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di Pippo Inghilterra

Un luogo sacro di antiche linfe: la sorgiva al centro della piazza di Comiso. 

Da quando i Naselli, in pieno Rinascimento, acquistarono il feudo di Comiso, l’acqua della fonte fu concessa ad uso libero alla cittadinanza. 
Nella tradizione della città la forma della fontana della Piazza fu sempre rinnovata. In origine la fontana doveva essere una conca d’acqua che tracimava, riversandosi lungo un pendio naturale, per confluire nel solco largo e profondo del fiume Ippari, un tempo navigabile. 

Copertina di Comiso Viva, 1976, di Salvatore Fiume (a sx); Planimetria del territorio di Comiso al tempo dei Borboni, in: Mappa del catasto borbonico di Sicilia: territori comunali e centri urbani nell’archivio cartografico Mortillaro di Villarena: 1837-1853. A cura di Enrico Caruso e Alessandra Nobili. Editore Regione Siciliana, 2001

La fontana, rappresentante Diana cacciatrice, scese dal cozzo Apollo per assistere al bagno delle Ninfe nelle fresche acque della sorgiva della Piazza che da tempo prende il nome della Dea.
Nelle sue prime architetture comprendeva delle bocche d’acqua in pietra a forma di teste umane; successivamente col terremoto del 1693 “nel Fonte Diana crollava il prospetto, che più in là vedremo rifatto dal conte-principe Naselli.” 

Nella foto più vecchia della piazza di Comiso (1886 ca.) osserviamo la sorgente a cielo aperto, delimitata da otto pilastri in pietra e uno al centro senza vaso soprastante.
L’acqua sorgiva tracimava in una canaletta semicircolare che alimentava tredici bocche di bronzo, da dove la cittadinanza attingeva l’acqua. 

Foto del 1886 della piazza Fonte Diana di Comiso, particolare

Verso la fine dell’Ottocento alla fontana fu aggiunta una copertura, formando un palcoscenico rialzato rispetto al livello della platea.
Nella “città-teatro” si creava così un luogo di spettacolo in cui, il sabato sera, la filarmonica di suonatori intonava la Traviata di Verdi, la Norma di Bellini o la Cavalleria Rusticana di Mascagni.

Nel 1953 Biagio Mancini, pioniere dell’architettura moderna in questa provincia, realizzò una nuova fontana con una struttura leggera in calcestruzzo armato, spicchi di vetro che lasciano vedere il pullulare dell’acqua e un tocco di colore dato dalle piastrelle in ceramica di Biagio Frisa, mantenendo il palcoscenico rialzato, la visione della sorgiva e la tracimazione naturale dell’acqua

Foto della piazza Fonte Diana di Comiso, con la copertura della sorgiva, particolare

Alcuni anni fa fu nuovamente rifatta la fontana, con un’architettura che sostituì quella precedente e un risultato su cui sospenderei il giudizio in attesa della decantazione storica. Al momento si può però dire che: l’annullamento della tracimazione naturale dell’acqua, ha posto fine ad un ricordo millenario della Platea Fontis.

La statua di Diana non si bagna più nelle sacre ed antiche linfe della fontana.
È ritornata al cozzo Apollo, ricoperta da una coltre di foglie e dorme…dorme sulla collina.

Fonte Diana dopo l’intervento di Biagio Mancini (a sx); Fonte Diana oggi, a seguito dell’ultimo rifacimento

Ultimo articolo di “Architetti e architetture”: Viaggio intorno alla Torre di Canicarao

Foto banner: Vecchia cartolina. Piazza Fonte Diana di Comiso, fontana con copertura della sorgiva.

di Pippo Inghilterra

Era una mattina d’estate di tanti anni fa, quando “giocai” a perdermi. Con un compagno decidemmo d’incamminarci lungo la trazzera che portava alla Torre di Canicarao, per andare a trovare il padre, che lavorava lì vicino. 

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Trazzera che da Comiso conduce alla Torre di Canicarao (foto: Archivio storico comunale di Comiso, carpetta Ing. Vincenzo Lena)

All’inizio del viaggio incontrammo “i pupiddi ri scinnicaru“: due grosse sfere di pietra in cima a due pilastri “che segnarono e vietarono a lungo i confini del leggendario reame dei marchesi di Canicarao” (Bufalino). Si specchiano su quella realtà i libri della Sicilia barocca, che mi ricordavano la “Villa del Mostri”, dove Ferdinando Scianna esercitò, in quel teatro “d’opera dei pupi”, una singolare esperienza di fotografo.

Durante il cammino lungo la trazzera polverosa, delimitata da due muri a secco, che ogni tanto “cavalcavamo” per riposarci, osservavamo le dolci colline degli Iblei e la grande distesa di campagna, che si perdeva nella Valle dell’Ippari. Arrivati al Palazzo-Torre di Canicarao, ci siamo fermati sotto una quercia a osservare l’edificio cinto da misteriose mura: la facciata del palazzo aveva due torri laterali e una centrale, dove s’apriva un portale carraio. 

“I pupiddi” Ex ingresso del feudo di Canicarao (a sx); facciata del Palazzo di Canicarao, particolare. Torre originaria con ballatoio e stemma in ceramica (a dx) (foto: Archivio storico comunale di Comiso, carpetta Ing. Vincenzo Lena)

La prima cosa che lo sguardo incontrava era una testa di saraceno, scolpita nella chiave dell’arco, con sopra uno stemma a forma di uccello con le ali dispiegate che contenevano uno scudo araldico, dov’erano scolpite a basso rilievo una stella e una scimitarra. Sopra questo stemma, ce n’era un altro simile, ma più grande proveniente dalla torre originaria, sicuramente presidio di difesa della contrada.
Il passo carraio s’apriva in un vasto cortile, con al centro l’acqua di una fontana, alimentata dalla sorgiva che scaturiva dalla collina soprastante.

I marchesi di Canicarao, probabilmente nei secoli XVIII-XIX decisero di ampliare il Palazzo signorile e di abitarci. Il palazzo viene attribuito al grande architetto Rosario Gagliardi, che operò a Comiso negli anni trenta del Settecento, ma può darsi che sia opera di più architetti, capimastri e scultori e che la sua realizzazione sia stata differita nel tempo.

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Stemma con faccia saracena sopra l’arco del portale carraio del Palazzo di Canicarao (a sx); stemma in ceramica proveniente dalla torre originaria collocato, sopra il portale carraio, all’apice della torre centrale (a dx)

Alla fine del viaggio arrivammo al casolare in cui lavorava il padre del mio compagno. Poi, da solo, al ritorno, mi confusi e persi la direzione. Un massaro s’accorse di questo bambino “sperso” e mi accompagnò col carretto a Comiso; a metà strada ci venne incontro una balilla nera, che mia madre aveva affittato per cercarmi. A casa, davanti alla porta, i vicini di casa mi fecero festa.

Ancora oggi mi sveglio la mattina dopo aver sognato di perdermi in una grande città, forse Palermo o Firenze, che da giovane attraversai negli anni migliori della mia vita.

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Carretto del massaro davanti la porta carraia del Palazzo di Canicarao

Foto banner: Facciata del Palazzo del feudo di Canicarao (foto: Archivio storico comunale di Comiso, carpetta Ing. Vincenzo Lena)

di Pippo Inghilterra

Appena sceso nella stanza sotterranea del torrione, sentii un vento leggero sfiorarmi la faccia; vidi al centro della stanza, immerso in una luce diffusa, in cui l’aria si vedeva attraverso il pulviscolo d’oro illuminato dai raggi del sole che discendevano dalla feritoia della finestrella, la figura di un uomo che sembrava un umanista.

L’uomo era seduto su una poltroncina in legno, dalla spalliera semicircolare a doghe finemente scolpite e leggeva su un tavolo, parte di uno studiolo rialzato di legno. Immobile puntai lo sguardo sul volto di tale persona, mentre leggeva le pagine di un libro che teneva fra le mani. Era come se lo sguardo penetrasse oltre quel libro e si affacciasse sul tempo infinito della storia. L’uomo, visto di profilo, sembrava un principe illuminato. 

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Arch. Giuseppe Inghilterra, rilievo del Castello Medievale di Comiso, 1971. Particolari dei prospetti lati est e nord

Le pagine del libro, poggiato sul leggio inclinato del tavolo, riflettevano sul volto una luce. Capii che si trattava di un personaggio acculturato per la quantità di libri preziosi sistemati casualmente. Alcuni di essi con le pagine aperte, poiché appena consultati; altri disposti verticalmente nella scansia colma di libri e oggetti, con le pagine aperte, come se i fogli volessero prendere aria. La carta dei libri profumava di tempo.

Il personaggio era assorto nella lettura e, dal modo in cui guardava le pagine, percepivo nell’aria una specie di scambio di parole tra le pagine del libro e la mente del signore, che mi fece ricordare di quando, da studente, agli Uffizi la domenica mattina, percepii la stessa sensazione tra l’Angelo e Maria, nell’Annunciazione di Simone Martini.

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Simone Martini, Annunciazione, 1333

Le pagine dei libri dello studiolo sventolavano nell’aria, colma di ricordi, e poi si spandevano in tutta la città volando in un paesaggio, dove uomini e cose, il cielo e il volo di alcune rondini, s’intravedevano dalla feritoia alta fissando quell’ora del giorno in una intima e geometrica eternità. Continuò ancora un po’ ad essere assorto nella lettura quando avvertì la mia presenza.

Stentai a riconoscerlo, ma dagli abiti che indossava e dal portamento, capii che si trattava del barone Periconio Naselli, uno dei personaggi di maggior rilievo della Comiso di tutti i tempi. 

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Ritratti maschili di Antonello da Messina, coevi a Periconio Naselli

L’ultimo articolo di Architetti e Architetture: I tre campanili della matrice di Comiso

Il banner è composto da una cartolina d’epoca del torrione del castello di Comiso e da un particolare della Pala d’Altare della Chiesa del “Signiruzzu truvatu” (si vede dietro la porta di S. Biagio il castello medioevale), Comiso, Anonimo, 1822.

Il colloquio nel tempo

di Pippo Inghilterra

Li ho contati, uno, due e tre, tanti sono i campanili della Chiesa Madre di Comiso.
C’è quasi nascosto l’antico “campanaro” ridotto a dei piloni di pietra squadrata lavata dal tempo; poi c’è il campanile dell’orologio a prisma a base rettangolare che sta tra l’antico campanile e il transetto della Chiesa e, per ultimo, svetta nel cielo il campanile della facciata, realizzato negli anni ’30 del Novecento.

i tre campanili della matrice di comiso
La facciata della chiesa di Santa Maria delle Stelle, Comiso

La chiesa Madre di Comiso non è nata in un periodo storico ben definito, la sua realizzazione non è opera di un solo architetto o capomastro: È un’opera la cui realizzazione fu differita nel tempo.

La crescita di un edificio diviene essenziale per la sua comprensione.
Il monumento architettonico difficilmente si presenta come un corpo unitario. Occorre osservarlo come una persona, nel suo processo vitale, dalla sua concezione al suo farsi realtà.

Il risultato finale della Chiesa Madre di Comiso, post-terremoto, tralasciando l’impianto medievale e quello su tempio pagano, è il riflesso dell’idea gagliardiana nel percorso di una lenta crescita, che prende forma e vita col contributo di diversi progettisti, scultori e capimastri.

i tre campanili della matrice di comiso
Alcuni schizzi dell’architetto Rosario Gagliardi (1698-1762), che guidò il progetto e la costruzione di molte chiese iblee, tra le quali San Giorgio di Ibla

Occorrerebbe scrivere un libro per ogni opera, approfondendo e documentando la storia della concezione progettuale dai primi schizzi, agli interventi successivi, passando per le numerose varianti e ripensamenti.

Osservando il primo campanile i segni percepiti ci rimandano all’impianto medioevale della Chiesa (vedi all’interno robuste colonne polilobate che sorreggono gli archi acuti della navata).

Il secondo campanile dell’orologio è stato, probabilmente, realizzato durante l’ampliamento post-terremoto del presbiterio della Chiesa.

i tre campanili della matrice di comiso
I tre campanili della matrice di Comiso: spicca quello medievale, del quale si indovinano i resti

Del terzo campanile si parla con “studio puntuale e rigoroso” (Nifosi) nel volume che prende il titolo di “SANTORO SECOLO INGEGNERE ARCHITETTO DEL NOVECENTO, Viaggio nell’archivio e dintorni“.

Il colloquio nel tempo dell’architetto viaggiatore o del cittadino osservatore con l’opera d’arte, nelle varie fasi progettuali, costituisce l’aspetto più interessante della dinamica tra il pensare e il fare architettura.

di Sebastiano D’Angelo

C’è stata anche una Miss Mondo nella lunga storia del Premio Ragusani nel Mondo.
Il 28 luglio del 2008 venne premiata una bella e solare ragazza paraguaiana di origine comisana: Fiorella Migliore, che il 24 giugno dello stesso anno aveva conquistato lo scettro di Miss Italia nel Mondo, concorso riservato alle miss di origine italiane residenti all’estero. Di origine comisana, Fiorella è una splendida ragazza, dal carattere dolce e accattivante, dall’animo sensibile e affettuoso, dai lineamenti che coniugavano tratti di bellezza sudamericana e mediterranea. 

Fiorella Migliore

Il nonno Giuseppe è stato un affermato medico ad Asunción, con prestigiosi incarichi anche nella comunità italiana. Mentre la nonna Sara era una donna dal carattere forte e rivoluzionario, con forti accenti trasgressivi per l’epoca in cui visse, ma molto legata alle tradizioni della città di origine, che seppe trasmettere ai figli ed alla nipote Fiorella.

Dall’unione dei nonni, conosciutisi ad Asunción, ma provenienti entrambi da famiglie amiche di Comiso, nacquero tre figli: uno dei quali, Hugo, è il papà di Fiorella. Oggi un affermato imprenditore nel ramo del commercio ed installazione di impianti di pubblica sicurezza. La mamma, Lourdes, è invece una conosciuta attrice di teatro e televisione a livello nazionale, oltre che celebrata ballerina.

Insieme alla madre Lourdes Llena

Fiorella, secondogenita, nata ad Asunción il 27 gennaio 1989, sin da bambina ha seguito le orme della madre, avviandosi allo studio delle recitazione, del teatro e della musica. Ha frequentato diverse scuole di teatro, trovando spazio già da piccola in alcuni noti cortometraggi a livello nazionale. Dopo la laurea, conseguita con ottimo profitto, ha alternato la carriera di esperta di marketing con quella di indossatrice, offrendo il proprio volto per la pubblicità di prestigiosi prodotti cosmetici. Si è distinta in breve tempo come una delle top-model più ricercate del Paraguay, vincendo anche numerosi concorsi di bellezza.

Il successo però non ha mai stravolto il suo carattere di ragazza spontanea ed affettuosa, vivace ed intelligente, che non lesina di dedicare il suo tempo libero al volontariato e all’assistenza ai malati terminali.
Ad inizio del 2008, dopo aver vinto la selezione del Paraguay, nella fase finale di Jesolo ha conquistato il titolo di Miss Italia nel Mondo e il cuore stesso degli italiani con la sua grazia e simpatia. Rendendo felici ed orgogliosi non soltanto la sua famiglia ma anche tanti ammiratori della Provincia di origine e la città stessa di Comiso.

2008. Il giorno della vittoria al Concorso di Miss Italia nel Mondo a Jesolo

Il Premio, è noto, porta sempre bene. E così anche per la bella Fiorella, è salita alla ribalta del cinema e della Tv italiana e del suo paese.
Tra il 2010 e il 2012 ha interpretato Lia nella miniserie televisiva “Sotto il cielo di Roma”. È stata coinvolta in una puntata di Don Matteo ed in numerose altre fiction. Ha anche intrepretato ruoli di primo piano nei film paraguaiani “Universo servilleta” e “Libertad e 7 Cajas”. Nel 2012 ha partecipato al concorso nazionale di Miss Paraguay, classificandosi al secondo posto e accedendo direttamente alla finale del concorso internazionale di Miss Mondo 2012.

28 luglio 2008. Sul palco del Premio Ragusani nel Mondo

Nello stesso anno ha anche presentato con Phil Keoghan la terza puntata della ventesima edizione di The Amazing Race, mentre in seguito è stata conduttrice televisiva per l’emittente paraguaiana Canal 13, dove ha condotto “Varano Extremo” e “Click Tv”. È stata testimonial a livello nazionale di aziende quali Kelémata, Gillette, Dove e Claro.

Nel 2013, poi, ritorna sulla scena del Premio Ragusani nel Mondo come conduttrice, a fianco di Salvo Falcone. Oggi conduce una intensa vita professionale come testimonial di grandi eventi della moda e dello spettacolo ad Asunción, dove nel frattempo è diventata mamma di due splendidi bambini.

2013. Insieme al Direttore del Premio, Sebastiano D’Angelo, nella qualità di presentatrice del Premio stesso

di Luigi Lombardo

La vicenda del Dio che muore e rinasce è un motivo ricorrente in particolare nelle mitologie dei popoli del bacino del mediterraneo appartenenti all’area del vicino oriente, uno dei mitologemi fondamentali della storia di questi popoli. Ad un dato momento della storia di questi popoli mediorientali questo mitologema si innestò o sostituì miti e riti della rigenerazione della natura, legati al ciclo stagionale, che nella primavera ponevano la rinascita della natura. La vita naturale che rinasce assume le sembianze di un dio, dalle fattezze giovanili, che morendo e rinascendo annualmente fa rinascere la stessa natura e al contempo propizia la renovatio umana, nei termini più spiritualizzati.

La sfilata di due confraternite e il compianto Padre Barbera a Chiaramonte (Ph Vincenzo Cupperi)

In area medio orientale dunque si fondono due culture, che riescono a conciliare i riti del ciclo vegetale con l’archetipo del Deus patiens che muore e rinasce. Da questo evoluto sincretismo religioso il Cristianesimo farà nascere un rinnovato quadro mitico religioso, che tuttavia a più riprese mostra le sue origini soprattutto nella concezione del tempo.

Processione dell’Addolorata e del Cristo morto ad Enna (Ph Vincenzo Cupperi)

Le religioni naturali hanno una visione ciclica, conforme all’andamento circolare dell’anno (anno da anulus, anello). Le religioni soteriologiche orientali innestano su questo fondo la visione nuova di un tempo rettilineo (inizio-creazione / fine-resurrezione-salvezza finale). L’una e l’altra di queste visioni mai ebbero la meglio. Le due religioni, la naturale e la personale, trovarono nel cristianesimo un tentativo di sintesi. Così nel tempo ciclico dell’eterno ritorno fu innestata la vicenda esemplare, unica, irripetibile della morte e passione del figlio di Dio.

La ripetizione rituale di tale morte assunse semmai l’aspetto di una “commemorazione”, un termine che cercava di spiegare la persistenza di una “cultura del tempo”, anche in ambito cristiano, assai difforme da quella ufficiale, presente in particolare negli ambienti agro-pastorali, intrisi ancora di cultura e religiosità pagana.

Processione dell’Addolorata a Licodia Eubea

La triste vicenda del figlio di Dio, del Cristo, sotèr, ha sorprendenti e non casuali riscontri nelle vicende “drammatiche” di alcune popolarissime divinità orientali, i cui culti con estrema facilità si diffusero nell’occidente romano: Attis e la madre Cibele, Adone e Astarte. Ma già presso la religione greca si fece strada potente la figura di Dioniso, le cui pietose vicende diedero vita ad una delle religioni misteriche più diffuse nell’occidente greco-romano: anche Dioniso muore (fatto a pezzi) e rinasce, riaccendendo nei seguaci la speranza di una seconda vita. I primi cristiani identificarono nel Bacco romano il loro Cristo.

La Resurrezione (Peter Paul Rubens, 1616 circa)

In questo contesto culturale, fra monoteismo giudaico, messianismo, attese soteriologiche e culti misterici di varia provenienza, nasce la festa di Pasqua cristiana, in un particolare e straordinario clima sincretistico, che contrassegna un periodo storico che va dal I al III secolo dopo Cristo. Sant’Agostino per primo diede una sistemazione liturgica e teologica alla Pasqua: egli fissò il concetto di “passaggio” di Cristo, il quale attraverso la passione giunge alla morte e al suo superamento con la resurrezione.

Questo itinerarium vitae è garantito a tutti coloro che crederanno in Lui. Fu Agostino che codificò definitivamente i termini del sacro triduum: «sacratissimum triduum crucifixi, sepulti, resuscitati» (il triduo del crocifisso, del sepolto e del risuscitato). Questa scansione liturgica si è conservata nei riti cattolici e nelle varianti folkloriche moderne.

Processione del Cristo flagellato a Ispica

La liturgia cattolica ha subìto nel corso dei secoli modifiche e adattamenti, fino all’ultima e definitiva sistemazione, che prevede il giovedì i riti dell’istituzione dell’eucaristia in coena domini e la lavanda dei piedi, il venerdì la commemorazione della morte di Cristo, il sabato notte la resurrezione con i riti connessi (benedizione del fuoco e battesimo soprattutto). La domenica continua la gioia della resurrezione. Questo percorso ufficiale ha costituito la base in cui la cultura folklorica ha innestato le proprie cerimonie, molte volte in sintonia con l’ufficialità, tante volte dissonante o comunque non conforme.

Comiso. la “sciuta” (uscita) dalla chiesa di Gesù Risorto. La bambina è vestita da angelo con abiti fedelmente riprodotti secondo la tradizione catalana del ‘600

I riti popolari derivano da quel particolare momento storico che fu l’età barocca, che accentuò gli aspetti teatrali e processionali (già presenti nei riti delle origini) della Pasqua, la presenza e il ruolo delle confraternite organizzate, l’affermarsi di una presenza popolare che caratterizzò diversamente molte cerimonie pasquali.

Monterosso Almo. La domenica di Pasqua

Sembra possibile poter ricostruire idealmente un unico cliché liturgico, presente a vario modo e nelle diverse articolazioni in tutti i centri siciliani dove si celebra ancora la Pasqua “popolare”. Salvo poi a constatare che questo complesso unitario di liturgia e riti, che facilmente si intravede, si frastaglia in ogni centro, in ogni città, in ogni paese in una miriade di varianti locali del rito, che sono la sostanza poi della Pasqua popolare.

A due anni dallo scoppio della pandemia come saranno i “nuovi” riti pasquali? difficile dirlo. In genere dopo grandi eventi catastrofici i riti e la pietas popolari si rafforzano, si ripropongono ancora più sentiti. Staremo a vedere.

Festa dell’”Uomo vivo” (“U Gioia”) a Scicli

di Sebastiano D’Angelo

Interprete di una ordinaria pagina di talento ibleo realizzato fuori dei confini nazionali, John Sudano è stato insignito del Premio Ragusani nel Mondo nell’agosto del 2015.

John Sudano, fisico e matematico, nato a Comiso nel 1946

Nato a Comiso nel 1946 da Salvatore Sudano e Giuseppa Ruggiero, ad appena 8 anni con la famiglia emigra negli Usa. Nel 1969 si laurea all’Università di Fisica Farleight-Dickinson di Teaneck nel New Jersey, conseguendo anche un Master in Scienze e Fisica all’Università di Stato del Michigan, nel 1972, e un Dottorato di Filosofia della Fisica all’Università di New York, nel 1978, in parte svolto presso l’Università di Parigi Sud (Orsay).

Salvatore Sudano e Giuseppa Ruggiero con il piccolo John

Oggi è riconosciuto a livello internazionale come esperto nei settori del Tracking (localizzazione), fusione dei dati, identificazione di combattimento, algoritmi matematici e metodologia C41.

Ha elaborato nuove tecniche matematiche come “l’Algoritmo di fusione”, chiamato appunto “Sudano”, un super campionario del metodo di fusione Dempster-Schafer ed inventato “sette probabilità di fusione dei dati” dette “Pignistic”; inoltre detiene diversi brevetti.

John e la figlia Jennifer Insieme al Sindaco di Comiso Spataro (foto da ragusaoggi.it)

Ha lavorato a stretto contatto con svariate Università americane per assicurare una sinergia tra ricerca accademica e applicazioni pratiche. Ha collaborato anche per la Singer Company di Elizabeth (NJ), dove ha sviluppato il suo primo brevetto per meccanismi di alimentazione elettronicamente controllati.

Nel sistema “AM Printer”, Sudano ha creato un assemblaggio magnetico che orienta trasversalmente gli allineamenti magnetici dei cristalli in un nastro di qualsiasi larghezza, con una tecnica applicativa di toner che incrementa l’efficienza d’uso degli stessi per circa il 370%. Due le invenzioni in tal senso brevettate.

Alle prese con i suoi hobby

In servizio presso la Lockheed Martin dal 1989, Sudano ha sperimentato e sviluppato tecniche matematiche che sono state utilizzate come utile supporto dal Ministero della Difesa USA e da altri Comparti Militari. Dopo il ritiro dalla stessa compagnia, ha continuato a collaborare con diverse compagnie aerospaziali e ha ricevuto due “Excellence Awards” dalla Marina militare americana per i suoi contributi nelle tecniche matematiche e nella ricerca applicata per le politiche della difesa nazionale.

Con Norman Augustine (a destra), CEO della Lockheed Martin

Ha pubblicato anche numerosi saggi di tecnica applicata e scritto numerosi “white papers” per la Lockheed Martin. Segretario presso la “Conferenza Internazionale per la Fusione”, é stato anche eletto nel Consiglio Direttivo di codesta Istituzione.

I suoi Algoritmi e le sue tecniche sono servite alla intercettazione e distruzione di un satellite disperso di recente. Attualmente è presidente della “Reliant Scientific LLC”, che si occupa della soluzione di problemi tecnici con severi requisiti. 
Dal 1984 è sposato con Ada Orofino , da cui ha avuto tre figli, Jennifer, Salvatore e Joy.

John (a centro) durante un simposio internazionale

La rubrica “Architetti e architetture”, del nostro Pippo Inghilterra, è arrivata al suo ultimo appuntamento tra le bellezze e le curiosità della città di Comiso. Riprenderemo presto un altro “viaggio” alla riscoperta di altre magnificenze e singolarità del nostro territorio.

di Pippo Inghilterra

Fu una grande festa quando, dalle cave di Comiso, trasportarono “per le vie del paese, fra due ali di popolo, come un santo sulla vara” i massi di pietra per scolpirvi la statua di Diana.

Il Cav. Domenico Umberto Diano, che subentrò nel 1928 a Giacomo Cusumano (primo direttore della Real Scuola d’Arte di Comiso, architetto allievo di Ernesto Basile), fu lo scultore che progettò e modellò la statua di Diana cacciatrice, posta ancor oggi sulla fontana della piazza principale.

La statua fu il frutto della collaborazione tra i “mastri” d’arte e allievi della Scuola d’Arte. La sua storia viene raccontata dai ricordi di alcuni e dai documenti depositati negli archivi. Il prof. Giuseppe Barone (un omino silenzioso, sempre col cappotto, che attraversava solitario la piazza) mi parlava di un modello in creta di Diana che aiutò a plasmare, quand’era ancora ragazzo.

Narciso, un ex scalpellino, mi fece i nomi di altri due compagni che sbozzarono i tre massi di pietra di cui era composta la statua. Mi raccontava che l’opera era stata modellata in una “carretteria” vicino al Castello medievale di Comiso e che la modella era una bella ragazza di Caltagirone, “discinta nei costumi”…

La statua venne collocata sopra la fontana a metà degli anni trenta del Novecento quando, forse, si aspettava in città la visita del Re. La poetessa Adalgisa Li Calzi (figlia di “Don Laurienzu”, proprietario di cava), quando l’andai a trovare, mi raccontò che ancora bambina suo padre la portò in Piazza Fonte Diana per assistere (seduta sulle impalcature del costruendo Palazzo del Banco di Sicilia) al passaggio dell’illustre ospite. Si ricordava benissimo che la statua di Diana c’era già e faceva bella vista in mezzo alla gente che gremiva la piazza.

Foto banner e social di Clemensfranz da Wikipedia

La poetessa Adalgisa Li Calzi

di Pippo Inghilterra

I palazzi della piazze, come facce della memoria, sembrano raccontare tante storie. Storie di angherie, di clausura, di sofferenza, di povertà, di libertà, di speculazione e perfino di opera dei pupi. Tra i tanti racconti del passato, tre storie ci parlano del Palazzo Iacono-Ciarcià in Piazza Fonte Diana a Comiso.

Palazzo Iacono-Ciarcià a Comiso (XVIII sec.)

Il Palazzo Iacono-Ciarcià con la sua struttura particolare d’angolo e la loggetta (“l’archi ri Ronna Pippa”, dal nome della gentildonna Filippa Ciarcià), rimane uno dei meravigliosi fondali della scena teatrale della “platea fontis”. La loggetta, compenetrazione tra spazio esterno e spazio interno (la piazza entra nel palazzo attraverso la mediazione del portico), è ancora oggi uno dei monumenti architettonici più interessanti dello spazio barocco della piazza. Più d’uno studioso e appassionato d’arte lo ha attribuito all’architetto Rosario Gagliardi, ma senza il conforto di una prova.

La loggetta de palazzo, chiamata dai comisani “l’archi ri Ronna Pippa”

Il primo fatto di cronaca, che conosciamo, risale alla costruzione del palazzo (1756-57), quando la Badessa del limitrofo Monastero delle Teresiane Scalze si oppose all’apertura di una finestra del palazzo. Probabilmente era un conflitto causato dall’inopportunità della finestra che permetteva di guardare dentro il luogo sacro del convento di clausura. In particolare dove le monache avevano un ampio orto.

Capitello del portico del Palazzo Iacono con lo sfondo della cupola della Matrice

Il secondo fatto, riguarda l’abuso del portico. Tutto iniziò con una denuncia “del primo febbraro 1884” per abuso edilizio ed occupazione di suolo pubblico. Ci furono sopralluoghi da parte dall’ingegnere comunale Giovanni Galeoto e controperizie di parte dell’architetto Eugenio Andruzzi di Vittoria. Una parte affermava che il portico è “una enorme difformità”, l´altra che il portico “forma il più bello e magnifico ornato della Piazza Pubblica”.

Il proprietario del palazzo, Don Carmelo Ciarcià, fece ricorso al Sottoprefetto del Circondario di Modica. E tutto finì, quando il Prefetto di Siracusa, il 29 luglio 1885, decretò di accogliere il ricorso del Barone Carmelo Ciarcià, ponendo fine alla controversia dal forte sapore politico.
L’altra sera, passando vicino al palazzo, mi è parso di cogliere sulla facciata un sottile sorriso ironico, quasi beffardo, come quello “dell’ignoto marinaio” del quadro di Antonello da Messina.

“Ritratto d’ignoto marinaio”. Antonello da Messina (XV sec.)

Infine l’ultimo fatto riguarda una scena teatrale dove il protagonista è “Lici u filoci”. Era un uomo “irsuto, immane, con aria da Polifemo o da Orlando il furioso” e abitava in un dammuso di Palazzo Iacono-Ciarcià. Una volta “d’inverno, per scaldarsi, bruciava frasche e giornali, senza badare al fumo, al fuoco, che lambiva mobili e sovraporte”. A Ronna Pippa “che lo redarguì dalla finestra, si racconta che abbia risposto correndo alla fontana a mimare, col bastone infilato a più riprese dentro una delle bocche di bronzo, una irriferibile, mai più sentita, minaccia” (G. Bufalino).

Particolare di un ritratto di Donna Pippa Ciarcià (1853-1916). (Collezione privata)

Tutte queste storie erano il contrapiglio antico, che si perde nella notte dei tempi, tra fazioni e campanili di due classi sociali: una liberale e progressista e l’altra reazionaria e conservatrice. Incarnate a quei tempi dal mazzacronico dott. Nunzio Comitini e dal cronico Barone Raffaele Ciarcià e che ora, in forma più sfumata, ogni tanto, ricompaiono.

di Roberto Lo Guzzo

All’indomani della funesta ondata di maltempo che ha colpito il sud est siciliano, e in particolare il territorio di Modica, dove si annovera anche una vittima, ci si chiede se questi fenomeni temporaleschi estremi siano del tutto inediti in queste contrade, o soltanto poco frequenti, e di conseguenza poco noti alla maggioranza della popolazione.

Tra il 16 e il 17 novembre la Sicilia è stata flagellata da 14 di questi fenomeni, 9 dei quali veri e propri tornado. Secondo la scala EF (Enhanced Fujita), che ne stima l’intensità da 0 a 5 in base ai danni provocati, quello di Modica potrebbe essere classificato come un tornado EF2, con danni significativi e venti fino a 220 km/h. Personalmente non ricordo eventi simili, o almeno non così funesti.

Tromba d’aria nel modicano il 17 novembre 2021 (foto da meteoweb.eu)

Da una prima disamina però emerge che il tornado del 17 novembre scorso sarebbe soltanto l’ultimo episodio, e si conceda pure tra i più drammatici, di una serie lunghissima, talora neanche registrata perché queste raffiche spiraliformi, allorché si manifestano in contesti scarsamente antropizzati, non destano scalpore.

Frequentissime sono le trombe marine, quelle cioè che si originano al largo delle nostre coste e che esauriscono la loro carica una volta che impattano con la terraferma (landfall): Sampieri, Cava d’Aliga, Santa Croce Camerina, Scoglitti, sono da sempre le aree più funestate. Quella che si abbattè su Santa Croce il 31 ottobre 1964 fu definita ‘catastrofica’ dallo storico Giuseppe Micciché.

Trombe d’aria marine (foto da Twitter e ecodegliblei.it)

Fu invece una tromba d’aria a investire l’altopiano il 19 ottobre 1961. Il bilancio in questo caso fu pesantissimo: oltre a danni ingenti all’agricoltura, furono registrate 7 vittime, 4 a Giarratana e 3 a Ragusa. Quello che si abbattè sulle campagne di Scicli il 12 novembre 2004 fu poi un vero e proprio tornado multi-vortice. Questa tipologia di tornado è associata a vortici mesociclonici di livello superiore a EF3, con danni gravi e venti fino a 270 km/h. L’uragano danneggiò in effetti strutture in cemento armato, muri di cinta, oltre a trasportare a distanza alcune vetture, una roulotte ad esempio fu ritrovata a circa 1 km dalla piazzola di sosta.

Danni causati in provincia di Ragusa il 17 novembre (foto da meteoweb.eu)

Limitatamente all’area di Modica, si ricorda la tromba d’aria che il 25 novembre 2015 si abbattè sulle campagne a nord del centro abitato, danneggiando in modo particolare un’azienda agricola e la casa dei rispettivi proprietari, da cui volarono via le tegole. Lungo il litorale modicano fu distrutto invece il circolo velico che insisteva nei pressi del moletto.

Nel gennaio dello stesso anno una tromba d’aria era stata segnalata in C.da Caitina, mentre su tutta la città soffiavano venti fortissimi, facendo volare via sedie e ombrelloni pertinenti alle attività commerciali del centro storico, e distruggendo finanche il muro di cinta dello stadio Vincenzo Barone.

Il muro di cinta dello stadio Vincenzo Barone di Modica danneggiato da una tromba d’aria nel 2015 (foto meteoweb.eu)

Nel Piano Comunale di Protezione Civile si fa riferimento esclusivamente alla tromba d’aria che seguì l’eccezionale grandinata del 15 settembre 2002. Non esisterebbero dunque altri precedenti nel territorio di Modica. Ma è più probabile che faccia difetto la memoria. Del resto la cultura popolare ha tramandato aneddoti, litanìe, termini quali “cura ri draunàra” (coda del drago); “fra Cola” (frate Nicola); fuddittu (folletto), che altro non sono che personificazioni di fenomeni naturali ritenuti un tempo opera del Demonio, e in quanto tali da esorcizzare. Va da sé poi che questi termini o anemonimi alludano a dei fatti storici.

Modica e la sua Cattedrale di San Giorgio (foto da Wikipedia, Ludvig14)

Nella Grammatica di Giovanni Ragusa alla voce “cura ri draunàra” leggiamo: “nube nera foriera di tempesta”. Ivi si rimanda inoltre alla voce sinonimica “fra Cola”, ovvero “nuvola nera apportatrice di burrasca”. Il Guastella (nel Vestru) intendeva quest’ultima come “una nuvola a foggia di frate col cappuccio, segno infallibile di pioggia impetuosa”. La credenza popolare, raccolta dallo stesso, narra di un eremita che viveva sulla collina della Giacanta, il quale per avere rifiutato di dissetare una giovane, che da lì a breve sarebbe morta, fu condannato ad errare tra le nuvole.

Giovanni Ragusa (1911-1998) e il suo Vocabolario italiano-siciliano ibleo (foto da ragusaonline.com  e kromatoedizioni.it)

Più preciso Paolo Revelli, secondo cui la cosiddetta “cura ri draunara” sarebbe una “nuvola nera di forma allungata apportatrice di pioggia temporalesca”, laddove con il termine “fra Cola” ci si riferirebbe ad una “nuvola fosca involuta”. Il cosiddetto “fuddittu” è descritto invece come un “forte colpo di vento che lacera le nubi”, qualcosa di simile a quello che in gergo viene chiamato “dust devil” o “turbine di sabbia”. Nella cultura popolare il fuddittu è una figura demoniaca, e solo in senso lato sta per “vento vorticoso”, ma ne parleremo meglio nel secondo articolo la prossima settimana.

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