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di Vito Castagna

Sappiamo bene che quello di crisi è un concetto abusato ma, tra crisi reali o presunte, quella che affligge l’editoria giornalistica è sotto gli occhi di tutti. Il numero al ribasso delle copie vendute, causate da una riduzione sempre più profonda dei lettori è solo uno dei segnali di un mondo in agonia. La reazione spesso viene scovata nei social, ma l’algoritmo di Zuckerberg sa essere implacabile anche di fronte ai colossi dell’informazione. Eppure, mentre i giganti hanno i piedi d’argilla, le realtà editoriali online sguisciano sulla rete senza alcun affanno, in una crescita costante di lettori e di ricavi. E’ la fine del giornalismo per come lo abbiamo conosciuto?

Lo chiediamo a Michele Brambilla, che lavora come giornalista e saggista dal 1976. È stato vicedirettore di Libero, Il Giornale e La Stampa, direttore della Gazzetta di Parma, del Quotidiano Nazionale, de Il Resto del Carlino e de La Provincia di Como. Oggi collabora con alcune delle maggiori testate italiane. Celebre il suo “L’eskimo in redazione. Quando le brigate rosse erano sedicenti”.

Michele Brambilla (foto: Ansa)

Quanto è stato influenzato il ruolo direttore durante questi anni di crisi?

Una volta il direttore del giornale impostava il lavoro, stabiliva a grandi linee i contenuti del prodotto insieme alla sua squadra. Si occupava principalmente del contenuto che sarebbe stato pubblicato sul giornale, teneva rapporti con istituzioni, politici e imprenditori. Da una ventina d’anni non è più così, a causa di una continua perdita di vendite in edicola.

Oggi i direttori devono guardare i bilanci, relazionarsi con manager e amministratori, ridisegnare gli organici e ridurli. Hanno dovuto gestire una crisi economica lunghissima a causa di una transizione troppo lenta all’interno del mondo dell’editoria.

Ci parli di questa transizione.

Quando si è passati dalla macchina per scrivere al computer lo si è fatto velocemente. La stragrande maggioranza dei lettori over 60 continua a comprare il giornale cartaceo. Infatti, i ricavi delle testate dipendono in parte maggioritaria dalla carta, dato che l’online non produce ancora delle somme considerevoli. Quindi non si può passare direttamente al digitale, ma i lettori che comprano in carta sono sempre meno per motivi anagrafici.

Il lavoro del direttore è diventato principalmente burocratico. Si salvano da questo tritacarne solo i direttori di bandiera, che ancora oggi riescono a svolgere compiti giornalistici, rispetto a quelli manageriali.

Indro Montanelli con la sua macchina per scrivere

Prevede la morte del giornalismo?

Sono convinto che del giornalismo non si potrà fare mai a meno. Le intuizioni che ha avuto Grillo di sostituire i giornali con i social è un’illusione perché sarà sempre indispensabile una figura dotata di una competenza professionale, che abbia un accesso alle fonti, che è in grado di parlare alle istituzioni, che segue le notizie e che ha una responsabilità civile e penale per quello che scrive.

Non morirà ma si trasformerà. Ad esempio, Cecilia Sala, che lavora con Chora Media, fa dei podcast splendidi sulla guerra in Ucraina che hanno centinaia di migliaia di ascoltatori.

Con questi nuovi strumenti come cambiano le aziende?

Non potranno più esserci le redazioni affollatissime di una volta con contratti onerosissimi, come nei tempi d’oro. E’ un mondo che va ripensato. Basti vedere il contratto Nazionale dei Giornalisti, che guarda ad un mondo di 50 anni fa.

Alcuni editori sono riusciti ad ottenere risultati importanti attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, come fatto da Chora Media o da Fanpage che sono aziende strutturate in maniera completamente diversa da quella tradizionale. La crisi verrà superata con una trasformazione. Molte testate moriranno, ma ne nasceranno altre più snelle e agili, nelle quali i giornalisti verranno affiancati da ingegneri e videomaker, che sanno come sfruttare il digitale.

Cecilia Sala e i suoi podcast su Chora Media