di Nunzio Spina
Si faceva chiamare “Peppo Coppula”, Calogero Marrone da Favara, provincia di Agrigento. O meglio, questo era lo pseudonimo che – compiacendosi delle sue origini siciliane – aveva deciso di utilizzare per sfuggire ai rigidi controlli delle SS tedesche. Tra la moltitudine di italiani deportati nei campi di sterminio nazisti, in gran parte del Centro e del Nord per ovvie ragioni di cronologia bellica, la figura di Calogero, sembra quasi emergere con una luce più viva.
Nel “Giorno della Memoria”, lo sguardo di chi non vuol dimenticare incrocia da un decennio anche il suo nome nell’elenco dei “Giusti tra le Nazioni”. Come Giorgio Perlasca o Gino Bartali, tanto per citarne solo due tra i più popolari.

Nel paese natio Calogero era vissuto fino all’età di 42 anni. Il passato da combattente nella Prima guerra mondiale, col grado di sergente, gli era valso un impiego come segretario dell’ufficio locale dei veterani, ma il suo rifiuto di iscriversi al Partito Nazionale Fascista continuava a procurargli difficoltà di ogni tipo, nonostante avesse già dovuto scontare qualche mese di prigionia. Sicché, avendo vinto un concorso come applicato comunale a Varese – era il 1931, il regime di Mussolini si trovava all’apice del consenso – non aveva esitato ad emigrare al Nord, armi, bagagli e famiglia (già al completo, con moglie e quattro figli).

Fattosi apprezzare per impegno e serietà, scalò rapidamente i gradini della professione, passando dall’ufficio elettorale all’anagrafe, e qui diventando poi capo reparto. La sua disponibilità verso i bisogni della gente non conosceva limiti; e dall’8 settembre del ’43 – quando in tutta la Penisola si diffuse la paura di cadere nella spietata morsa dei nazifascisti – ebbe un motivo in più per mettersi al servizio del prossimo.

Varese, città di confine, era in breve tempo diventata una tappa obbligata per tutti coloro che – ebrei, partigiani, oppositori della neoistituita Repubblica Sociale di Salò – erano o si sentivano perseguitati, e magari intravedevano nella vicina Svizzera la meta della loro fuga. L’occorrente per aiutarli, il funzionario Calogero Marrone, ce l’aveva già sulla sua scrivania: penna, calamaio, un bel timbro da pestare sulla cartella anagrafica. Ed ecco pronto un falso documento d’identità, il lasciapassare per la salvezza!

In soli tre mesi aveva risparmiato rastrellamenti e fucilazioni a qualche centinaio tra uomini, donne e bambini (con intere famiglie ebree), prima che le autorità tedesche scoprissero l’inganno e cominciassero a gracchiare il loro duro proposito di ritorsione. In realtà, c’era stata la classica soffiata, partita proprio dagli uffici del municipio – sospetto fondato, mai riconosciuto –, in cambio di chissà quale ricompensa.
Al podestà di Varese venne intimato di mettere sotto inchiesta Marrone, il quale da parte sua si mise a disposizione delle indagini; anche perché, sottrarsi e scappare, come gli aveva suggerito qualche voce amica, avrebbe esposto la sua famiglia alla inevitabile rappresaglia. Sereno, risoluto, con la fierezza che appare da quel volto ritratto nelle foto d’archivio, decise di restare al suo posto, e soprattutto di non piegarsi ad alcuna confessione che avrebbe potuto in qualche modo tradire la fiducia riposta in lui; a costo di andare incontro al più amaro dei destini.

Le SS entrarono in azione prima ancora che il podestà – peraltro esitante, e forse anche indulgente – portasse a compimento l’istruttoria. Il 7 gennaio del ’44 fecero irruzione nella abitazione di Marrone e lo arrestarono. Chissà se tra gli ufficiali che lo presero in consegna c’era anche qualcuno di coloro ai quali lo stesso Marrone, generoso e altruista al di là di ogni interesse personale, aveva su loro richiesta procurato degli alloggi, quando le truppe del Reich erano andate a occupare la città dopo quel fatidico 8 settembre. Subì tutto con contegno e rassegnazione: interrogatori opprimenti, minacce, una detenzione lunga nove mesi. Conobbe altre mura di carcere: quelle di Varese, di Como, di San Vittore a Milano, di Bolzano; poi anche il recinto di un campo d’internamento alto-atesino, che si rivelò solo l’ultima tappa verso la tanto temuta destinazione finale.
Sapeva bene che quella sorta di vorticoso itinerario dantesco l’avrebbe portato prima o poi all’inferno di un campo di sterminio. Eppure, mai una parola compromettente uscì dalla sua bocca. Se mai, le scriveva le parole – di speranza, di conforto, di amore – in quella corrispondenza clandestina che di tanto in tanto riusciva a tenere con la moglie e i figli; firmato “Peppo Coppula”.
Le ultime sue notizie furono dell’ottobre del ’44, poi più nulla. Da lì a qualche giorno, si sarebbe aperto per lui il cancello in ferro del campo di concentramento nazista di Dachau, nei pressi di Monaco di Baviera, con la beffarda insegna di benvenuto “arbeit macht frei” (“il lavoro ti rende libero”).
Il lavoro, forzato, fu in realtà per Marrone solo un mezzo per sfuggire alla tremenda morte in un forno crematorio o in una camera a gas. Fiaccato nel fisico e denutrito, divenne facile preda di una epidemia di tifo, e così – in maniera certo non meno penosa – salutò questo mondo. Pare che ci fossero anche dei sacerdoti polacchi ad assistere alla sua agonia: lo benedirono nel nome del Signore. Data presunta del decesso, 15 febbraio 1945; ancora due mesi e il campo di Dachau sarebbe stato liberato dagli Alleati. Lui non aveva ancora compiuto 56 anni; dal giorno del suo arresto, moglie e figli non l’avrebbero più rivisto.
Ci volle del tempo prima che l’atto eroico di quest’umile uomo, pervaso solo da ideali di giustizia, venisse riconosciuto in pieno. Il Comune di Varese, nel 1994, pose una targa davanti a quell’ufficio anagrafe che Marrone aveva trasformato in un rifugio strategico.
La natia Favara non volle essere da meno. Più tardi ci sarebbero state anche intestazioni di strade e di piazze (in Lombardia come in Sicilia); e ancora stele, libri, spettacoli teatrali. Fino all’onorifico riconoscimento dello Yad Vashem di Gerusalemme, l’ente nazionale per la Memoria della Shoah, che nell’ottobre del 2012 ha inserito il suo nome nell’elenco dei “Giusti tra le Nazioni”, eroi non ebrei che hanno salvato anche un solo ebreo dal genocidio. Ne salvò tanti, Calogero Marrone da Favara. E così, anche la Sicilia ha avuto la sua piccola, valorosa, Schindler’s List.