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di Vito Castagna 

Il giornalismo di Giangiacomo Schiavi è peripatetico, nel senso che è sempre in movimento. È un servizio votato alla cronaca e dal 1987 trova spazio tra le pagine del Corriere della Sera, il noto giornale del quale Schiavi è stato vicedirettore dal 2009 al 2015. Affermatosi nel ruolo di capocronista della redazione di Milano, ha pubblicato diversi libri, tra gli ultimi “Scoop! Quando i giornalisti fanno notizia” (Antiga edizioni, 2022) e “Il genio ribelle. Luigi Illica, una vita da Bohème” (Fondazione Donatella Ronconi Enrica Prati, 2023). Per Schiavi il buon giornalismo non va cercato lontano: “Può essere anche trovato dietro casa o nel proprio condomino”. 

Giangiacomo Schiavi
Giangiacomo Schiavi

Qual è lo stato di salute del giornalismo?

“È pessimo. Il giornalismo è diventato disinvolto e disattento, ha perso credibilità e di questo non bisogna incolpare solo i giornalisti, dato che è cambiata la dead-line. Prima si aspettava il giornale per sapere quello che era avvenuto il giorno prima, oggi, invece, le notizie si aggiornano di continuo. Noi giornalisti dobbiamo ripensare il giornalismo”. 

Come può avvenire questo cambiamento?

“Dovremmo ripristinare un giornalismo utile al cittadino. Dobbiamo uscire dai canali tradizionali e percorrere una via nuova, che io chiamo giornalismo costruttivo, cioè un giornalismo in grado di cambiare in meglio le cose. Per fare questo dobbiamo riappropriarci della credibilità e dell’umiltà”. 

Una stampa attiva e propositiva, quindi. 

“Esattamente. Rispetto all’intelligenza artificiale, noi possiamo trasmettere emozioni, sentimenti, possiamo guardare e portare una visione utile alle persone. E ciò può accadere solo con un ritorno al giornalismo da marciapiede, fatto con la suola delle scarpe, camminando, sudando, faticando e facendo delle domande.

Giangiacomo Schiavi
L’ultimo editoriale di Schiavi su “scarp de’ tenis”, progetto giornalistico e sociale per persone disagio sociale e senza dimora. Esempio di giornalismo utile ed empatico (foto: scarp de’ tenis)

Il Covid e la Guerra in Ucraina hanno dimostrato quanto credibilità e umiltà appartengano a molti giornalisti. Crede che questi esempi virtuosi non siano in grado di redimere la categoria?

“Ci sono giornalisti straordinari che possono solo essere ammirati per il loro coraggio. Ben diversi sono coloro che si sono piegati al dibattito televisivo, trasformandosi in tifosi di parte. Ad ogni modo, quello che più declina malamente la categoria è il giornalismo sedentario e impiegatizio”. 

Nel 2022, ha scritto “Scoop! Quando i giornalisti fanno notizia”, un compendio di anteprime sensazionali che hanno segnato la storia d’Italia. Cos’è per lei Scoop?

“È un omaggio, una memoria di carta, una traccia di un mestiere che viene da lontano ma che è ancora valida al tempo di Internet. È il ricordo di giornalisti che hanno pagato il loro coraggio con la vita, come Tobagi, Siani, Cutuli. In Scoop si parla anche dei capisaldi del nostro giornalismo, di Montanelli, Biagi, Pansa, e di Besozzi, il capostipite di tutti gli scoop, con la sua controinchiesta sulla morte del bandito Giuliano dal famoso titolo “Di sicuro c’è solo che è morto”. 

Copertina di Scoop! (a sx); Maria Grazia Cutuli, giornalista assassinata in Afghanistan (a dx)

Perché ha deciso di concludere il lungo viaggio di Scoop nel 2013? 

“Ho voluto terminare il mio libro con uno scoop apparentemente semplice. In verità, credo sia tra quelli più belli e nobili che ho scelto. Durante l’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI, Giovanna Chirri è stata la prima giornalista a dare la notizia che il papa non avrebbe più potuto svolgere le sue funzioni. Lei, avendo fatto il classico, aveva subito capito il latino del pontefice a differenza di altri. Sudava freddo e tremava, chiedendosi se avesse tradotto bene. Poi scrisse il titolo “Il papa si è dimesso”. Scoppiò una bufera mondiale”. 

Si potrebbe dire che il suo libro è una tirata d’orecchie alla stampa odierna? 

“Scoop è certamente un richiamo al giornalismo di oggi, ma non solo. È soprattutto un atto d’amore nei confronti di una professione che vorremmo fosse fatta con etica, onestà e serietà”.

L’ultima intervista a direttori e vicedirettori di testate nazionali: In che direzione va il giornalismo? con Michele Brambilla, ex direttore del Quotidiano Nazionale. 

di Andrea Biglia

Con i trentaquattro anni di “Corriere della Sera” per buona parte a raccontare i più tormentati fronti di guerra, la cronaca ora gli va un po’ stretta. Chissà: quel sangue siciliano carico di storia e storie che corre nelle vene, la vita avventurosa oltremare di nonno Rocco da Messina e nonna Concetta, il padre Salvatore, “Succio”, volontario nel conflitto Etiopia-Eritrea poi con cartoleria ad Addis Abeba, e infine lui, nato a Milano, che approda, molto giovane, nel tempio del giornalismo di via Solferino.

Già tre anni fa Andrea Nicastro con la collega Francesca Mineo – cognome che non lascia dubbi su radici altrettanto sicule – aveva portato in teatro “Gli Altri: storie di burqa, amore e rabbia nel secolo del jiad”. Trasferiti in azione scenica tempi cruciali seguiti da inviato del giornale in un continente islamico nella piena bufera delle guerre intestine, gli assalti terroristici contro l’Occidente, rigurgiti colonialisti, traffici internazionali di armi e droga, dittature spietate, diritti umani calpestati, sciiti contro sunniti, una religione manipolata dagli interessi delle fazioni.

Andrea Nicastro (foto rtl.it)

Adesso nel suo nuovo libro, “L’assedio – Il romanzo di Mariupol” (Solferino), lo scenario si sposta più a nord. E con il suo taccuino di cronista che ha registrato, passo dopo passo, i tragici 82 giorni che hanno visto stringersi il cappio dell’armata russa sull’ultimo baluardo libero ucraino del Donbass, Nicastro, lo dice il titolo, si cimenta in un’altra prova: non il classico reportage ma quella storia riscritta in forma di romanzo, come spiega la prefazione (in materia non mancano precedenti illustri). Plasmare cioè tanti drammi raccolti in diretta o dalla voce di testimoni – bombardamenti, distruzioni, terrori, morti abbandonati per strada, gente che si rifugia come topi nei sotterranei dell’acciaieria, gelo, fame, eroismi e viltà, amori e illusioni, odi e doppi giochi – come il racconto al nipotino, settant’anni dopo, di una nonna, Alina, scampata a quell’inferno dopo indicibili peripezie.

Mariupol martoriata dai bombardamenti (foto Wikimedia)

Ivan, Olena, Pavel, Olga, Ylenia, Serzas e tanti altri personaggi che popolano le 268 pagine sono allora i nomi in cui si raccolgono pezzi di decine di vicende coordinate tra loro con qualche guizzo di immaginazione. Nel 2092, anno in cui si data il libro, l’Andrea Nicastro romanziere può permettersi questi lussi senza tradire l’Andrea Nicastro fedele cronista del febbraio 2022, quando era finito nella trappola dell’assedio di Mariupol, la tenaglia dei carri armati russi ormai a pochi chilometri, senza scorte né equipaggiamento e senza che i colleghi reporter in fuga gli offrissero un passaggio sui loro mezzi. È stata una non meglio identificata “signora in rosso”, ricorda, ad aprirgli la portiera dell’utilitaria portandolo via in extremis prima che la città cadesse nelle mani degli aggressori. “Una magia”, sottolinea l’autore. Qualche volta capita.

L’acciaieria di Mariupol, teatro dell’ultimo tentativo di resistenza ucraina (foto open.online)

Sotto l’incalzare dei tragici eventi i personaggi del libro rivelano la loro autentica identità umana. L’ufficiale medico Veronika che non può abbandonare i feriti nell’improvvisato ospedale sotterraneo e, prima che il cerchio di fuoco degli assedianti si chiuda, affida a un’operaia la figlioletta, Alina appunto, perché la conduca di nascosto in un orfanatrofio della Russia profonda dove la piccola per dieci anni dovrà dimenticare di essere ucraina, una “nemica”.. Pavel, il panettiere della Donetsk già conquistata dai russi, che non esita a schierarsi con le truppe di Mosca convinto dalla propaganda putiniana che i resistenti di Mariupol siano “nazisti” senza ricredersi quando scopre che due suoi commilitoni hanno violentato la sua Natalia.

Ma quando dalle cannonate si passa al fucile, al corpo a corpo per le strade cittadine e vedi in faccia il nemico che devi uccidere un bagliore gli illumina la coscienza: questa non è più guerra, ma lotta fratricida. Caino contro Abele. La corsa di Olga intirizzita da pioggia e gelo sotto un cielo che sputa fuoco verso la casa dei genitori dell’ex marito in una zona più protetta. Masse di disperati uniti dalla zuppa calda offerta nelle cantine dai volontari ma divisi tra chi, sfoderando l’orgoglio degli antichi cosacchi che avevano qui la base navale, vuol resistere a tutti i costi e chi non ci sta: tanto la Russia ha vinto anche contro Napoleone e Hitler.

Donetsk. (Sopra) La prigione distrutta di Olenivka. (Sotto) La stazione ferroviaria bombardata (foto euronews.com e agenzianova.com)

E poi Ivan, al quale è dedicata una particolare attenzione. Un ragazzo con le sue naturali contraddizioni che aveva cominciato ad assaporare il gusto di un mondo nuovo quando nella vecchia città mineraria erano arrivate l’università, i computer e i locali dove ascoltare il rock. Poi tutto crolla. La famiglia in preda ai dissidi, il padre ingegnere, asciutto nel fisico e nella mente razionale mentre lui, troppo fragile, “abbonda in tutto”. Cercare di fuggire, restare? Ivan, dopo l’ennesimo bombardamento, finisce per trovarsi sdraiato su una barella e sente un medico, che lo ritiene assopito, riferire al cellulare di un suo paziente in condizioni gravissime. È lui quel paziente? E ricordandosi di una serie tv americana si tasta il polso per sentire se è ancora vivo.

Bambini rifugiati nei sotterranei delle acciaierie di Mariupol

In alcune pagine particolarmente intense il lettore attento può cogliere citazioni da importanti romanzi russi come là dove nonna Alina richiama al nipote un passo di “Guerra e Pace”, la disfatta della campagna francese nell’impero russo con il ritiro disordinato dei soldati non più disposti a ubbidire agli ufficiali che imponevano di tenere duro: “quella esitazione morale che decide le sorti delle battaglie”. Preannuncio di una prossima ingloriosa fine dell'”operazione speciale” di Putin in Ucraina?

Già, i romanzi russi. È proprio nella lettura di Tolstoi, Gogol e di altri grandi di quella cultura – qui il romanzo spicca definitivamente il volo dalla cronaca – che Alina, negli anni della segregazione in orfanotrofio dove doveva dimenticare anche la sua lingua, scopre le ragioni profonde dell’anima che superano le distinzioni di nazione, di cultura, di interessi e che ora, cioè nel 2092, cerca di trasmettere al nipote al quale però è vietato imparare il russo come lei, allora, non doveva parlare ucraino.
L’autore sembra lasciare intendere che fra settant’anni, anche se le armi taceranno, le barriere d’odio non saranno rimosse. A meno che una magia… Anche il romanzo, spiega il filosofo Renè Girard, ha una verità vera.