di Vito Castagna
Il 2022 si è concluso fornendoci un dato scoraggiante: oltre il 60% degli italiani non è andato al cinema nemmeno una volta durante l’anno. I numeri non migliorano neanche nel 2023, vuoi per l’eccessivo costo del biglietto o per i molti film presenti sulle piattaforme streaming, alle quali sempre più registi e case produttrici strizzano l’occhio.

Le statistiche sugli incassi testimoniano una disaffezione profonda anche nei confronti di pellicole considerate in passato degli investimenti sicuri, come il seguito di “Avatar” che nel Sud d’Italia ha registrato cifre molto più ridotte rispetto al Nord. Anche l’affluenza alle sale può fornirci uno spaccato sul divario fra il settentrione e il meridione della nostra Penisola.
Il cinema italiano, in particolare quello d’autore, subisce più di tutti la ritrosia dello spettatore. Ma, in fondo, non è la prima volta.
Film come “Nuovo cinema paradiso” (1988) di Giuseppe Tornatore e “Splendor” (1989) di Ettore Scola si sono concentrati sullo sviluppo del cinema come mezzo di comunicazione, dal suo apogeo fino al suo declino. Lo hanno fatto attraverso storie semplici, ma di grande impatto. Celeberrima quella di Tornatore, che dimostra un amore smisurato e malinconico per il cinema; molto meno conosciuta quella di Scola.

Eppure, “Splendor” non ha nulla da invidiare e non solo per il suo parco attori, con i due giganti, Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, ma anche per il suo intreccio narrativo. Anche in questo caso, Splendor è il nome di un cinema di un paese di provincia, gestito da Jordan (Mastroianni) e dal suo macchinista (Luigi), destinato a diventare un supermercato dopo anni di strabiliante affluenza.
Poco o nulla valgono i tentativi di rilancio, strampalati a volte, come le retrospettive sul cinema russo e jugoslavo, o in linea coi tempi, come gli spogliarelli dei fine primo tempo. Lo Splendor è destinato a morire e già lo sappiamo dall’inizio. Forse è per questa conditio sine qua non che nessuno oggigiorno ha il coraggio di aprire un cinema?
Ma sono i film che non sanno più comunicare o è lo spettatore a non cogliere il messaggio? Il linguaggio, in fondo, è desueto ai tempi, troppo lento e colmo di piani che si sovrappongono, poco avvezzo all’immediatezza, che è il tratto distintivo del nostro progresso.

Così è in “Splendor”, dove Scola gioca con i ricordi dei personaggi, li definisce col bianco e nero, per poi spostarsi sul colore, come se si divertisse a mettere in difficoltà lo spettatore della TV.
In verità, la pellicola ha un forte impianto ironico, sognante, quasi dolce. Non ha il retrogusto di “Nuovo cinema paradiso“, ma come quello serba una ingenua speranza. Che ve ne sia ancora una per il nostro cinema? Mi auguro che ce ne siano mille!
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