di Paolo Monello
Mentre l’Arcivescovo di Palermo, don Fernando Bazan, esponeva il suo pensiero sulle cause morali di religiosi e non, che avevano a suo dire provocato l’ira di Dio contro gli sventurati abitanti della parte orientale del Regno ed in particolare del Val di Noto; il Viceré don Francisco Pacheco Duca di Uzeda (a cui i Catanesi intitoleranno la porta sul mare all’inizio di via Etnea) e gli uomini della sua cerchia (il segretario don Felix de la Cruz Haedo, il Vicario Generale don Giuseppe Lanza Duca di Camastra ed i tre Commissari Generali don Giuseppe Asmundo, don Giovanni Montalto e Scipione Coppola) miravano invece a ricondurre il fenomeno alla natura dei luoghi, individuando subito una “causa meccanica”: il Mongibello.

Ed il vulcano infatti sarà al centro della nutrita corrispondenza tra il Viceré e la Corte di Madrid, conservata nell’Archivio General de Simancas. In merito a questa documentazione, ho avuto modo di leggere nel preziosissimo volume pubblicato nel 2014 dalla Bononia University Press intitolato “L’Etna nella storia. Catalogo delle eruzioni dall’antichità alla fine del XVII secolo”, che solo nel 2007 le carte di Simancas – esaminate da Emanuela Guidoboni ed altri – avrebbero consentito per la prima volta di avere un quadro di eruzioni dell’Etna prima sconosciute nel periodo dei terremoti del 1693-94.

Senza alcuna pretesa di “primogenitura” e con tutto il rispetto dovuto agli scienziati – seppure personalmente privo di cultura scientifica – ne avevo già parlato nel 1994 pubblicandone degli estratti nella ricerca intitolata “Gli uomini e la catastrofe”, traendone guarda caso la stessa deduzione che gli autori del volume ricavano con le seguenti parole: «Scarsamente nota in vulcanologia, l’attività eruttiva – tra il 1693 ed il 1696 – emerge da numerose fonti, di cui 76 manoscritti inediti, la maggior parte corrispondenze istituzionali, contenenti brevi ma puntuali riferimenti al vulcano, un vero sorvegliato speciale: la sua attività eruttiva era interpretata come una valvola di sfogo dei terremoti, quindi “monitorata” anche con ispezioni specifiche sul luogo».

Dell’attività amministrativa del Duca di Uzeda come Viceré (1687-1696) si sono occupati Giuseppe Tricoli (“Un periodo del governo spagnolo di Sicilia nella relazione del viceré Uzeda”) e Giuseppe Giarrizzo (“La Sicilia dal viceregno al regno”, in “Storia della Sicilia”, 1978), ma spesso si fa riferimento ai giudizi negativi espressi su di lui da antichi scrittori come Vincenzo Auria e Giovanni Evangelista Di Blasi, che lo hanno definito più interessato all’arte ed alle scienze che agli affari di governo. Ma proprio i riferimenti alla sua passione per le scienze, mi consentono di dire che il Duca di Uzeda fu l’uomo giusto al posto giusto e che senza la sua cultura le cose per la Sicilia sarebbero andate peggio.

Nei confronti del nuovo Re di Spagna Filippo V di Borbone (nipote di Luigi XIV), Juan Francisco Pacheco V Duca di Uzeda fece in parte il percorso dell’Almirante di Castiglia e Conte di Modica don Juan Tomás, con la differenza però che mentre l’Enriquez si schierò quasi da subito con il pretendente austriaco Arciduca Carlo, il Duca di Uzeda passò dalla parte dell’Asburgo nel 1711 (dopo che questi era diventato imperatore), rifugiandosi prima a Genova e poi a Vienna, dove morì. Con il conte di Modica condivise però la passione per l’arte (possedeva quadri di Mantegna, Del Sarto, Carracci, Brueghel, Caravaggio, Vasari, Tintoretto, Mattia Preti, Guido Reni ed altri numerosi pittori in gran parte italiani, ed anche disegni di Leonardo e Velazquez), ma rispetto all’Enriquez possedeva in più una biblioteca di 4000 volumi ed era un appassionato di opere in musica di vari compositori dell’epoca (tra cui anche Alessandro e Domenico Scarlatti).

Pertanto, quando l’Arcivescovo Bazan lamentava la messa in scena di spettacoli musicali a tarda ora (che a suo avviso accrescevano l’immoralità, provocando “l’ira di Dio”) ce l’aveva proprio con il Duca di Uzeda. Il quale, secondo un recente studio della dottoressa Anna Tedesco, nel suo soggiorno palermitano fece rappresentare (nel teatro della Marina, a Bagheria e a Messina) almeno 18 opere, una delle quali il 28 ottobre 1693 (in piena crisi sismica) intitolata “L’innocenza penitente”.

Lo storico Di Blasi lo accusò di avere spogliato la Sicilia delle opere d’arte più rare (pitture, statue, reperti archeologici) e dei manoscritti più preziosi. In verità, gran parte della biblioteca, secondo Auria, il Duca l’aveva portata a Palermo dalla Spagna ed in essa c’erano numerosi trattati scientifici e di matematica (tra cui un’opera di Archimede). Vero è, però, che portò con sé in Spagna (nel 1696) i manoscritti greci lasciati alla città di Messina da Costantino Làscaris. Questi, fuggito in Italia a seguito della caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453 si era stabilito a Messina nel 1467, insegnando nella scuola di greco istituita presso il convento basiliano di San Salvatore, per la cui cattedra pubblicò una grammatica greca. Grazie al Làscaris ed alla cerchia di studiosi che creò attorno a sé, Messina poté disporre di una invidiabile collezione libraria.

Per avere un’idea, è sufficiente accennare che tra i 500 manoscritti che lasciò a Messina abbiamo Omero, Erodoto, Platone, Aristofane, Senofonte, Demostene, Aristotele, Isocrate, Euripide ed altri. Ma dopo la rivolta del 1674-1678, Messina fu ferocemente punita dal Viceré, Conte di Santo Stefano, con la distruzione del Palazzo Reale e il sequestro di ben 1426 antiche pergamene (di cui 250 in greco) contenenti i privilegi della città e delle biblioteche del Senato e della Cattedrale, compresi i preziosi codici greci appartenuti a Làscaris. Al momento di passare le consegne nel giugno 1687, il Conte di Santo Stefano lasciò i libri ed i codici al Duca di Uzeda, che li custodì nel Palazzo Reale e poi li portò con sé in Spagna. Oggi si trovano nella Biblioteca Nacional. Non sarebbe il caso di restituirli a Messina?

Pertanto, non ci deve meravigliare che tra le numerose lettere inviate da Uzeda a Madrid, il Viceré metta sempre in correlazione le notizie delle nuove scosse con l’attività eruttiva o meno del Mongibello, dimostrando così di conoscere a pieno le teorie “fuochiste” sulle origini dei terremoti, divulgate dal gesuita Athanasius Kircher ed in Sicilia condivise professate e divulgate da Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) ed in ultimo dal protomedico Domenico Bottone (1641-1726), del quale non a caso si riscontra una lettera del 20 gennaio 1693 in cui il medico-scienziato, autore nel 1692 della “Pyrologia topographica”, aveva analizzato tutte le manifestazioni del fuoco.

L’Etna costituiva una “valvola di sfogo” per i fuochi interni che dal centro della terra o da altre sorgenti sotterranee, bruciando ed esplodendo senza avere da dove uscire, provocavano i terremoti. Le eruzioni “garantivano” che i fenomeni rimanessero sotto controllo. Tale teoria fu ulteriormente discussa da Bottone nella relazione elaborata nel 1693 per la Royal Society di Londra, stampata a Messina nel 1718 (testo che si trova nella Biblioteca Regionale ma che possiedo in copia pervenutami appunto da Londra). Questa concezione, diffusa certamente meno della spiegazione dell’”ira di Dio”, è presente in molte comunicazioni tra i funzionari locali e Uzeda e tra Uzeda e la Corte.

Comunque, che la lettera dell’Arcivescovo Bazan fosse un po’ provocatoria e che la teoria del gesuita Kircher fosse nota ed accettata all’interno della Chiesa è dimostrato anche dalla lettera del 6 febbraio 1693 inviata dall’Inquisitore di Malta Francesco Acquaviva al Segretario di Stato Cardinale Spada in cui, in riferimento ai danni ed al numero delle vittime di Catania, il religioso scrive che «dal Mongibello non si vedeva uscir tal fuoco che gli havesse potuto render sicuri da nuovi accidenti».
Accenneremo, nel prossimo articolo, ai passi più interessanti relativi alle eruzioni dell’Etna contenuti nelle lettere del Viceré, Duca di Uzeda, ai Consigli d’Italia e di Stato.
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Immagine banner: veduta del teatro greco-romano di Taormina, Pietro Fabris, 1779 (da didatticarte.it)