tanto violento che credetti che tutto l’universo precipitasse nel caos. Fu allora che si formò questa frana. Ma adesso guarda in fondo! Quello è il Flegetonte, il fiume di sangue nel quale ribollono i violenti».

Oh, cieca cupidigia, oh folle ira, che ci guidate nella breve vita terrena per poi farci gemere eternamente in queste acque! Sotto di noi vi era una delle anse del fiume che fendeva la pianura, così come mi aveva detto la mia guida, e tra i ciottoli e le rocce galoppavano dei centauri con gli archi in pugno e le faretre appese alla schiera, come se fossero a caccia.

Incuriositi dalla nostra venuta, si raggrupparono di fronte a noi, sbarrandoci la strada. Dopo, tre di loro si avvicinarono a noi, armati. Uno di loro gridò da lontano: «A quale tormento vi state recando, voi che scendete questo dirupo? Rispondete, se non volete essere colpiti dalle nostre frecce!».

Senza battere ciglio, Virgilio rispose: «Parleremo solo con Chirone, quando saremo più vicini. La tua impulsività ti si è rivoltata sempre contro, dovresti saperlo!». Poi mi chiamò a sé e mi disse: «Quello è Nesso, che morì nel tentativo di rapire la bella Deianira e che si vendicò di Ercole col suo stesso sangue. Quello in mezzo, che si guarda il petto, è il saggio Chirone, precettore di Achille; l’ultimo è Folo, che visse nell’ira. Questi centauri galoppano intorno al fiume e bersagliano le anime che tentano di fuggire dal sangue che ribolle».
Cautamente, con i dardi puntati contro il cuore, ci dirigemmo verso di loro.

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