di Vito Castagna
(Canti XXXII – XXXIII)
«Ti converrà dirmi il tuo nome se non vuoi che ti strappi i capelli!». Afferrai un dannato per la chioma guardando con rabbia il suo corpo attanagliato dal ghiaccio del Lago Cocito. «Potrai pure togliermi tutti i capelli e potrai colpirmi mille volte ma non ti dirò chi sono! Le tue promesse di fama qui non hanno valore».
Iniziai a strappargli delle ciocche e quello urlò di dolore, più latrava e più provavo un inconsapevole piacere che mi spingeva a continuare. Fortunatamente, un altro peccatore si volse verso la vittima e attirò la mia attenzione, frenando la mia collera: «Che succede Bocca? Perché fai così tanto rumore, qualche diavolo ti tormenta?». A quelle parole lasciai i capelli che tenevo stretti tra le mani; la repulsione aveva preso ormai il posto della rabbia: «Non voglio sapere più nulla di te, traditore, ma ti infamerò con queste mie mani».
Dopo il fuoco dell’ira, il freddo attanagliò nuovamente il mio corpo. Cercai di non colpire altre teste coi miei piedi, così come avevo fatto con Bocca degli Abati. I corpi dei traditori erano incastonati in un ghiaccio così lucido da sembrare vetro, il gelo era talmente pungente da tramutare in pochi istanti le lacrime in scaglie ghiacciate. Gli occhi dei dannati erano ricoperti di squame bluastre.
Ci allontanammo. Dopo pochi passi, vidi due dannati con i corpi avvinghiati fra loro e, così come si addenta il pane, il primo addentava la nuca dell’altro. Mi chinai su di loro e mi rivolsi all’iracondo: «Perché fai questo? Se tu hai ragione nel farlo, io parlerò di te nel mondo dei vivi. Sempre che la lingua non mi caschi prima dal freddo».
Questi lasciò la presa, poi si pulì le labbra coi capelli di chi aveva ferito: «Tu vuoi che rinnovi il dolore che mi attanaglia il cuore. Ma se quanto ti dirò coprirà di infamia questi che addento, allora te lo racconterò senza poter frenare le lacrime. Io sono il conte Ugolino e questo traditore al mio fianco è l’Arcivescovo di Pisa, Ruggieri. Non è mistero che venni catturato e fatto uccidere per sua volontà, mentre mi fidavo di lui; ti racconterò invece della terribile morte che mi riservò, in modo che tu possa giudicare la sua condotta.
Ero già imprigionato da molto tempo nella torre della Muda, quando feci un incubo che fu rivelatore del mio destino: Ruggieri guidava una battuta di caccia al lupo e ai suoi cuccioli. Davanti vi erano delle cagne magre, con i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi ma, quando la bestia e i suoi cuccioli mi sembrarono stanchi, le cagne li addentarono ai fianchi. Mi svegliai di soprassalto, col respiro affannato. Poi, col bagliore della luna, riuscii a scorgere i visi rigati di pianto dei miei figli, che nel sonno supplicavano il pane.
Si erano già svegliati quando udii il battere del martello sulla porta della torre, mentre gli aguzzini ci muravano vivi. Decisi di non dire nulla ma la fame cominciava a divorarci i visceri. Il mio sguardo si perse nel vuoto e il mio Anselmuccio mi chiese che cosa avessi, ma non risposi e non piansi per tutto il giorno, fino all’alba seguente.
Quando un raggio passò dalla feritoia e illuminò la buia cella, scorsi nei loro visi scarni la mia condizione e dalla disperazione cominciai a mordermi le mani per non urlare. I miei figli, vedendomi in quello stato, pensarono che avessi fame e mi dissero: “Padre, mangiaci. Sarà meno doloroso di vederti così; tu ci vestisti di queste carni, ora spogliaci”.
Cercai di rasserenarli mostrandomi più quieto. Nei due giorni seguenti, tra i sospiri e il sordo rumore dei crampi, pregai più volte che di colpo la terra ci inghiottisse. Al quarto giorno Gabbo si gettò ai miei piedi, aveva le orbite infossate nel cranio, e mi disse con un flebile respiro: “Padre, perché non mi aiuti?”.
Morì poco dopo e allo stesso modo vidi spirare gli altri miei tre figli, uno ad uno, tra il quinto e il sesto giorno. Brancolai con lo sguardo spento sopra i loro corpi, li chiamai e li scossi per due giorni ma nessuno rispose. Fu allora che il dolore venne sopraffatto dalla fame».
Con le lacrime ormai divenute punte di ghiaccio sui suoi occhi, addentò con maggiore violenza l’Arcivescovo e così, col sangue tra i denti, si zittì.