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Contea di Modica

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di Stefano Vaccaro

La contea di Modica comprende dodici comuni, che però nella contea propriamente detta, quella dei Cabrera e della corona spagnola, ebbero vicissitudini di aggregazione e disgregazione, di espropriazione e di restituzione, di pegnorazione e di vendita, per cui forse non c’è stato mai un tempo in cui si trovassero effettualmente riuniti. Più tardi, al tramonto della feudalità, trovarono riunione nell’amministrazione circondariale. Il circondario di Modica: e Modica ne era anche il centro geografico. I comuni sono quelli di Biscari, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Giarratana, Ispica (fino al 1935 Spaccaforno), Monterosso Almo, Pozzallo, Ragusa, Santa Croce Camerina, Scicli, Vittoria. Gli elementi che li unificano, sicché ancora oggi si può parlare di una contea o circondario di Modica in accezione di diversità rispetto al resto della Sicilia, sono il dialetto, le colture agricole, l’architettura rurale e urbana, lo spirito associazionistico.

La Contea di Modica (l’enclave in giallo nel sud dell’Isola) nella Val di Noto

Ciascuno dei dodici comuni ha per caratteristica esuberanti centri storici e magnifiche cattedrali in gran parte frutto di una sistemazione urbanistica ed una rinascita architettonica occorsa all’indomani del terribile sisma che l’11 gennaio 1693 distrusse per intero il Val di Noto.

Arroccati su un monte, adagiati in fondo alla valle o con l’affaccio verso l’Africa, nei paesi iblei non si ha il tempo di distogliere lo sguardo dalle energiche capriole barocche di chiese e palazzi, un trionfo di pietra e di luce, che subito si rimane abbagliati dalla visione di impressionanti scorci di natura.

Sulla campagna ragusana, adornata da rurali tramezzi in pietra – i muri a secco – che cingono sentieri e strade, Sciascia insiste descrivendo l’organizzazione di autosussistenza di certi tipi di masserie qualificanti l’antica Contea, – oggi diventati agriturismi – gli allevamenti e le attività produttive, tratteggiando un mondo campestre lontano dai ritmi cittadini, dove a scandire il tempo erano l’alternarsi delle stagioni, le fioriture dei germogli, i tempi del raccolto e i rintocchi di isolate chiese di contrada, un mondo lontano intriso di forese ritualità.

Scorcio di campagna ragusana (2009), foto: Giorgio Leggio

In quanto all’architettura rurale, in cui si possono includere (e siamo nel paesaggio) quei muretti a secco che fanno suggestiva geometria – e crediamo si debbano più a una necessaria operazione di spetramento che a una gelosa segnalazione di confine della proprietà: e dovrebbero essere tutelati come parte integrante e caratteristica del paesaggio – e le case di villeggiatura che tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro, con grande e vano dispendio, e specialmente nella campagna modicana, hanno incorporato le antiche masserie o le hanno sostituite, è da osservare che ubbidivano a un criterio di autosufficienza, di autarchia. A differenza della masseria di feudo nella Sicilia occidentale, la masseria della contea bastava a se stessa. […] Nelle masserie si allevavano cavalli, maiali, bovini, ovini, qualche capra, molto pollame.; c’erano i mulini ad acqua; si facevano i formaggi (famoso e inimitabile il caciocavallo; si filavano e tessevano lana, canapa e cotone; si lavorava, anche esornativamente, il legno: pali, collari per gli animali, ciotole, mestoli, cucchiai; si conservavano in insaccati e gelatine le carni del maiale; e miele e cera non mancavano, da alveari costruiti e stazionari come da alveari naturali ed errabondi […]: il celebrato miele ibleo, da cui in qualche parte della contea ancora si distilla un vino.” 

Tipica masseria siciliana

Dolci alla ricotta, al cioccolato, al pistacchio, con cannella, mandorle o scorze d’arancia, per chi giunge negli Iblei a godere non è solo la vista, già meravigliata nell’osservare le complesse evoluzioni di statue indorate dal sole e puntute torri campanarie, vivaci manifestazioni di un’inclinazione per il capriccio e l’esagerazione che è voglia di vivere dopo la morte; o l’olfatto, inebriato dalla macchia mediterranea, profumata di rosmarino selvatico, cappero, lentisco e ginepro, dall’odore del mare, di un mare antico, incontenibile e pieno nell’avvicinarsi alla costa.

A gioire è anche il gusto poiché l’alta qualità dei prodotti che qui vedono la luce – dal miele già cantato da Virgilio e da Plinio il Vecchio, ai formaggi, il caciocavallo DOP e la provola ragusana, all’olio anch’esso DOP e i vini Vittoria e Eloro –  ha trovato perfetta unione con l’eredità culinaria lasciata da secoli di dominazioni, tra tutte quella spagnola, la cui influenza si riflette ancora oggi sulle tavole dei siciliani, piatti semplici e pietanze talvolta curiose che hanno colpito positivamente Sciascia, già completamente conquistato – lo confessa egli stesso – dalla bontà del cioccolato di Modica.

L’antica disposizione del caciocavallo ragusano per la stagionatura

E per esempio: la cucina della contea – e non c’è differenza tra quella familiare e quella che le trattorie offrono: la sola parte della Sicilia in cui, come in Puglia e in Toscana, si è capito che bisogna, nelle trattorie, attenersi alla cucina locale – irresistibilmente richiama alla Spagna per il prevalervi dei piatti di legumi: ceci, fagioli, lenticchie, fave secche conditi con buon olio crudo  (e le fave, a volte, anche con aceto e origano);  e richiama anche a quella sobrietà che per Menèndez Pidal è “la qualità basilare del carattere spagnolo”. Sobria è la gente della contea. Altro richiamo, per restare alla gola, è quello del cioccolato di Modica a quello di Alicante (e non so se di altri paesi spagnoli): un cioccolato fondente di due tipi – alla vaniglia, alla cannella – da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archétipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione. E qui sarebbe da fare un inventario della pasticceria modicana: le cedrate, le cotognate, i torroni, le cobaite: ma ci vorrebbe un descrittore di sapori della vocazione e sottigliezza di Magalotti nelle lettere sugli odori. Bisogna però particolarmente ricordare quei dolci fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente: un dolce nutrientissimo e di lunga conservazione, e si potrebbe dire un dolce da viaggio”.  

Le mpanatidde, i dolci modicani ripieni di carne e cioccolato

La prima parte dell’articolo di Stefano VaccaroSciascia e la Contea di Modica (I parte)

di Grazia Dormiente

A Modica, città “alta di terrazzi e di chiese, aerea di visioni esatte dei paesi e dei mari della scienza e dell’arte”, per il Nobel Salvatore Quasimodo che vi nacque, l’essenza del cioccolato, che dal 2018 con il suo IGP conferisce alla città il titolo di Capitale Europea del Cioccolato, pervade tutt’oggi la scenografia tardo-barocca gemmata dalla frattura umana e materiale del terribile sisma del 1693.

Il poeta Salvatore Quasimodo

Ad ispirare gli innumeri ritratti della città non è solo la singolarità della morfologia urbana, ma anche la sua densa storia di Capitale dell’antica Contea, che dal XIV secolo per funzioni amministrative, giurisdizionali e di direzione politica si configurava come il più importante stato feudale della Sicilia.

Durante i suoi lunghi secoli di vita la Contea di Modica rimase quasi sempre sotto il dominio della Spagna, perfino nel 1713 allorché l’isola di Sicilia fu ceduta a Vittorio Amedeo II di Savoia. All’ influsso spagnolo è sicuramente da attribuire la consuetudine cioccolatiera delle aristocrazie locali, blasonati interpreti della vocazione nobile del cioccolato e della convivialità festiva e rituale.

Le carte d’archivio del ramo genovese del nobile casato dei Grimaldi, insediatosi a Modica nel XVI secolo, hanno restituito la traccia dolce della capitale dell’antica Contea, dove già a partire dal 1746 i “cicolateri” (sic) manipolavano aromatiche cotte di cacao di caracca.

La voce cicolateri che campeggia nel foglio archivistico del 1746 è stata adottata come certezza anagrafica del cioccolato di Modica IGP (Archivio di Stato Ragusa- Sez. di Modica – Fondo Grimaldi, Scritture diverse, vol. 86, c.513)

Si è così ricavata la certezza anagrafica del rinomato cioccolato di Modica, portando alla luce il valore storico-scientifico di fonti inesplorate, ora esposte nel Museo del Cioccolato, soglia nodale per la narrazione storica dell’inimitabile Cioccolato di Modica.

Soltanto alla fine del XIX secolo, in concomitanza con la comparsa a livello locale dei primi caffè e soprattutto con la coeva affermazione della borghesia, si estese ad altri ceti sociali il consumo del bruno nettare degli dei. Né fu abbandonato il sistema artigianale di lavorazione che conferisce al cioccolato, lavorato senza superare la temperatura di fusione dello zucchero, quella tipica granulosità che lo contraddistingue. 

Fonti archivistiche e bassorilievo dell’Italia in cioccolato nella Sala Ranieri III di Monaco nel Museo del Cioccolato di Modica (foto: G. Leone)

La seconda metà dell’Ottocento l’epopea del cioccolato a Modica rifulse al Caffè Orientale di Pietro Borrometi, ubicato al civico 108-110-112 del Corso Umberto I di Modica. Per lunghi anni restò il Caffè modicano per antonomasia, pluripremiata fabbrica con auree onorificenze nazionali e internazionali; il luogo per i cavalieri, gli intellettuali e i nobili del tempo, serviti magari dal mitico cameriere in ghette bianche Pietro Rocca, immortalato dallo scrittore Raffaele Poidomani. (Modica, 1912-1979)

Probabilmente solo alla fine degli anni settanta del novecento si passò dall’acquisto delle fave di cacao, tostate e macinate in loco, alla fornitura della pasta amara non concata, mantenendo però la tradizionale operatività della preparazione “a basse temperature”.

Archivio Fondazione Grimaldi

Processo manifatturiero che ha consentito di incrementare in anni recenti uno dei settori più importanti dell’economia modicana, anche per il conseguente indotto legato alle modalità promozionali di uno dei dolci connotanti il fascinoso campionario di prelibatezze iblee, rivisitate dalla creatività degli abbinamenti di gusto che nel segno del cioccolato hanno impreziosito vini, piatti e portate, rivitalizzando sapori e profumi.

di Stefano Vaccaro

Nel suo passaggio a più riprese per i comuni iblei che fino all’inizio dell’Ottocento componevano la Contea di Modica, Leonardo Sciascia riesce ancora a cogliere “qualche reliquia della serenità del vivere“, a toccare – fuggevolmente – “il giusto della vita. O la sua illusione“.

Che questi luoghi ne diano ancora, l’illusione di un vigore reale o apparente, non è cosa da poco e non è neppure cosa recente se è vero che, per la sua floridezza economica e un contesto socio-culturale differente rispetto al resto della Sicilia, la Contea di Modica ha goduto nel tempo della reputazione di essere un’isola nell’isola, ovvero una potente enclave dotata storicamente di ampia autonomia politica.

Leonardo Sciascia

Modica, nei fatti, possedeva tutti gli uffici di una capitale e capitale lo era davvero con un Tribunale di gran Corte ed una Curia di appello per le cause civili e penali, con uno stuolo di notai e avvocati a far coppia con le più importanti cariche amministrative, difensive e giurisdizionali.

Fregiarsi del titolo di Conte di Modica significava detenere il potere su uno dei più grandi feudi siciliani, lo compresero bene talune famiglie aristocratiche che, con la spada o con un anello nuziale, tentarono di prenderne il potere.

Alle fortune della Contea si sono alternate vere e proprie saghe familiari, Sciascia in una introduzione edita per Electa nel 1983, La contea di Modica, accanto ad una selezione di foto di Giuseppe Leone, ne ripercorre in breve la storia, affascinato dalle vicende umane di dame e cavalieri, dalla famiglia Chiaramonte, dai Cabrera e dalla leggenda del delirante amore di Bernardo per la regina Bianca di Navarra, dagli Enriquez e Vittoria Colonna, dal 1606, eponima della città da lei fondata.

Giuseppe Leone e Leonardo Sciascia; a destra) copertina della prima edizione de La Contea di Modica (Electa, 1983)

Un piccolo regno nel regno. “Sicut ergo in regno meo et tu in Comitato tuo”: come io nel mio regno tu nella tua contea. Così nel diploma del 20 giugno 1392 con cui re Martino concedeva a Bernardo Cabrera la contea che era stata dei Chiaramonte, all’aragonese ribelle. Magnifica famiglia, quella dei Chiaramonte. Troppo occupata a guerreggiare e a congiurare, troppo in gara coi re, troppo ostinata nel difendere il proprio privilegio, di più nobile ostinazione e coraggio rispetto ad altre famiglie allora quasi quanto la loro potenti […]. E lo splendore, la forza e l’ascesa della famiglia, si riverberavano nella vita del feudo, se lungamente tra quelle popolazioni ne durò la leggenda. O forse fu l’irreparabile rovina, la tragica estinzione, a impressionare il sentimento popolare e a far durare nella memoria quel nome, quello splendore. O forse, e anche, ci fu una mutuazione di fantasie cavalleresche (quelle, per intenderci, che molto più tardi daranno luogo all’opra di pupi) nella memoria storica: promossa, probabilmente, dal nome appunto – Chiaramonte.

Nel tracciare la storia della Contea di Modica, Sciascia si affida ad un manipolo di studiosi autoctoni i quali, già a partire dal XIX secolo, mirano a ricostruire a più riprese il contesto storico, ma anche economico, politico e culturale dell’entità feudale d’appartenenza.

Dall’avvocato Filippo Garofalo, autore nel 1856 dei Discorsi sopra l’antica e moderna Ragusa, apprende come la divisione delle terre in enfiteusi sia stata, in questa parte di Sicilia, meno soggetta “a dritti angarici e soprusi feudali” e invece luogo d’elezione di un’arricchita classe borghese.

Quasi cinquant’anni prima, nel 1808, l’economista Paolo Balsamo concludeva il Viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica (1809), non sapendo ben decidere “se mai Ragusa o Modica sia la più facultosa; […].

Briganti
Paolo Balsamo e il frontespizio del “Giornale del viaggio fatto in Sicilia” (1809)

Definito dallo scrittore di Racalmuto l'”impareggiabile descrittore della contea”, è il barone dei “villani” Serafino Amabile Guastella – autore, tra l’altro, della felicissima opera che è L’antico carnevale della contea di Modica (1877) – a destare maggiore attenzione in Sciascia che più volte ha modo di menzionare nella sua narrazione del comprensorio ibleo.

A lui guarda per uno stornello popolare con protagonista Costanza Chiaramonte, per le guerre di santi patroni volentieri sfociate in faziose lotte paesane e, non da ultimo, all’antropologo chiaramontano si rivolge per scrivere in breve sulla poesia, la pronunzia e la grammatica dei sottodialetti dell’ex contea di Modica…

Serafino Amabile Guastella e il frontespizio del suo “L’antico Carnevale della Contea di Modica” (1877)

di Giuseppe Barone

Il polittico di Bernardino Niger (o Nigro), che impreziosisce la parete absidale della chiesa di S. Giorgio a Modica, è un autentico capolavoro e non finisce di svelare i suoi segreti agli studiosi che indagano sulla storia della Contea.
Paolo Nifosì ha accertato la datazione e la cifra stilistica del polittico, che fu commissionato al pittore calatino nel 1566 e completato nel 1573 secondo moduli manieristici e “raffaelliti”. Probabilmente anche la cornice lignea attorno ai quadroni potrebbe essere opera sempre del Niger, che proprio nel 1573 si unì in matrimonio con Agata Scolaro inginocchiandosi davanti alla pittura sacra da lui stesso realizzata.

Altare maggiore del duomo di S. Giorgio di Modica. Il Polittico di Bernardino Niger (o Nigro) (foto di Effems da Wikipedia)

L’intero spazio architettonico absidale e il polittico sono pertanto un prodotto artistico e storico del XVI secolo, a differenza della facciata esterna del ‘700. Non solo barocco, dunque, ma testimonianza viva e intatta di un Rinascimento modicano ancora tutto da scoprire. Ricordiamolo, così da evitare di raccontare agli ignari turisti che da noi il terremoto del 1693 distrusse tutto e tutti. La più bella chiesa tardo barocca della città ha invece incastonato al suo interno uno dei pezzi più straordinari della pittura del cinquecento siciliano.

San Giorgio di Modica (foto di Marco Crupi da flickr.com)

Per comprendere le ragioni che spinsero clero e nobili del quartiere soprano di Francavilla a commissionare una così grandiosa e costosa opera d’arte (il più grande polittico della Sicilia moderna) occorre tener conto delle profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali che alla metà del secolo sconvolgono la città. Provo a riassumerle:
 – dal 1550 la diffusione dell’enfiteusi crea un esteso ceto di piccoli e medi proprietari terrieri che si arricchiscono con l’esportazione del grano e con l’allevamento;
 – il dinamismo commerciale attrae i mercanti genovesi, milanesi, toscani e catalani che prestano somme cospicue ai Conti sempre più indebitati (per le spese di corte e di “vita e milizia”) e si “naturalizzano” come classe dominante grazie ai legami matrimoniali e di parentela con le elites locali;
 – la riforma amministrativa di Belnardo Del Nero del 1542 (con le successive modifiche del 1549 e 1564) introduce i nuovi Consigli civici, dando vita così a gruppi oligarchici che si contendono cariche pubbliche e potere locale;
  il Concilio di Trento e il rilancio devozionale della Controriforma cattolica incentivano la fondazione di conventi e monasteri “intra moenia” che modificano l’impianto urbanistico della città.

Modica cambia volto nel ‘500 e cancella rapidamente il suo antico volto medievale. L’asse Castello-S.Giorgio, che aveva rappresentato per almeno tre secoli il cuore della cittadella fortificata, si apre rapidamente a uno sviluppo demografico ed edilizio che riempie la sottostante “cava” dove si allineano i cantieri ecclesiastici dei domenicani, delle benedettine, delle carmelitane dello Spirito Santo, le fabbriche “palazzate” degli Arezzo, Ascenzo, De Leva, Vassallo, le “maramme” sontuose delle chiese di S. Pietro, S. Maria di Betlem, del SS. Salvatore con la sua fornitissima “fiera franca” del 1569.

Panorama della città di Modica a figura di “melagrana spaccata” dentro una “cava” (foto bonajuto.it)

Modica bassa cresce sul piano economico e politico: dal 1550 i vasti magazzini della Corte frumentaria sono ubicati allo Stretto da dove si diramano le strade verso Scicli e il caricatoio di Pozzallo, mentre negli stessi anni il convento di S. Domenico diventa la sede delle riunioni del Consiglio civico. Si capovolgeva così l’equilibrio demografico: nel 1581, su una popolazione totale di 16.000 abitanti, ben 10.000 vivono nei quartieri della “cava” e solo 6.000 nella rocca superiore. Nobiltà e clero di S. Pietro ora rivendicano alla propria chiesa l’ambito titolo di Matrice: qui cominciano a svolgersi la “possessio officiorum” delle cariche municipali e numerose cerimonie pubbliche.

L’arciprete si spinge oltre e nel 1568 osa far scolpire sul fonte battesimale la scritta “Mater Ecclesia”. Apriti cielo! Molti “sangiorgiari” reagiscono con ricorsi incendiari al Vicerè e al Papa e si scatena un contenzioso infinito davanti ai tribunali civili ed ecclesiastici, si minacciano scomuniche ed interdetti, finché nel 1579 il sacrilego fonte battesimale viene distrutto a martellate sulla pubblica piazza “ad exemplum populi”. Ma la guerra dei Santi continuerà per altri due secoli.

La chiesa di San Pietro a Modica Bassa (foto Davide da flickr.com)

Bernardino Niger viene così chiamato dai maggiorenti di S. Giorgio “a miracol mostrare”, ad inventare una scenografia pittorica e uno spazio decorativo che riaffermasse la forza e il prestigio dell’unica e vera Matrice, in modo da rilanciare primato religioso e culturale della chiesa dei Conti. Bloccare il declino, invertire il trend negativo dei lasciti e delle elemosine, riconquistare fedeli e devoti con lo splendore dell’arte. I Palazzolo, Salemi, Carrafa, Guarrasi, Lorefice e Tommasi Rosso che nel 1573 davanti a una folla di fedeli scoprono il polittico e innalzano un mistico Te Deum di ringraziamento sono i rappresentanti di un patriziato urbano che intende riconfermare la centralità dell’antica Francavilla a scapito dei quartieri emergenti di Porta d’Anselmo, Corpo di Terra e Casale.

L’interno del Duomo di San Giorgio (foto Clemensfranz da Wikipedia)

Sarà una battaglia dura, con alterne fasi di rivincite e di sconfitte, che tuttavia dal 1634 vedrà trionfare il primato di S. Giorgio grazie al sostegno decisivo della famiglia Grimaldi, la cui origine genovese contribuirà in maniera determinante a valorizzare culto e devozione del Santo cavaliere. Paradossalmente, il conflitto religioso e le “scissure” tra le due chiese rivali ha contribuito a farle più belle e ricche di opere d’arte.

di Giuseppe Barone

I Riveli sono i più antichi censimenti di Sicilia, che si conservano all’Archivio di Stato di Palermo dal 1505 al 1811. Essi rappresentano una fonte storica straordinaria perché riportano le dichiarazioni giurate dei capifamiglia sulla composizione del patrimonio, sui legami di parentela, sul numero e sul ruolo dei conviventi, su mestieri e professioni, sui luoghi e sulle tipologie delle  abitazioni.

Una pagina dei Riveli

Grazie all’iniziativa del Centro Studi “Feliciano Rossitto” diretto da Giorgio Chessari nel 2003 fu pubblicato integralmente il Rivelo di Ragusa del 1607 in tre volumi curati dal compianto prof. Giuseppe Raniolo. L’opera è davvero preziosa, finora non adeguatamente considerata, e oggi merita una rilettura più attenta  perché costituisce un completo “database” per uno studio socioeconomico del capoluogo ibleo in età moderna.

Agli inizi del ‘600  Ragusa contava 6.000 abitanti distribuiti in 1395 “fuochi” (nuclei familiari) e con una ricchezza privata complessiva di 121.000 onze (circa 120 milioni di euro attuali). Essa stava ancora scontando le tragedie del terremoto del 1542 e  della “grande peste” del 1576, che con 5.400 vittime aveva dato un duro colpo alla crescita urbana. Grazie all’esportazione del grano e ai contratti di enfiteusi, l’economia della Contea si era però ripresa velocemente.

Comparato con gli altri Riveli precedenti e successivi, quello del 1607 ci offre un primo dato obiettivo in ordine agli equilibri demografici del territorio.  Nel 1569 Ragusa registrava una popolazione di 10.000 abitanti suddivisi in 2058 “fuochi” e con una ricchezza privata calcolata in 145.000 onze. Dopo il salasso demografico ed economico dell’epidemia, tuttavia, la  città aveva ripreso a crescere e la sua popolazione avrebbe sfiorato di nuovo le 10.000 unità alla vigilia del terremoto del 1693.

Veduta di Ragusa pre terremoto del 1693 (da un dipinto di Giorgio Cavalieri)

Nel cosiddetto “secolo di ferro” era la terza città della Contea,  dopo Modica che concentrava gli uffici dell’amministrazione comitale (18.000 abitanti) e Scicli sede militare della Sergenzia e centro di  traffici marittimi con Malta (9.000 abitanti). La  lunga rincorsa di Ragusa durerà tre secoli: la sua popolazione supererà quella di Scicli alla metà del ‘700 e quella di Modica alla metà del ‘900, quando però Vittoria si classificherà al secondo posto come taglia demografica. Solo misurando questa  “longue durèe” andrebbero valutate le mutevoli egemonie urbane dell’area iblea.

(Sopra) una pittura della Scicli pre-terremoto del 1693. (Sotto) un disegno di Modica da una stampa del 1845

Il Rivelo del 1607 ci consegna una seconda sorpresa, che smentisce tradizionali interpretazioni storiografiche. A differenza di un’abusata lettura sociologica che insiste sulla prevalenza della “famiglia allargata” nei paesi dell’area mediterranea, basata sull’autorità del “pater familias” e comprendente numerosi figli, nuore e nipoti uniti sotto lo stesso tetto (penso agli studi di Marzio Barbagli), Ragusa si presenta invece con una struttura “europea” di famiglie nucleari e neolocali: essa conta, infatti, 1395 “fuochi”, ciascuno composto mediamente da 4/5 persone che vivono in autonomia e in abitazioni singole.

Il sociologo Marzio Barbagli (foto Giovanni Dall’Orto)

Genitori e figli, dunque, senza arcaici vincoli patriarcali, secondo un’organizzazione moderna della famiglia: il che fa piazza pulita di logore visioni “contadiniste” della società iblea e ne mette piuttosto in luce gli aspetti dinamici e socialmente avanzati. Anche in questo caso la “longue durèe” ci consente di capire meglio la rinascita tardobarocca post 1693 della Contea come frutto di una società ricca, in cui un’efficiente agricoltura mercantile alimenta una “rete diffusa” di città.

La Contea di Modica nel ‘700 e gli stemmi della famiglia Enriquez Cabrera

Come terzo elemento di riflessione il Rivelo ci fornisce l’immagine inedita di elites aristocratiche  “doviziose”, che anche in questo caso mette in crisi le consuete interpretazioni “pauperistiche” della Sicilia. La  ricchezza risulta concentrata nelle elites nobiliari, ma la sua distribuzione consente comunque la presenza di una solida classe media di borghesia agraria e di professionisti. Su 1.395 famiglie, infatti, il 30% (427 nuclei) possiede beni stabili e mobili per più di 100 onze e nel complesso detiene il 40% del patrimonio totale (50 000 onze su 120 000). Ma il dato significativo è che la metà dei “rivelanti” dichiara beni per un valore compreso nella fascia tra 50 e 100 onze: “civili” possidenti, notai e avvocati, commercianti e impiegati, disegnano un profilo inedito di una “middle class” attiva ed operosa.

Castello di Ragusa (XVII sec. – cronista anonimo)

Esiste anche un artigianato di qualità (falegnami, carpentieri, sarti,  cordai, scalpellini) che contribuisce ad articolare un modello urbano socialmente stratificato. Alto elemento di non poco conto: gli “impossidenti” non superano il 15% del totale dei “fuochi”, cosicché  la povertà sembra confinata entro limiti accettabili. I poveri non sono comunque abbandonati a se stessi, poiché le classi “alte” cercano di prendersi cura delle classi “basse” attraverso i circuiti della beneficenza e dell’assistenza privata. Doti per le fanciulle povere, legati di maritagio e di monacazione, sussidi in natura ed elemosine vengono distribuiti da Confraternite ed Opere pie. Anche per evitare (ma non sempre è possibile) i pericoli di sommosse e rivolte popolari.

Particolare di una stampa dell’800 raffigurante la Cattedrale di San Giorgio

Il Rivelo infine “fotografa” il quadro interessante delle famiglie nobili e ricche della Ragusa preterremoto. Sempre nel 1607 sono solo 35 i nuclei benestanti che con un patrimonio di oltre 1.000 onze detengono una quota considerevole delle risorse private. In testa a tutti don Giovanni Arezzo con 4.000 onze: ha 30 anni, è sposato con la nobildonna Antonia La Rocca e amministra vaste proprietà a Donnafugata, Meta e Pendente, dove alleva numerosi greggi ovine, mandrie di bovini e suini che alimentano l’interscambio mercantile con Malta, oltre a tenere centinaia di arnie per la produzione di miele.

Il suo palazzo avito era stato edificato a fine ‘500 in Piazza Maggiore dal padre Corrado ed ora vi abitano i figli ed uno stuolo di servitori, compresi quattro schiavi: sotto e nei dintorni tante “poteghe” e magazzini sono affittati a mercanti ed artigiani. Lo segue a distanza un altro Giovanni Arezzo, figlio di Giulio e con beni per 1.450 onze: ha 32 anni, moglie e tre figli, serviti da sei garzoni, una “creata” e due schiavi.

Alla potenza economica e politica degli Arezzo si affianca (e talvolta si contrappone) quella dei Castellett. Don Scipione ha 47 anni, è secondo in città con 3.200 onze: sposato con Maria Di Marco e tre figlie, vive in un grande palazzo al Tocco con estese tenute a Carcallemi (100 salme), 40 salme a Renda e decine di altri appezzamenti dove si producono grano, carne e latticini. Al Conte di Modica da solo paga annualmente 1.000 onze di censi in frumento, oltre a sovvenire alle spese di culto in varie chiese e per l’ospedale S. Giuliano.

I Castellett rappresentano a quella data il più potente clan familiare, perché nel Rivelo si contano ben 27 esponenti del casato per un patrimonio totale di 14.000 onze! Le altre famiglie “maggiorenti” di Ragusa sono i Battaglia con 40 “rivelanti” e una ricchezza complessiva di 4.500 onze, i La Rocca con 8 capifamiglia che dichiarano 4.200 onze, i Giampiccolo con 8 esponenti e 3.000 onze. Nè sfigura in tale contesto Giovanni Vincenzo Bellìo fu Tommaso con ben 1.700 onze di patrimonio:la sua attività principale è quella di “mutuante” e i profitti bancari alimentano il lusso di figli e congiunti.

(Da sx in senso orario) i palazzi a Ragusa Ibla dei Giampiccolo, La Rocca, Castellett e Battaglia

Altri gruppi familiari sono ancora lontani dai livelli di ricchezza dei 6 casati ora citati, ma già risultano in piena ascesa sociale:  i Migliorisi con 2.900 onze, gli Occhipinti con 2800, i La Lota con 2000, i Di Stefano con 1.800, i Di Marco con 1.400, i Gurrieri con 1.200, mentre sono appena all’orizzonte le fortune degli Schininà, Ottaviano e Pennavaria.

Ragusa “città di massari” è una definizione inadeguata, che non tiene conto della forza politica ed economica dell’èlite iblea. Ma il terremoto del 1693 avrebbe ancora una volta modificato le gerarchie sociali ragusane.

di Giuseppe Barone

La prima monografia sul cioccolato compare nel 1631 a Madrid ad opera di Antonio Colmenero de Ledesma, ma tradotta in Italia solo nel 1666 (Roma) e nel 1678 (Venezia). Nella storiografia un ruolo di protagonista viene assegnato al cardinale pugliese Francesco Brancaccio, munifico donatore della ricca collezione di libri che rese possibile la fondazione a Napoli della  prima Biblioteca pubblica (la Brancacciana).

(Immagine Bibloteca Nacional de España)

Nel 1664 il prelato ebbe infatti modo di pubblicare a Roma  il trattatello “De chocolatis  potu diatribae” che cercava di sciogliere la lunga controversia dibattuta tra gli ordini religiosi circa il divieto di consumare in Quaresima e nelle feste di precetto il cosiddetto “brodo indiano”.  Con pertinenti riferimenti fisico-chimici e teologici Brancaccio sosteneva che solo nella forma “densa” il cioccolato rompeva il digiuno, mentre in forma liquida poteva essere assunto anche nel periodo quaresimale.

Il cardinale non esitava addirittura a proporre una gustosa ricetta per rendere più sostanziosa la dolce bevanda senza incorrere in peccato mortale. Il dibattito teologico e morale continuò però ad infuriare fino al XIX secolo tra rigoristi (domenicani) e possibilisti (gesuiti), fino a coinvolgere lo stesso Alessandro Manzoni che ne “I promessi sposi” ne fa sorbire una “chicchera” calda a Gertrude monaca di Monza prima di rinchiudersi in clausura.

Sulla tavola dei Cavalieri dell’Ordine di S. Giovanni, tuttavia, il cioccolato si consumava da tempo. Già nel 1658 il medico, botanico e letterato maltese Gian Francesco Buonamico (1639-1680) compone un inedito “Trattato della Cioccolata” che lo studioso Giovanni Bonello ha ritrovato tra i carteggi di un Archivio privato (in “Histories of Malta”,  2000).

Gian Francesco Buonamico (Immagine di RSekulovich – Wikipedia)

Dopo lunghi soggiorni di lavoro nelle principali capitali europee, descritte con vivide annotazioni tipiche della letteratura del Grand Tour, Buonamico rientra a Malta su invito del Gran Maestro Cotoner che lo nominava medico navale al servizio delle galere giovannite, nelle cui cambuse non mancava mai il prezioso alimento. Più che le dissertazioni scientifiche sulla  composizione dell’alimento, lo interessano i percorsi storici della diffusione del cioccolato e le pratiche sociali del suo consumo da Portogallo e Spagna alla penisola italiana e alla Sicilia.

La Valletta (Malta) in una incisione del XVII sec.

A differenza dell’opinione comune che attribuiva a conventi e monasteri le più rinomate ricette di preparazione del “cibo degli Dei”, Buonamico offre un’originale interpretazione “di genere”  della cioccolatomania esplosa in Europa nel XVII secolo. Sarebbero state le donne, a suo avviso, le grandi consumatrici di quel nettare caldo che permetteva loro di essere allegre e di ingrassare, in modo da imitare le forme abbondanti e sinuose della bellezza femminile rappresentate nelle tele di Rubens e dei grandi pittori rinascimentali: un canone estetico che avrebbe resistito in arte e in letteratura fino al XIX secolo.

Pittura di Jean Chevalier, XVIII sec.

Il Trattato affronta diverse questioni, come le qualità organolettiche del prodotto, le sue proprietà benefiche (estingue la sete, pulisce il sangue ed il fegato, “addolcisce” il corpo)  ma pure le controindicazioni (non abusarne d’estate, può provocare flatulenze) , nonché gli usi migliori per apprezzarne più pienamente aromi, dolcezza, energia, buonumore.

Nel suo saggio Giovanni Bonello si sofferma su alcune ricette “speciali” suggerite dallo scrittore maltese. Una viene espressamente dedicata alle persone comuni e “volgari”: qui al cacao andavano aggiunti zucchero, cannella, pepe al pimento, chiodi di garofano ed eventualmente acqua di rose ed arachidi. La pasta poteva essere confezionata in barrette solide, buone comunque per essere sciolte e bevute. Un’altra è invece riservata agli uomini e donne “di riguardo” come preti, suore, militari e politici: in questo caso andavano aggiunti ingredienti esotici come curry indonesiano e altre spezie, che per i “deboli di stomaco” potevano sostituirsi con ambra, muschio ed essenza di rose bianche d’Egitto.

Buonamico esprime anche la sua ammirazione per l’uso “italiano” di raffreddare il cioccolato con la neve, un metodo ritenuto salutare e ormai accettato anche tra i Cavalieri di Malta, che non a caso si rifornivano dall’Etna e dalle neviere iblee (Palazzolo, Buccheri, Monterosso).

La folta presenza dell’aristocrazia della Contea tra le file del prestigioso Ordine cavalleresco di S. Giovanni  (dai Grimaldi, ai Lorefice, dagli Ascenso ai Celestre, dagli Arezzo ai Ribera) ha certamente favorito la circolazione di ricettari manoscritti, come il “Libro de’ secreti per fare cose dolci” del siciliano Michele Marceca del 1748 (edito nel 2007 in un volume curato da M. Goracci e L. Lombardo)  e di pratiche gastronomiche gelosamente conservate e rielaborate nelle cucine dei nobili casati. Le “golose dolcezze” modicane si sono formate nello spazio euromediterraneo iberico-maltese e la Contea ha rappresentato una cerniera strategica di scambi culturali ed economici lungo le rotte del Mare Nostrum. Una “grande storia” da ripensare guardando al futuro.

(Immagine malta.italiani.it)

di Giuseppe Cultrera

A Natale si regala anche il libro: generalmente si tratta di bestseller o di novità fresche di stampa. Si compra, si mette persino sotto l’albero e si distribuisce la notte del 24. Poi il destinatario lo legge, oppure lo ripone sul comodino in attesa di aver il tempo di darci un’occhiata; o, caso più comune, lo abbandona al suo destino di solitudine e di inutilità.

Assodato che leggere non è una prescrizione ma un atto di libertà e di amore, vorrei proporvi per Natale qualche titolo di libro. Che non dovrete comprare (e anche se vorreste non lo trovereste in libreria) ma potrete rintracciare, nella vostra stessa casa, in biblioteca, in qualche bancarella di libri usati. Uguale il titolo e il tema per i quattro diversi percorsi. Intriganti e vivaci.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Fine ottocento. Notabili e politici ad Ibla. Sulla destra il sindaco dott. Raffaele Solarino

La contea di Modica è il titolo del lungo saggio che introduce i Canti popolari del Circondario di Modica di Serafino Amabile Guastella, pubblicato a Modica nel 1876. Un saggio che è un racconto sugli abitanti di quella parte della Sicilia d’oriente che dal XV secolo al XIX si chiamò Contea di Modica e che oggi è gran parte dell’attuale provincia di Ragusa. Una introduzione che è corposa quanto il soggetto del libro, vale a dire la raccolta di Canti popolari; e forse sarebbe stata anche superiore, se il tipografo non avesse tralasciato o volontariamente cassato un paio di quinterni.

La Contea di Modica: quattro percorsiv
Ritratto fotografico di S. A. Guastella (1819/1899). Il frontespizio dei Canti popolari del 1876 (a destra)

“Il tipografo mi assassinò in modo indegnissimo – si lamentava con l’amico Giuseppe Pitrè in una missiva del 27 settembre 1876 – e non solo negli errori tipografici, che qualche volta feriscono il senso, e qualche altra volta la grammatica, ma con l’aver tralasciato di stampare per lo meno una terza parte della prefazione, cioè una decina di pagine, forse le più importanti.”

Una ragione in più per addentrarsi nella lettura di una delle prime opere di Guastella (tra l’altro mai ristampata) che riserva non poche sorprese, per la scrittura, le notazioni storiche e antropologiche, la verve e l’ironia abbondantemente profusa.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Il dott. Raffaele Solarino (1844/1903); a destra copertina di una ristampa anastatica de La Contea di Modica

Vent’anni dopo, il ragusano Dott. Raffaele Solarino, che fu pure sindaco della sua città, pubblica il primo volume di una impegnativa ricerca storica, intitolandola La Contea di Modica (il secondo uscirà postumo nel 1905). Rimane ancora un pilastro della storiografia iblea, per la vastità dei dati e della documentazione d’archivio, specialmente per il periodo medievale. Una lettura, in verità, non facile per la mole e la specificità della trattazione, ma con numerosi varchi e suggestioni per il lettore curioso. Esistono varie ristampe.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Nobildonne a passeggio sulla spiaggia. Foto di Carmelo Arezzo barone di Trifiletti (1871/1899)

Invece, è gradevole e ‘leggero’ il racconto degli usi e costumi degli abitanti di questa parte della Sicilia d’oriente, specie se a tesserne la trama è una colta donna del settentrione, venuta a stabilirsi a Ragusa dopo aver contratto matrimonio col nobile Paolo La Rocca Impellizzeri. La piemontese Esther Manari, a differenza della maggior parte delle donne di Sicilia (comprese le nobildonne), ha frequentato un corso regolare di studi. Scrive e pubblica alcune raccolte di poesie, si impegna socialmente nell’istruzione e nel riscatto delle donne meno abbienti anche con la creazione di corsi di avviamento al lavoro.

Possiamo dire che è una donna moderna. E lo si legge nella sua Contea di Modica: indagini del folklore (1912) dove riti ed antiche costumanze, comprese le superstizioni, vengono porte al lettore come sostrati di un’antica cultura o aspetti identitari di varie comunità. Così le feste civili e quelle religiose, la cucina, la vita sociale di cento e più anni fa rivive nelle pagine briose della piemontese che divenne ragusana. Una curiosità: l’opera, dedicata a Giuseppe Pitrè, fu premiata con medaglia d’oro alla Esposizione Etnografica di Buenos Aires del 1911.

La contea
La Contea di Modica della baronessa Ester La Rocca Manari (1910) (a sinistra). La torre di guardia di Mazzarelli trasformata in residenza estiva dal barone La Rocca Impellizzeri nel 1885 (al centro). Un volume di versi della baronessa La Rocca Manari (a destra)

La Contea di Modica di Sciascia e Leone (1983) è quella fra le quattro ancora reperibile in qualche libreria, oltre che nelle bancarelle e librerie antiquarie per le precedenti edizioni, ed è quella che abbina la scrittura arguta ed essenziale di Leonardo Sciascia alle immagini evocative e visionarie del fotografo ibleo Giuseppe Leone. Il racconto della Contea, insomma, si fa immagini e parole per i lettori che non conoscono la Sicilia e per coloro che ci vivono, ma la riscoprono singolare e magica.

La contea
Giuseppe Leone e Leonardo Sciascia (a destra); copertina della prima edizione de La Contea di Modica (Electa, 1983)

Un consiglio: se trovate in qualche bancarella o antiquario la mitica prima edizione della Electa (1983), fatevi un regalo di Natale! È uno dei prodotti editoriali degli anni ’80 più significativi. Per l’impaginazione, la carta, la rilegatura, la essenziale eleganza. Parola di bibliotecario.

Serafino Amabile Guastella, Canti popolari del Circondario di Modica, Modica, Tip. Lutri & Secagno, 1876.
Raffaele Solarino, La Contea di Modica, 2 volumi, Ragusa, Piccitto & Antoci, 1895,1905. (Varie ristampe anastatiche).
Ester La Rocca Manari, La Contea di Modica. Indagini del Folklore, Ragusa, Tip. Vincenzo Criscione, 1910.
Leonardo Sciascia, Giuseppe Leone, La Contea di Modica, Milano, Electa, 1983. (Varie ristampe. In catalogo nelle Edizioni di passaggio di Palermo).
La contea
Una foto di Giuseppe Leone nel volume La Contea di Modica (1983)

Immagini: Archivio Utopia Edizioni.

di Paolo Monello

Dopo la morte di don Juan Tomàs Enriquez Cabrera avvenuta nel 1705, i suoi diritti su Medina de Rioseco passarono al nipote Pascual, che a sua volta dopo la pace di Vienna del 1725 tra Carlo VI e Filippo V poté entrare in possesso anche dei beni siciliani appartenuti allo zio, fra cui la Contea di Modica, di cui ebbe l’investitura nel gennaio 1729. Il tragico destino dell’Almirante lo rese famoso a lungo nel ‘700 spagnolo ed addirittura nel 1827 la scrittrice francese Laure Junot Saint Martin, duchessa d’Abrantes, scrisse un romanzo tradotto in spagnolo nel 1838 con il titolo “El Almirante de Castilla”.

Quindi, più che davanti ad un “traditore”, ci troviamo di fronte ad un uomo che per la fedeltà ad una causa perse tutto: i beni ed anche la vita, un esempio mirabile di lealtà. Ma che fine fecero gli oggetti preziosi e gli oltre 200 quadri che il conte di Modica si era portato appresso da Madrid fino a Lisbona?

Don Juan Tomàs Enriquez Cabrera e il romanzo “El Almirante de Castilla” di Laure Junot Saint Martin, duchessa d’Abrantes (1838)

L’Almirante destinò tutto il denaro liquido di cui disponeva a Lisbona (oltre 211 milioni di reis portoghesi, equivalenti a circa 5 milioni e 300.000 reales spagnoli: una somma assai cospicua!) alla Compagnia di Gesù, con l’obbligo di fondare un collegio per la formazione di missionari gesuiti destinati alle Indie orientali e alla Cina, sotto titolo di “Nostra Signora della Concezione”.

L’Arciduca Carlo d’Asburgo

Una casa-noviziato da costruire a Madrid nel caso l’Arciduca Carlo fosse riuscito a diventare re di Spagna; a Lisbona, se non ci fosse riuscito. Niente lasciò al fratello Luis né al nipote Pascual (la cosa è comprensibile visto che entrambi lo avevano rinnegato e Pascual aveva testimoniato nel processo contro di lui!), ma volle destinare alla nipote donna Maria Enriquez (figlia del fratello Luis e che nel 1740 avrebbe ereditato dal fratello Pascual la Contea di Modica) un lascito di 5.000 ducati sulle rendite di Pietrabuena (che però era stata sequestrata, con le case ed i palazzi di Madrid e tutto il resto).

La Contea di Modica nel ‘700 e gli stemmi della famiglia Enriquez Cabrera

Oltre al denaro liquido lasciò anche 10 arazzi, gioielli ed altre cose preziose, tra cui servizi di porcellana e d’argento. Juan Tomas era stato molto colpito dalla perdita di ben 280 chili di argento lavorato, depredato dai francesi che avevano catturato la nave su cui viaggiava con destinazione Olanda per farlo fondere (giugno 1703). Infine i quadri, ben 200, come sappiamo. Agli oltre 200 milioni di reis vanno quindi aggiunte le somme ricavate dalla vendita di tutti questi oggetti preziosi.
Scrive la studiosa americana Angela Delaforce nel suo “From Madrid to Lisbon and Vienna: The journey of the celebrated paintings of Juan Tomás Enríquez de Cabrera, Almirante de Castilla” (The Burlington Magazine 2007): 

Ristampa dal testo originale del 1838

«…Nell’estate del 1705, subito dopo la morte di Juan Tomas [avvenuta il 29 giugno], gli arazzi, alcune rare tappezzerie, dipinti, servizi da tavola, argenti, armadi e cassapanche, orologi, pezzi di ambra, gioielli e pietre preziose furono stimati e messi in vendita a Lisbona. Gli arazzi includevano paesaggi o boschi: 12 pannelli con le “Storie di Enea”, che si dicevano tessuti ad Anversa e col marchio di Bruxelles; otto pannelli con le “Storie di Mosè” tessuti in Francia, di cui si sapeva che erano stati acquistati a Roma da[ll’avo] Juan Alfonso; e altri descritti come nature morte e fiori».

Gli oggetti lavorati in oro e in argento, che comprendevano un preziosissimo servizio da tavola fatto in Olanda, furono tutti comprati dal Re del Portogallo, Dom Pedro II, mentre «…un altissimo prezzo (circa 54.777.900 reis) fu pagato per le pietre preziose (smeraldi, diamanti ed altri gioielli con pietre), tutte acquistate dal futuro imperatore, l’Arciduca Carlo».

Un arazzo con le “Storie di Enea”

Juan Tomas aveva portato da Madrid anche argenti liturgici e preziosi reliquiari della sua cappella privata, che nel testamento destinò alla cappella del nuovo Collegio gesuitico da costruirsi, con la disposizione di creare una custodia per il suo cuore, che doveva recare un’iscrizione ed essere collocata sull’altare, dentro la base del piedistallo di una grande statua della Vergine dell’Immacolata Concezione.

Sul destino della collezione di quadri degli Enriquez (ricordo che venne annoverata tra le maggiori della Spagna del XVII secolo), le notizie avute in passato erano non del tutto complete: si scrisse che la collezione fu tra i beni sequestrati all’Almirante nel 1703 e che sarebbe stata dispersa in Spagna (molti quadri però sono oggi al Prado, tra cui quello del duca di Lerma, proveniente dalla collezione di Giovanni Alfonso).

Ritratto equestre del duca di Lerma (particolare), Peter Paul Rubens (1603)

Ma oggi sappiamo che gran parte dei 200 quadri portati nell’esilio, da Lisbona andarono a finire a Vienna. La maggior parte di questi quadri (tra i più preziosi trasportabili), fu acquistata dall’Arciduca Carlo, per il prezzo di 100.000 cruzados (pari a 40 milioni di reis, cioè 1 milione di reales spagnoli), ritenuto dai contemporanei un prezzo irrisorio di fronte al valore complessivo di tanti capolavori.

La fama del valore della collezione del Conte di Modica stuzzicò diversi amanti dell’arte, fra cui anche l’inglese duca di Marlborough, John Churchill (antenato di Winston Churchill) e altri acquirenti olandesi ed italiani. Ma tutti arrivarono tardi o meglio, gli esecutori testamentari dell’Almirante (i padri gesuiti Cienfuegos e Casnedi) preferirono venderli a colui che sembrava stesse per diventare il nuovo re di Spagna, cioè l’Arciduca Carlo e la transazione fu perfezionata il 26 febbraio 1706.

John Churchill, antenato del più famoso Winston Churchill

Dei quadri il 1° febbraio 1705 era stato fatto un inventario, accluso al testamento, purtroppo andato perduto dopo il 1916. Tale documento fu però fra le mani di uno storico gesuita coevo, padre Antonio Franco, che ci riferisce che alcuni quadri erano stati donati dal duca di Medina de Rioseco al re Dom Pedro II e ad altri dignitari della corte portoghese.

Tra i 200 quadri dell’Almirante, padre Franco scrive che c’erano 30 opere di Tiziano (due delle quali acquistate dallo stesso conte di Modica), 9 dipinti di Correggio (uno dei quali sarebbe una copia di “Giove e Io”), 3 di Raffaello, 1 del Perugino, 2 di Michelangelo, 3 di Brueghel, 26 di Van Dyck, 34 di Tintoretto, 1 di Dürer, 5 di Veronese e 3 di Luca Giordano. Per il resto, non ci sono numeri per gli altri artisti, e solo per deduzione possiamo calcolare che c’erano 33 quadri attribuiti a Guercino, Guido Reni, Jusepe de Ribera e Nicolas Poussin; gli altri erano descritti solo come opere di “celebri” pittori, tra cui il genovese Luca Cambiaso, conosciuto come “Luqueto” in Spagna, l’autore di una “Maddalena penitente”.

Luca Cambiaso, conosciuto come “Luqueto”, l’autore di questa “Maddalena penitente” (particolare)

Nel resoconto di padre Franco, Juan Tomàs aveva portato a Lisbona anche 26 quadri dei Bassano (sui 90 registrati nel 1691): uno dei quali potrebbe essere quello denominato “I Cambiavalute”, ora attribuito a Leandro Bassano. I 22 dipinti di Rubens, secondo la lista di padre Franco, suggeriscono che Juan Tomàs nel suo esilio portò con sé tutti i quadri che possedeva del maestro fiammingo (tra essi “Venere, Marte e Cupido”, forse quello ora alla Dulwich Picture Gallery di Londra).

“I Cambiavalute”, adesso attribuito a Leandro Bassano

Tra i quadri di Rubens appartenenti alla collezione Castiglia (così infatti è denominata la collezione degli Enriquez dagli studiosi) ed identificati abbiamo un “Cristo Infante e San Giovanni Battista con due angeli. Gli altri sono “Andromeda legata alla roccia” (ora alla Gemäldegalerie, Berlino), “Un paesaggio autunnale con vista dell’Het Steen” e “Un trionfo romano” (entrambi oggi alla National Gallery di Londra), “Marte e Venere” (oggi al Palazzo Bianco, a Genova) e il quadro citato sopra “Venere, Marte e Cupido”. Inoltre, la collezione conteneva 10 ritratti, due di filosofi e una scena mitologica con Nettuno. Uno dei ritratti, allora descritto come un “Ritratto di Cardinale”, è il “San Gerolamo” di Vienna (foto 7).

“Ritratto di Cardinale”, Peter Paul Rubens

Tra i quadri certamente provenienti dalla collezione Castiglia ed oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna è la cosidetta “Allegoria della Vanità” dell’artista madrileno Antonio de Pereda y Salgado (1611-1678), nota anche come “Desengaño de la vida”, che fu ereditato nel 1691 da Juan Tomàs da suo padre. «Allora era appeso nella galleria dedicata ai quadri di eminenti Spagnoli, la Pieza de Españoles, e viene descritta in dettaglio ed ha una stima alta nell’inventario di quell’anno. In esilio, in disgrazia e contemplando il suo incerto destino, l’ultimo Almirante avrebbe trovato un pungente significato nella Allegoria della Vanità, un’eloquente immagine della effimera natura del potere terreno. Il magnifico angelo con le ali spiegate che sovraintende ai simboli della ricchezza della vita terrena e ai simboli della morte contiene un ritratto-cammeo dell’imperatore Carlo V, e per Juan Tomas la presenza dell’Asburgo avrebbe avuto un profondo significato personale» (Delaforce).

Un altro dipinto potrebbe essere il “San Giovanni bambino e l’Agnello”, ora considerato un’opera di Murillo (1618-1682), mentre del maestro spagnolo Pedro de Orrente (1580-1645) sarebbe il “Cristo al lazzaretto di Bethesda”. A Vienna dal 1720 sono anche presenti altri dipinti, probabilmente acquistati a Napoli da Juan Alfonso tra il 1644 ed il 1646: due del pittore Agostino Beltrano (1607-1656), un discepolo e seguace di Massimo Stanzione (1585-1656): uno rappresenta “Alessandro il Grande”, a cavallo del suo Bucefalo, l’altro “Il trionfo di David”; il terzo, “Il martirio di Sant’Orsola” è del napoletano Scipione Compagno (attivo tra il 1636 ed il 1664).

“San Giovanni bambino e l’Agnello”, adesso considerata opera di Murillo

Passò un decennio prima che i quadri dell’Almirante di Castiglia Conte di Modica lasciassero il Portogallo per il loro viaggio verso Vienna. La ragione del ritardo non è nota, ma potrebbe essere stata connessa alla loro sicurezza in mare in tempo di guerra (la guerra di Successione durò fino al 1714), mentre secondo alcune altre fonti ci sarebbe stato un tentativo della Corte portoghese di trattenerli. Infatti solo il 19 luglio 1715, quattro anni dopo che l’arciduca Carlo era salito al trono imperiale col nome di Carlo VI, padre Cienfuegos partì da Lisbona – via Inghilterra – con i quadri per l’imperatore di Germania.

“Cristo al lazzaretto di Bethesda”, Pedro de Orrente

La Delaforce infine si chiede perché solo così pochi dipinti possano essere identificati fra i circa 200 quadri che, come si è detto, rimanevano della collezione dell’Almirante di Castiglia. Il problema è se e dove questi quadri furono custoditi in Inghilterra durante il loro viaggio, e quando e come essi finalmente arrivarono a Vienna, dove furono sistemati nella galleria della Hofburg fatta predisporre appositamente. Di tutti i quadri fu fatto un catalogo dipinto, opera di Ferdinand Storffer, di cui il pittore napoletano Francesco Solimena (1657-1747) immortalò nel 1733 la presentazione a Carlo VI.

“Il martirio di Sant’Orsola”, Scipione Compagno

La partenza da Lisbona salvò questi quadri per la posterità. Se fossero stati trattenuti dalla Corona portoghese, sarebbero stati distrutti nel tremendo terremoto, tsunami e incendio che 40 anni più tardi, il 1° novembre 1755, distrusse il Palazzo della Riviera e ciò che c’era dentro, insieme con tutta la città di Lisbona. Se politicamente amara fu la sorte di Juan Tomàs Enriquez de Cabrera, lo splendore dei resti della collezione di quadri della famiglia Enriquez ancora oggi illumina i musei europei ed in particolare il Prado di Madrid e il Kunsthistorisches Museum di Vienna. E tanto basta per dare torto al Marchese di Villabianca e a Raffaele Solarino

1733. “La presentazione a Carlo VI”, Francesco Solimena

di Paolo Monello

Si è già detto che nel Consiglio di Stato sedeva anche l’Almirante di Castiglia, Conte di Modica, Juan Tomàs Enriquez Cabrera (1646-1705), considerato dagli storici locali (da Solarino in poi) come “traditore”.

In verità – come ho già avuto modo di sottolineare – dopo aver combattuto per decenni contro la Francia di Luigi XIV, trovarsi un suo nipote sul trono di Spagna fu cosa assai indigesta per molti nobili spagnoli. E Juan Tomas fu uno di quelli che considerarono la cosa insopportabile. Ma vediamo di sapere cosa gli successe.

Juan Tomàs Enriquez Cabrera (1646-1705), Conte di Modica

Il 13 settembre 1702, il Conte di Modica don Juan Tomàs Enriquez de Cabrera aveva lasciato Madrid, con un seguito di 300 persone e 150 carri, di cui 38 pieni di mobili, biancheria, vasellame prezioso, gioielli, arazzi, tappezzerie e almeno 200 fra i quadri migliori della sua collezione (nel maggio 1701 ne aveva donati 140 al convento di Valdescopezo, dove erano sepolti dal 1477 numerosi esponenti della famiglia Enriquez).

La destinazione era Parigi, dove l’Almirante avrebbe svolto il ruolo di ambasciatore presso Luigi XIV, nonno del nuovo Re di Spagna Filippo V di Borbone. In verità i rapporti tra gran parte della nobiltà spagnola ed il nuovo Re dopo i primi mesi si erano guastati.

Filippo V di Borbone, Re di Spagna

Seguendo le disposizioni di Luigi XIV (che almeno fino al 1709 controllò il governo spagnolo del nipote), numerosi nobili spagnoli furono allontanati dai posti di responsabilità e sostituiti con francesi. Ma il caso dell’Almirante fu emblematico e lo avrebbe consegnato alla storia. Infatti, pur avendo giurato fedeltà al nuovo sovrano, il Conte di Modica – come capo riconosciuto del “partito austriaco” (la regina vedova era stata confinata a Toledo) – fu oggetto dei sospetti di Luigi XIV e della ostilità del Cardinale Portocarrero (forse al soldo di Luigi XIV, che aveva “convinto” Carlo II morente a designare suo erede il giovane parente francese). Il quale, subito dopo l’arrivo di Filippo V a Madrid nel febbraio 1701, lo privò delle cariche a Corte e degli incarichi di governo precedentemente ricoperti.

Luigi XIV, Re di Francia

Fra le prime disposizioni date a suo riguardo da Luigi XIV era quella di allontanarlo da Madrid, anche nominandolo ambasciatore a Parigi, un’idea che rimase silente per circa un anno prima di prendere forma nell’aprile 1702. Infatti, prima di partire per l’Italia, Filippo V lo nominò ambasciatore straordinario a Parigi, ma Portocarrero lo declassò ad ambasciatore ordinario con la riduzione di un terzo del compenso e non ci fu verso di costringerlo a rispettare la disposizione del Re.

Umiliato, don Juan Tomas prese la decisione che maturava da tempo, anche perché la situazione internazionale era mutata. Nel maggio 1702 infatti Inghilterra, Olanda e Austria avevano dichiarato guerra alla Francia, dopo che Luigi XIV aveva tradito il trattato di ripartizione del marzo 1700 (l’ennesimo fatto alle spalle della Spagna) e aveva occupato le Fiandre spagnole, auspicando che Francia e Spagna si unissero sotto un’unica corona.

Il Cardinale Portocarrero

Inoltre Filippo V aveva concesso l’esclusiva della tratta degli schiavi neri ad una compagnia francese: era così scoppiata la prima guerra del XVIII secolo, passata alla storia come Guerra di Successione spagnola (1702-1714). Pertanto si costituì un’alleanza a sostegno del pretendente austriaco al trono di Spagna, l’Arciduca Carlo, cui il padre Leopoldo ed il fratello Giuseppe avevano trasferito i loro diritti (si disse allora che per convincere l’imperatore Leopoldo determinante era stato proprio Juan Tomas).

Per poter realizzare il suo proposito di riacquistare la sua libertà d’azione, il conte di Modica finse di accettare la nomina di ambasciatore ordinario a Parigi e chiese l’autorizzazione ad accendere nuovi prestiti per far fronte alle spese: ancora una volta i beni liberi della Contea di Modica (come fossero un odierno bancomat) gli fecero da garanzia per avere pochi giorni prima di partire due prestiti, il primo di 26.800 scudi e il secondo di 12.000 scudi.

L’Arciduca Carlo D’Asburgo, poi Imperatore Carlo VI

Per il suo piano, chiese alla regina reggente Maria Luisa di Savoia anche una lettera di raccomandazione per Luigi XIV, lasciando a Madrid un corriere che gliela portasse appena scritta dalla regina e partì, dirigendosi a nord, con il suo corteo, di cui facevano parte anche il medico personale e tre padri gesuiti, fra cui il suo maestro Álvaro Cienfuegos, autore di una sua breve biografia premessa alla vita di San Francesco Borgia (1726) e fedele seguace dell’Arciduca poi imperatore Carlo VI.

All’altezza di Medina de Rioseco però deviò dal cammino verso Parigi, con la scusa di incontrare il fratello Luis (sposato con una discendente della famiglia reale Inca) e il nipote don Pascual Enriquez: quindi si fermò a Tordesillas, anche per aspettare la lettera della regina. Quando gli arrivò, la sostituì con un’altra, e la lesse davanti a tutti dicendo che la regina gli aveva ordinato di passare in Portogallo come ambasciatore straordinario per trattare con il Re Dom Pedro II un’alleanza o almeno la neutralità.

Dom Pedro II, Re del Portogallo

Insomma, fuggì in Portogallo, dove chiese asilo e prese subito contatto con l’ambasciatore imperiale, mettendosi a disposizione della “augustissima Casa d’Austria”. La scelta di Juan Tomas impressionò tutti. Persino Luigi XIV, pur ordinandone l’estradizione e la punizione, fu colpito dall’agire di un uomo che per fedeltà ad una causa era disposto a perdere tutto.

Infatti immediatamente fu ordinato di processarlo per tradimento, disobbedienza, falsificazione di lettere della regina e si ordinò il sequestro di tutti i suoi beni spagnoli e siciliani (cioè la Contea di Modica e le baronie di Alcamo e Calatafimi). La rottura non poteva essere più totale ed infatti, dopo un processo segreto (in cui testimoniò anche il nipote don Pascual, fuggito a sua volta dal Portogallo dopo aver seguito lo zio, ignaro dei suoi piani), nell’agosto 1703 l’Almirante fu condannato a morte, mentre tutti i suoi beni venivano man mano confiscati.

I castelli in Sicilia dei Conti di Modica. (Sopra) quello di Alcamo, (sotto) quel che rimane di quello di Modica distrutto dal terremoto del 1693

Juan Tomas fu così colpito da una tremenda “damnatio memoriae”, che si materializzò con l’ordine di togliere i suoi ritratti dal Duomo di Milano (di cui era stato governatore per 9 anni) e con la distruzione, secondo Villabianca, degli stemmi degli Enriquez Cabrera nella cappella del Castello a Modica, dove le sepolture erano adorne di «…iscrizioni, quali oggi si veggono cancellate per ordine del Governo sul principio del secolo presente decimo ottavo insieme con tutte le altre più antiche, e moderne di tutti i Conti di Modica a motivo del partito Austriaco, che abbracciò in detto tempo il Conte Gio. Tommaso Enriquez…».

La Contea di Modica nel XVII sec. e gli stemmi della famiglia Enriquez

In un primo tempo lo si era solo condannato all’esilio, ma dopo che gli si attribuì la responsabilità di aver convinto il re del Portogallo ad entrare nell’Alleanza contro Filippo V, gli si comminò la pena di morte. Dopo la condanna, l’Almirante pubblicò un Manifesto politico che fece molto scalpore anche all’estero (fu tradotto e stampato in inglese), in cui, riaffermando la sua lealtà e devozione agli Asburgo e al ramo austriaco, spiegava le ragioni della sua scelta, accusando il Duca D’Angiò (mai chiamato “Re”) di aver asservito la Spagna alla Francia, additando il Cardinale Portocarrero e il suo circolo come coloro che avevano plagiato il morente Carlo II a favore del nipote di Luigi XIV.

Manifesto politico in cui don Juan Tomàs Enriquez Cabrera riaffermando la sua lealtà e devozione agli Asburgo spiegava le ragioni della sua scelta

Accusava in particolare Portocarrero di aver falsificato il testamento dell’ultimo degli Asburgo spagnoli con l’aggiunta della clausola dell’obbligo delle nozze tra il nuovo Re ed una Arciduchessa austriaca, proposta peraltro respinta dall’Imperatore Leopoldo (in seguito l’Almirante scrisse anche i testi dei proclami dell’Arciduca e del Re del Portogallo).

Nella complicata vicenda della guerra, Juan Tomàs giocò un ruolo assai importante, agendo come un vero e proprio inviato dell’imperatore, riuscendo a far passare il Portogallo dalla neutralità al fronte della Lega. Convinse anche Leopoldo a mandare suo figlio, incoronato Re di Spagna a Vienna nel settembre 1703 col nome di Carlo III, a Lisbona per guidare l’attacco alla Spagna.

Guerra di successione. L’assedio di Barcellona (1706) con la flotta anglo-olandese che obbligò i borbonici di Filippo V a ritirarsi dalla città

Il giovane raggiunse Lisbona nel marzo 1704. Ad accoglierlo Juan Tomàs, che fu nominato Generale della Cavalleria. Ma anche nel circolo dell’Arciduca a Lisbona non mancavano i contrasti e sulla strategia da seguire l’Almirante fu messo in minoranza (diceva che nel circolo di Carlo tre soli ragionavano: l’Arciduca, il nano ed il cavallo…).

Juan Tomàs Enriquez de Cabrera, in un primo tempo spalleggiato dagli Inglesi (che avevano approfittato della situazione per impadronirsi di Gibilterra), proponeva di invadere la Castiglia dall’Andalusia. Prevalse invece la linea d’attacco alla Catalogna, che si pensava si sarebbe sollevata contro Filippo V. Ma Juan Tomàs non era destinato a vedere la fine della Guerra di Successione.

La cartina politica d’Europa di inizio ‘700

Infatti subito dopo quel consiglio di guerra in cui era stato messo in minoranza, il 29 giugno 1705 morì all’improvviso ad Estremoz, all’età di 59 anni, forse per un ictus. La sua morte fu salutata con piacere a Madrid e a Parigi, dove alcuni ministri di Luigi XIV avevano pensato anche di farlo uccidere a Lisbona…). Il re del Portogallo, Dom Pedro II, si occupò delle sue esequie e l’Almirante fu sepolto nella cappella maggiore del convento di San Francisco ad Estremoz.

Il convento di San Francisco nella città portoghese di Estremoz, dove fu seppellito don Juan Tomàs Enriquez Cabrera nel 1705

di Giuseppe Cultrera

Un luparo un pastaio e un fabbricante di chitarre nella Modica di inizio seicento.

Mastro Angelo Dompino «in questo Contado esercita di molti anni a questa parte l’esercitio di luparo». Ne dà ulteriore conferma, in qualità di testimone, Ippolito lo Toso che «conoxi ad Angilo Dompino, lo quali Angilo è luparo che con la sua industria et arti piglia et auccidi et amacza lupi».

Lo desumiamo da una richiesta di franchigia presentata al Barone Giuseppe Grimaldi, Maestro Razionale, il 16 luglio 1632.

Un luparo un pastaio e un fabbricante di chitarre
Petizione del luparo Angelo Danpino (a sinistra) e lettera del pastaio Marzio Lo Boi (a destra)

Produceva maccheroni e tagliatelle, mediante un pastificio artigianale mastro Martio Lo Boi. È lui stesso a dichiarare, il 13 dicembre 1641, di «esercitare l’arte di vermisellaro e maccarronaro; la quale arte non fa nessuno in questa città di Modica». La dichiarazione tendente ad avere “agevolazioni fiscali” data l’esclusività del prodotto, viene comprovata dal notaio Laurenzio de Gianchino di Modica: «Mastro Martio Lo Boi allo presente esercita un’arte sola di vermicellaro, facendo vermicelli e maccaroni con lo conso, la quale arti al presente in questa città di Modica non vi è altra persona che la esercita».

Un luparo un pastaio e un fabbricante di chitarre
Il maccaronaro, stampa popolare

Infine, mastro Ippolito Antuna nell’istanza del 10 febbraio 1641 indirizzata al mastro razionale Peluso di Modica, chiede delle franchigie in virtù della professione rara e utile esercitata. Difatti «opera et exercita l’arte sua di chitarraro facendo et vendendo chitarri, calaciuni [strumento musicale a due corde] et altri instrumenti concernenti a detta arte».

Un luparo un pastaio e un fabbricante di chitarre
Testimonianza a favore del chitarraro Ippolito Antuna

Quelle che oggi appaiono curiosità e che emergono dalle carte polverose dell’Archivio Storico di Ragusa (sez. Modica) sono invece testimonianze della vivacità socio-economica dell’antica Contea e specialmente del suo centro, Modica; frammenti di storia e vita che indagò, fra gli altri, il prof. Giuseppe Raniolo (1918 – 2010) e che ci ha consegnato, copiose e filologicamente collazionate, nel suo “Introduzione alle consuetudini ed agli istituti della Contea di Modica (1987). Personaggio solare e comunicativo, mite quanto dinamico, ha speso gran parte della sua vita di pensionato in ricerche storiche sulla Contea di Modica e specialmente sui “riveli”. Ricordarlo, attraverso alcuni frammenti “curiosi” tratti dalle sue ricerche è anche un modo di dirgli grazie per il suo appassionato lavoro di ricerca, per la sua signorilità e affabilità; e pure un invito a rileggere le sue opere.

Un luparo un pastaio e un fabbricante di chitarre
Alcune pubblicazioni del professore Giuseppe Raniolo