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di Giuseppe Cultrera

C’erano in un tempo lontano, a Ragusa, uno zio e un nipote proprietari di una vasta tenuta, coltivata egregiamente. Per la verità il lavoro lo facevano uno stuolo di diavoli che lo zio a fine giornata rinchiudeva accuratamente in una tabacchiera: solo lui però poteva comandarli e difatti, ogni sera, controllava con scrupolo che tutti fossero rientrati nella loro “prigione”.
Ma un giorno che zio e nipote si recarono in città, successe l’inghippo. Lo zio aveva dimenticato la tabacchiera in campagna.
“E ora come faccio”, si disse.

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L’antica Ragusa in tre interpretazioni grafiche e pittoriche di Rocco Cafiso

Chiamò il nipote: “Tu sei giovane e le gambe le hai buone, devi farmi un favore importante; torna in campagna e prendimi la tabacchiera che si trova in tal posto: però non aprirla!”
Veloce il nipote si recò nella casa di campagna, prese la tabacchiera e si avviò per la città. Ma per strada nel cervello cominciò a frullargli un’idea fissa: “Perché mio zio non vuole che l’apra? Che segreto nasconde, e non vuol farmi sapere?”. E gira e rigira finì che l’aprì.

Una frotta di diavoli saltò fuori. E con voce assillante: “Comanda, padrone, comanda!”
Il povero ragazzo restò di stucco. “Me meschino e ora che faccio?! Scavatemi cinquanta pozzi.”
Così, pensava, io ho il tempo di scappare via. E difatti si diede a correre verso Ragusa.
Ma quelli erano diavoli, e in men che si dica lo raggiunsero e gli si pararono innanzi: “Comanda, padrone, comanda!”

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La leggenda dei cento pozzi (a sinistra) e campagna iblea (a destra), opere di Rocco Cafiso

“Scavatene altri cinquanta” urlò loro senza fermarsi. Anzi riprese la corsa con maggior lena. Inutilmente. Pochi istanti dopo erano ancora davanti a lui, saltellanti, “Comanda, padrone, comanda!”.
Stavolta il giovane contadino si sentì perso. Li guardava atterrito cercando un appiglio, una via di scampo. A volte la paura fa novanta, come suol dirsi, ma apre improvvisi sprazzi di lucidità: “Adesso fatemi un secchio di pasta e una corda di sabbia per attingere l’acqua dai pozzi”.

A fare il secchio, impastando la farina, fu un fiat; ma quando si trattò di intrecciare la corda di sabbia, non ci fu verso per i poveri diavoli di venirne a capo.
Confusi e mogi raggiunsero il ragazzo che ancora correva verso la città. “Il secchio l’abbiamo fatto ma la corda non siamo riusciti a torcerla”.

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Anonimo, “Caduta degli angeli ribelli”, secolo XIV

“Ah, sì” si fermò di botto e li guardò sdegnato “Allora rientrate nella tabacchiera!”.
Come cani bastonati a testa bassa i diavoli rientrarono nella tabacchiera. Il giovane contadino la richiuse veloce riponendola nel taschino. Dando ragione al detto popolare: contadino, cervello fino.
Appena lo zio lo vide spuntare esclamò: “Come hai fatto così presto?”

Che ne sapeva lui di quello che aveva passato il povero diavolo!
La sera però quando aprì la tabacchiera per l’abituale controllo e chiese ai diavoli: “Avete fatto buon viaggio?” molte cose gli furono chiare, povero lui!
“Altro che buon viaggio. Tuo nipote ci ha fatto lavorare come dannati” urlarono in coro. E giù botte da orbi!

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Ragusa, contrada Cento Pozzi (foto di Giovanni Tidona)

Contrada Cento pozzi e Bùttino stanno a circa quattro km da Ragusa, verso occidente: traggono denominazione da una straordinaria quanto misteriosa catena di pozzi intercomunicanti di antica epoca; la gran parte ora scomparsi, interrati o distrutti nel tempo. L’area è costellata anche di presenze archeologiche. Val la pena una visita: per il paesaggio, per i misteriosi pozzi, per le tracce di insediamenti arcaici e greco bizantini.

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Grotta delle Trabacche. Presenza archeologica nell’area di Cento Pozzi (foto di Tony Vasile)

Ma il cunto popolare – di diavoli intrappolati nella tabacchiera di un massaro (molto più pratica della lampada di Aladino) o di eremiti e pastori intenti a contrastare altri diavoli irrequieti – non c’è adesso chi lo possa porgere: per lo meno con quell’ingenuo stupore e arguta ironia dei cuntatori antichi.

Bisogna approdare nella biblioteca di Giovanni Selvaggio, sfogliare i suoi Cunti e leggende di casa nostra, per ascoltare la voce afona dei suoi cento informatori che declinano le cento e più anime di questa terra impareggiabile. Compreso il cunto dei cento pozzi e dei cento diavoli che vi ho raccontato a modo mio. Grazie, Giovanni Selvaggio, cantore impareggiabile della nostra terra.

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Giovanni Selvaggio (Ragusa 1930-1995). A destra il suo volume “Cunti e leggende di casa nostra” (1991)

di Giuseppe Cultrera

Il barone Serafino Amabile Guastella anche se faceva il professore a Modica (“per campare adesso i nobili s’erano ridotti, pure loro, a lavorare!”) a Chiaramonte, sua città, ci veniva appena poteva.

Una di queste volte andò a trovare il contadino Paolo Spada, Capizzuni, che gli avevano indicato come conoscitore di cunti antichi. A lui interessava quello dell’Armi cunnannati r’a Criesia r’a Nunziata, che aveva promesso all’amico palermitano medico-scrittore Giuseppe Pitrè. L’ultimo sollecito era arrivato alcuni giorni prima: era uno ziccusu Pitrè autore della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane; (ma il Guastella ci teneva alla sua prestigiosa amicizia).

Il dammuso, in via Ferriero, dove il vecchio contadino abitava era angusto e umido; né lui era combinato meglio, magro e acciaccato dagli anni e dal duro lavoro.

Sollevò la testa, si schiarì la voce e fissando l’interlocutore cominciò:

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L’Arco e la Chiesa dell’Annunziata in tre cartoline d’epoca

«Vossia deve mettersi a cura che certi pipistrelli hanno gli occhi gialli; e di questi bisogna aver terrore perché dicono che non sono affatto pipistrelli ma, malafrusculi.

Tre giorni prima della messa dell’anime dannate nella chiesa dell’Annunziata, questi grossi pipistrelli entrano ed escono anche di giorno; e hai voglia di cacciarli: sempre là dentro sono.

–  Ma cos’è ‘sta Messa dell’Anime dannate?

–  Cos’è? È chiaramontano e mi domanda che è questa messa. La sant’anima di mia nonna, che se la sentì, morì di scanto! Si celebra con candele nere, il messale a rovescio e senza suono di campanella. La dice un prete morto e ad ascoltarla sono i Francesi che stanno seppelliti alla Nunziata.

–  E chi sono ‘sti francesi seppelliti nella chiesa della Nunziata?

–  Cu’ su ssi’ francisi? Ora glielo spiego.

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I vespri siciliani, stampa popolare francese (fine Ottocento)

– Contano i nostri antichi, che dopo il Vespro Siciliano i francesi ritornarono con un grande esercito per vendicarsi della Sicilia. I vizzinesi – che traditori sono nati e traditori morranno – che fanno?  Aprono le porte della loro città ai francesi e unitisi a loro partono per distruggere Chiaramonte. A quei tempi, cos’era Chiaramonte? Manco duemila abitanti erano. E pur tuttavia chiusero le porte e giurarono: meglio morti che tornare sotto i francesi.

Così ogni giorno c’era guerra, con morti per ogni dove. Durava da più di due mesi questa situazione e il generale dei francesi si rodeva l’anima e imprecava:

– Talè, quattro fottuti pecorai quanto chiasso fanno!

E chiama a raccolta tutti, per consiglio. Si alza un vizzinisi e parla:

– Signor generale, stia tranquillo vossia, che Chiaramonte glielo consegno io. Faccia alzare bandiera bianca e suonare le trombe che io – lo giuro sulla mia vita – entrato nel castello di Chiaramonte li convincerò ad arrendersi.

Al generale l’idea piacque. Fa alzare bandiera bianca e suonare le trombe per parlamentare con gli assediati e così inviare il vizzinese dentro il castello.

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Soldati francesi. Bozzetti per “I vespri siciliani” di G. Verdi (metà Ottocento)

Entrato nel castello il viscido vizzinese così parlò:

– Che volete fare o chiaramontani? Siete solo un pugno d’uomini, mentre i francesi sono numerosi come le mosche! I viveri cominciano a scarseggiare e nessuno può venire in vostro aiuto. Dove volete arrivare? Meglio arrendersi pacificamente che essere presi con la forza. Se ora vi arrendete, vi assicuro che i francesi non vi toccano, ma se fate passare un altro giorno vi fanno a fette come tonnina e poi mettono a fuoco il paese.

Insomma, questo traditore disse e fece tanto che i chiaramontani “minciuna, minciuna” calarono la testa e aprirono le porte ai francesi.

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Chiaramonte Gulfi, Porta del castello, accanto alla chiesa dell’Annunziata (Fh: Franco Noto). – Le anime dannate (disegno di Raffaele Catania). – Ruggero Lauria, ammiraglio e generale delle truppe francesi

Or mentre entravano in città i francesi, un santo servo di Dio stava celebrando messa nella chiesa dell’Annunziata, alla quale assistevano uno sparuto gruppetto di donne e un vecchio sciancato che recitava il rosario. Il sacerdote aveva appena versato il vino nel calice, quando una ventina di soldati francesi assieme al loro capitano che sembrava Oloferne, penetrarono in chiesa cantando e fischiando come andassero nella taverna di Rocco Ciano. Tutti sappiamo che i francesi sono nemici di Dio e che con i siciliani sono come i cani coi gatti: e adesso ce l’avevano ancor più per via che, in occasione dei vespri, i siciliani ci avevano tagliato la massarìa.

Cercavano qualche picciotta, ma visto che c’erano solo povere vecchie, stavano per andarsene, quando il capitano attratto dal prezioso calice che il prete teneva in mano, tentò di afferrarlo:

– Che fai scellerato – gli urla il prete.

– Che faccio? Mi prendo il calice!

– Allontanati, figlio di Satana, che sto consacrando!

– Mollalo, che consacro io, – risponde quel pezzo d’animale. Cominciando a strappargli il calice che il prete non voleva mollare.

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Leonardo Castellani, Chiaramonte Gulfi, acquaforte. (Invito in Sicilia, 15 acqueforti, Milano, Pergola ed. d’arte, 1973)

E tira l’uno e resiste l’altro, al francese sale la mosca al naso ed estratta la spada, infilza il prete. Poi beve il vino contenuto nel calice e se lo ficca nella bisaccia. Lo sciancato, che stava “scorrendo” il rosario, alla vista del servo di Dio crudelmente ucciso, afferrata la stampella la scaglia verso il capitano; ma sbaglia mira e colpisce mortalmente un suo soldato. Quello che successe non vi dico e non vi conto. Ma anche quello che succedeva nel paese non erano rose e fiori: perché francesi e vizzinesi fecero cose dell’inferno, cose da anime dannate. Sgozzavano, squartavano, tagliando teste e braccia, come se i chiaramontani fossero un branco di porci selvatici. Alle donne prene ci spaccarono la pancia per estrarre le creature e ai bambini piccoli sbattevano le teste conto gli spigoli; poi se trovavano una giovanetta, in trenta e quaranta le erano addosso, scapricciandosi gli infami prima di finirla facendola a pezzi. I francesi nelle case rubavano quanto c’era di prezioso, appresso i vizzinesi razziavano il resto, poi davano fuoco a persone e case.

Ma non si fecero uccidere facilmente i chiaramontani, una buona parte di francesi ci lasciarono le penne: d’altronde chi è quel fesso che si lascia scannare “o bbuon’o bbuon’o”?

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Ph: Graziella Fornaro

Era notte fonda e mentre il capitano e i sui compagni gozzovigliavano si sentono i rintocchi di una campana che chiama a messa: quella della chiesa dell’Annunziata.

– È diventato folle questo prete, che vuol dire messa a questora, sghignazzò il capitano francese.

Non aveva terminato la frase che, con sinistro cigolìo, si aperse la porta e sulla soglia comparve il prete scannato vestito con i paramenti sacri, càmice e casìbula ancora fradici di sangue. E rivolto al capitano:

– Capitano valoroso, ridammi il calice che mi rubasti stamattina, non facendomi finire la messa. Ora mi tocca finirla stanotte: tu e tutti quelli che siete qua dentro verrete a sentirvela, per comando di Dio!

Il capitano, bianco come uno straccio e i suoi degni compagni ancora più gghìarni che parevano morti, tremando come foglie, si misero appresso al prete e si avviarono verso la chiesa.

E che potevano fare – caro professore (fece una breve pausa Massa Paolo Spata, guardando sornione il Guastella) – Era cumannu ri Ddiu!

le anime dannate
Chiaramonte medioevale. Disegno di Raffaele Catania (in: Le vie dell’olio, 2010)

Entrarono così in chiesa dove trovarono seduti agli stessi posti tutte le persone che avevano scannato, uno per uno, la mattina prima: le vecchie popolane, lo sciancato che continuava a scorrere il rosario, lo stesso sacrestano che serviva la messa.

Il prete ricominciò da dove era stato interrotto, ma quando alzò il calice per consacrare si udì un terribile rumore come un uragano, le lampade della chiesa e le candele dell’altare si spensero di colpo, mentre il pavimento delle sepolture si apriva, e le donne e lo sciancato, con impeto e forza sovrumana spinsero i miseri francesi nella fossa. Poi sistemata sopra la grande valata, cominciarono a ballarci sopra.

Questa messa, delle anime dannata, deve dirsi una volta l’anno, per comando di Dio, fin che esisterà la chiesa della Nunziata!».le anime dannate

«E il tesoro? C’è sempre un tesoro incantesimato e spesso maledetto, in queste storie che a decine ho ascoltato narrare» fece, abbozzando un sorriso, il barone Guastella.

«Volete prendervi gioco di me? Voi, come tutti quelli istruiti e moderni, non credete a queste storie. Peccato.»

E come parlando a sé stesso «Mia nonna, quella che morì di scanto per aver assistito alla messa delle arme dannate, mi raccontava, quando ero bambino, che conosceva qualcuno che aveva cercato e forse trovato un tesoro: ma era gente che oltre che coraggio da vendere, aveva fede e curiosità; cose tutte che mancano al mondo d’oggi».

«Chi cerca trova. Chi segue vince. Chi va a cercar tesori è pazzo. Ed è pazzo chi non li cerca. Se trovi il primo non cercar più…».

di Giuseppe Cultrera

Due fratelli che di mestiere facevano i massari avevano ciascuno un podere confinante e di uguale dimensione. Eppure, ad uno gli affari andavano bene mentre l’altro era in perenne angustia e, per quanto si arrabattasse, la situazione era sempre negativa. Un giorno il fratello ricco (che lo soccorreva spesso e continuo) pose in atto un piano per aiutarlo senza metterlo in imbarazzo. Prese un portafogli zeppo di banconote e lo collocò, ben in vista, sull’argine della saia tra i loro terreni da dove non passava mai nessuno.
«Senti, puoi andare per favore dal lattoniere che ti deve dare qualcosa per me. Vacci, però, dalla saia così accorci.»

Andò questi per la scorciatoia e sbrigato l’affare ritornò per la stessa strada.
«Hai fatto quel che ti dissi?» chiese il fratello ricco.
«Certo che l’ho fatto.»
«E nella saia hai visto qualcosa?»
«Nulla, cosa dovevo vedere? Anzi no c’era, a un certo punto, un vecchio portafogli e con un calcio l’ho fatto volare».

Il fratello ricco tentennò il capo: «Vieni con me», lo condusse nella saia, raccolse il vecchio portafogli e glielo mise in mano.
«Questo era per te, perché da qui non passa nessuno. Ma tu, che ci sei passato due volte, non ti è venuta la curiosità di vedere cosa contenesse?»
«Si vede che la sorte non vuole aiutarti» proseguì sconsolato il fratello.
«Puoi ammazzarti a lavorare quanto vuoi: povero sei e povero resterai. Giustamente dicevano l’antichi: Quannu la sorti vò cùrchiti e dduormi».

Nota – Racconto desunto da: Giovanni Selvaggio, Parabbula significa, Utopia Edizioni, 1997.