di Luigi Lombardo
Il passaggio definitivo allo stadio di civiltà, in età neolitica, fu contrassegnato dall’uso del frumento, o grano duro, appena frantumato con l’uso di due pietre (operazione di sfregamento) o secondo la tecnica della frantumazione con pestello (battitura), come ancora fanno certe popolazioni africane. Le nuove operazioni eseguite con pietre adatte (le pietre laviche erano le migliori, ma anche la pietra detta di Comiso era molto usata), portarono alla nascita di speciali attrezzi che col tempo divennero vere macchine molitorie: nacque così il centimulo, derivato dal mulino greco e romano, a sua volta derivato dal primitivo attrezzo costituito da due pietre sfreganti l’una sull’altra, il cosiddetto mulinello (in siciliano “u mulinieddu”), che usava appunto il sistema di far ruotare una pietra su una base fissa attraverso un manico impiantato sulla pietra superiore.

Da questi primitivi arnesi usciva una farina assai grossolana, con cui si cominciò a confezionare pani e impasti assai rudimentali. Una fase che precede tutto è senz’altro quello in cui il frumento si consumava integro, attraverso una lunga bollitura: era la cuccìa. Essa assunse i caratteri di cibo rituale, penitenziale, che ricordava le antiche sofferenze (principalmente la fame) che solo il grano cotto riuscì ad alleviare.
È dunque un cibo cerimoniale, e tale rimase fino ai nostri giorni. Essa, la cuccìa, contrassegna particolari feste: nel siracusano per la festa di S. Lucia e in alcune aree iblee (Palazzolo), dove si consuma il giorno di S. Antonio. Il consumo di frumento bollito è gesto propiziatorio tipico delle più antiche civiltà cerealicole del Mediterraneo.
Il frumento usato era quello che i contadini iblei erano soliti chiamare “Bidì” (il Cappelli) dai chicchi grossi e coriacei e dalle spighe molto allungate con cariossidi (“rreschi”) scure.

Si prepara sempre allo stesso modo da secoli: si pulisce per bene e si pone in acqua per tutta la notte precedente. Il giorno dopo di mettono a bollire senza aggiungere sale (ma alcune famiglie lo fanno). La cottura si protrae a lungo, fin quando il chicco non si è aperto e comincia a fuoriuscire dell’amido. Si scola e si serve condita con olio o ricotta (“cuccìa salata”), oppure si condisce con zucchero o miele (“cuccia aruçi”), e dove si prepara anche del vino cotto. In alcuni centri si suole aggiungere del macco di fave (Buccheri) o dei ceci bolliti (e anche fagioli): in questo caso tali ceci son chiamati occhi di santa Lucia).

I contadini o i pastori di Sortino erano soliti il giorno di S. Antonio preparare la cuccia e spargerne un piatto addosso agli animali in stalla, in segno di abbondanza e di buona salute per gli animali, perché il frumento è portatore di valori e simboli positivi, di forza, di salute, che trasmette alle creature che in qualche modo entrano in contatto con esso. Ma si faccia attenzione a non consumare la cuccìa da soli: essa è cibo comunitario che si condivide e si elargisce ai bisognosi, a ricordo di antiche pratiche comunitarie e solidaristiche: un vero banco alimentare ante literam.
