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Clero corrotto

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di Paolo Monello

Interrogandosi dunque sulle cause dell’”ira di Dio” che aveva sconvolto la metà orientale del Regno di Sicilia il 9 e 11 gennaio 1693, l’Arcivescovo di Palermo mise per iscritto quelli che secondo lui erano le cause dello sdegno di Dio. Della lettera del 30 gennaio non possiedo il testo originale, ma l’ampio riassunto che il Consiglio di Stato a Madrid ne fece al Sovrano nella seduta del 27 aprile, allegando poi le sue considerazioni.

«Essendo certo che castighi così grandi, sono per peccati enormi», il prelato – scrivono i consiglieri – afferma che è «suo dovere rappresentare a Vostra Maestà quanto ritiene possa avere smosso l’ira di Dio» ed avendo il terremoto colpito soprattutto le chiese, i conventi e i monasteri con tutte le persone che c’erano dentro, era evidente che a provocare l’ira divina erano state «le offese dello stato ecclesiastico», di cui Bazan si assumeva la responsabilità (ma fino ad un certo punto, come vedremo…).

L’Arcivescovo di Palermo Don Ferdinando De Bazan

Nella sua lunga lettera, Bazan metteva in evidenza tre punti nodali della crisi della Chiesa siciliana (anche se la disamina riguarda soprattutto Palermo). In sintesi: il clero secolare era troppo numeroso e molti sacerdoti abbandonavano le chiese di paese per trasferirsi nella capitale, accrescendo «il gran numero di chierici ignoranti e di cattivi costumi, che vanno a Palermo, convinti che sia certa e maggiore l’elemosina della messa, fuggendo la miseria delle loro terre».

La responsabilità di ciò era dei Vescovi, che concedevano il permesso ai sacerdoti di recarsi a Palermo, dove inoltre – in caso di reati – venivano protetti dal Giudice della Monarchia (cioè il rappresentante del Re nel governo della Chiesa siciliana), il quale garantiva permessi ed impunità, concedendo anche l’esenzione dall’assistere «alla solenne processione del Corpus, ingiustamente perché non c’è eccezione che liberi da questo obbligo», cosa tanto più incomprensibile «quando tutti credono che il SS.mo Sacramento, per il breve ossequio che gli si fece quei giorni, rimediando alla poca decenza con cui veniva portato ai malati, liberò quella città dal pericolo del terremoto».

Alessandro VII alla processione del Corpus Domini, Giovanni Maria Morandi, XVII sec.

Venendo al rimedio, l’arcivescovo suggeriva quindi che si limitasse drasticamente «con un numero fisso» la concessione di permessi per venire a Palermo, e che «il Giudice della Monarchia… a nessun affiliato nel suo Tribunale permetta di stare a Palermo più del breve tempo necessario per sbrigare le proprie faccende». Insomma, Bazan chiedeva al Re di intervenire sul suo rappresentante don Gregorio Solorzano, altrimenti non avrebbe più potuto «governare quel clero, i cui peccati hanno offeso Dio».

Venendo poi ad esaminare lo stato del Clero regolare, Bazan ammetteva «francamente, che il rilassamento è grande e totale nei conventi piccoli dove non si osserva alcuna regola» e proponeva la soppressione dei conventi con meno di dodici frati (come del resto stabilivano i canoni ecclesiastici romani, ripristinando le visite di controllo, come prevedevano le Costituzioni Apostoliche), vietando i cambi di residenza dei monaci (concessi invece dal Tribunale della Monarchia) «perché solo lo sperarlo fa i frati insolenti» e stabilendosi che «a nessuno si desse licenza per pernottare fuori del convento».

Raffigurazione della corruzione del clero con il diavolo che fa cadere delle monete nelle mani del Papa (Miniatura del XV sec.)

Inoltre, secondo Bazan, il diritto di asilo nelle chiese era «dannoso alla causa pubblica per la frequenza di esso e la facilità con cui si ottiene», per la qual cosa proponeva di chiedere a Roma «che solo i delitti contro i sacramenti (che sono in numero moderato) diano diritto di rifugio, e che gli Arcivescovi di Palermo nella loro diocesi e come delegati apostolici nelle altre, quando i delitti siano gravissimi o abituali i delinquenti, con gravi conseguenze per l’ordine pubblico, possano punirli citra penam sanguinis [cioè esclusa la pena di morte, n.d.a.], senza necessità di inviare i processi alla Sacra Congregazione delle Immunità per ottenere licenza di farlo». Nei delitti di dissolutezza, il clero era inoltre privilegiato in tribunali diversi da quelli naturali e «poiché queste cause per loro natura sono di giurisdizione del Tribunale Ecclesiastico, e invece le accoglie il Tribunale del Santo Uffizio a causa dei suoi privilegi», si perdonavano gravissimi peccati: occorreva quindi «ordinare che in tutti i fori la giurisdizione sia solo del Tribunale Ecclesiastico».

Accanto ad un loggiato aperto alcune giovani suore, dal contegno frivolo e malizioso, assistono ad un concertino offerto da piacenti gentiluomini (Alessandro Magnasco, XVIII sec.)

Non meno grave era la situazione nei monasteri femminili. «Si deve tenere per non minore motivo dell’ira divina – aggiungeva il prelato – il rilassamento nei conventi di religiose», dove molti uomini entravano «senza licenza». Per i quali Bazan proponeva una «pena di 100 onze o non potendo pagarle, ad un anno di castello o carcere irremissibile, o altre pene che si potrebbero discutere».

In una sontuosa stanza che ha ben poco a che fare con la cella di un monastero, una religiosa assapora una tazza di cioccolata calda (bevanda peccaminosa, di gran moda tra gli aristocratici) in compagnia (Alessandro Magnasco, XVIII sec.)

Esaurito il capitolo dello stato ecclesiastico, Bazan passava a condannare la rilassatezza dei costumi generali, puntando soprattutto il dito contro le rappresentazioni teatrali, fatte a tardissima ora, dalle quali «derivano moltissimi delitti» contro la morale e contro Dio. Pur rendendosi conto che esse si facevano «con il motivo di tenere occupato il popolo, proprio perché è di natura malinconica», ricordava che l’Arcivescovo di Genova Spinola le aveva proibite «in quella città non meno popolosa di Palermo, e non meno suscettibile di altre». Le rappresentazioni infatti «non solo danneggiano i costumi, ma anche il bene pubblico, per essere un seminario di bestemmie e latrocinii…e c’è la comune propensione [dei Siciliani] a questi vizi, in special modo con l’orribile bestemmia di Santo Diavolo, che viene punita con una pena facoltativa che mai è irrogata e converrà molto al servizio di Dio imporre pene certe».

Attori della Commedia dell’Arte su un carro in una piazza cittadina (pittura del XVII sec.)

Pertanto gravi erano anche le responsabilità dei pubblici ufficiali (ed il Viceré Duca di Uzeda ne era appassionato organizzatore e mecenate) nel non proibire e reprimere tali licenziose rappresentazioni. Don Ferdinando Bazan poi, mosso «dalla compassione di vedere [questo] miserevole Regno distrutto in gran parte e dal timore che solo l’emenda delle nostre offese potrà trattenere la mano di Dio perché non continui i suoi castighi», offriva le sue dimissioni al Re, in quanto la sua “incapacità” di governare bene la Chiesa palermitana e le altre dell’Isola aveva attirato la punizione divina.

Infine l’Arcivescovo, «anche se non si intromette nelle questioni politiche… non può come Pastore tralasciare di porre alla reale attenzione di Vostra Maestà che [questi] afflitti suoi figli hanno bisogno che V.M. rafforzi i segni della sua grandezza, ponendoli in una serie di fatti di buon governo, lasciando che respirino nella loro afflizione, non solo dalle contribuzioni del Real Fisco ma anche dalle deviazioni in cui si suole spendere il ricavato delle tasse, per cui se finora sono stati veramente poveri, ora sono proprio nella miseria».

La povertà in una incisione del XVII secolo (Jacques Callot, la compagnia dei baroni)

La lettera ci appare un capolavoro di diplomazia, la cui sostanza era tutta politica e non teologica. Infatti Bazan, se ammette che l’ira di Dio è dovuta senz’altro al grave stato di rilassatezza morale e veri e propri delitti in cui parte del clero secolare e regolare era caduta, afferma però che la sua azione di risanamento è stata ostacolata dal contrasto tra i vari poteri: per quanto riguardava i sacerdoti, dal Giudice della Monarchia; per il clero regolare, dall’Inquisizione (entrambe le istituzioni proteggevano i delinquenti, insomma).

Né i pubblici ufficiali di Palermo (ma soprattutto il Viceré Duca di Uzeda) erano esenti da critiche per la questione dei divertimenti serali e per il lassismo con cui non garantivano la punizione dei bestemmiatori… Inoltre, nella coda della nota, c’erano due punte “velenose”: la denunzia dell’eccessivo fiscalismo (situazione aggravata dalla miseria causata dai terremoti) e l’ingiustizia di spendere fuori dal Regno le tasse pagate dai siciliani (in quegli anni la Sicilia contribuiva con frumento e denaro a sostenere Milano ed il Piemonte nelle loro guerre contro i Francesi).

Palazzo Chiaramonte (detto anche Steri) a Palermo, sede del Tribunale della Santa Inquisizione dal 1600 al 1782

Pur nominato dal Re in base all’Apostolica Legazia, a Bazan va dato atto che si rendeva conto che la situazione era complicata dai conflitti giurisdizionali tra la Chiesa siciliana retta dal re tramite il Giudice della Monarchia, il Santo Uffizio dell’Inquisizione siciliana (anch’essa protetta dalla Corona spagnola) e la Sede Apostolica: temi che sin dai primi di febbraio sarebbero stati discussi nella apposita Giunta Ecclesiastica insediata dal Duca di Uzeda per far fronte ai disastrosi effetti del terremoto su centinaia di chiese, conventi e monasteri, e dove erano presenti sia Bazan che Solorzano.

Il Consiglio di Stato, riassunta ampiamente la nota dell’Arcivescovo, prese atto del suo zelo nella riforma dei costumi religiosi e nell’attendere al Culto Divino in modo tale che «la Divina Justicia suspenda el rigor que nuestras culpas han motivado», limitandosi a suggerire al Re di invitare i vescovi a non concedere permessi ai religiosi per andare a Palermo e ad ordinare al viceré e a Giudice della Monarchia (ciascuno per le proprie competenze) a stabilire un numero fisso di sacerdoti per ogni chiesa (in modo da evitare il soverchio numero delle “vocazioni, spesso finte e unico strumento per evadere il fisco, come la Giunta metterà in evidenza) e a punire con rigore il “rilassamento” morale nei conventi e monasteri.

Mappa della Sicilia con i paesi colpiti dal sisma del 1693 segnate. A destra l’elenco delle città evidenziate nella mappa.

Infine, il Consiglio suggeriva al Re di accogliere l’indicazione dell’Arcivescovo per vietare giochi e rappresentazioni teatrali e soprattutto per punire con sanzioni certe la bestemmia di “Santo Diavolo”. Né Bazan né il Consiglio di Stato si posero però una domanda fondamentale: se Dio voleva punire la sua Chiesa per gli eccessi commessi a Palermo, come mai la sua sferza aveva colpito soprattutto il Val di Noto con distruzioni immense e migliaia di vittime ed aveva lasciato integre le parti centrale ed occidentale del Regno?

Una domanda che invece si erano posti Uzeda e i suoi collaboratori. E per frenare il timore popolare che l’ira di Dio assestasse nuovi colpi, occorreva ridurre «i terremoti… a puri fenomeni meccanici» (Corrado Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, Cedam, Padova 1979). Per questo, l’attenzione alla “causa meccanica” e cioè il Mongibello fu quasi immediata, come ci dimostrano i documenti di Simancas…
(Continua al prossimo appuntamento)

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La potenza del terremoto del 1693 (misurata con la scala Mercalli) che distrusse il Val di Noto