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Dante Alighieri

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Nella ricorrenza dei 700 anni dalla morte del sommo poeta Dante Alighieri, l’autore del presente articolo, Vito Castagna, ci introduce nel suo originale progetto di “tradurre” alcuni canti della Divina Commedia in “agili racconti” e aiutare il lettore ad empatizzare e comprendere meglio l’opera originale.

di Vito Castagna

Dante Alighieri, il poeta fiorentino ramingo, morì il 14 settembre 1321 a Ravenna, all’età di 56 anni (mi preme riportare gli anni di vita per uscire dalla polvere apatica del tempo), dopo aver lasciato ai posteri i frutti di una lunga attività artistica, nella quale svetta la Divina Commedia.

Sandro Botticelli, Divina Commedia inferno (1480 circa)

Sono trascorsi esattamente 700 anni dalla morte di Dante e, come ben sapete, il mondo della cultura si è già mosso per celebrare nel migliore dei modi l’evento. Il Dantedì, festeggiato il 25 marzo scorso, ricorda il giorno nel quale il Dante personaggio si perse nei meandri della selva oscura, la prima tappa che l’avrebbe poi portato ad attraversare il mondo ultraterreno e a raggiungere gli scranni celesti.

John Flaxman, Virgilio e Dante (1793)

La Commedia, divenuta e riconosciuta come un patrimonio imprescindibile, è stata ampiamente studiata, soprattutto dai giovani che nelle scuole hanno potuto saggiare alcuni suoi passi; per alcuni sono stati dei bocconi dolcissimi, per la maggior parte, amari e in alcuni casi indigesti.

Eugene Delacroix, La barca di Dante (1822)

Pur essendo vero che nel corso del tempo l’impoverimento lessicale abbia nociuto agli italiani di tutte le età, va detto che l’opera di Dante è di difficile comprensione. La Commedia, scritta tra il 1304 e il 1307, con i suoi versi allegorici, con i suoi riferimenti politici e con la sua complessa, quanto eterogenea, teoria di personaggi era dedicata ad un pubblico dotto che potesse capirla. La forma dell’opera è una delle sue espressioni più alte ma è anche uno dei suoi più grandi limiti.

William Blake, Inferno (1824-1827)

Essa può gratificare il lettore quanto scoraggiarlo, trasportandolo in un lucente labirinto inestricabile. Trovandomi anch’io in questa stessa situazione ai tempi della scuola, ho pensato di “tradurre” alcuni canti della Divina Commedia in agili racconti che possano permettere una maggiore fruizione e magari trasmettere un’empatia che spinga il lettore a leggere l’opera originale e magari, e questo sarebbe forse il più grande risultato, a comprenderla un po’ meglio. Inoltre, non mi pongo l’obiettivo di una mera parafrasi ma di una reinterpretazione personale del narrato attraverso la mia personale sensibilità. Mi si conceda questo contributo, nella speranza di non incappare in una parafrasi o in una parodia.

William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nell’Inferno (1850)

Concludo con una domanda che potreste rivolgermi o, quantomeno, che pongo a me stesso: “Questa operazione è attuale?”
Riscrivere alcuni canti della Divina Commedia va oltre il contingente anniversario della morte di Dante. In un periodo come questo, nel quale lo spostamento è precluso, l’opera del sommo poeta rappresenta il prototipo dell’unico viaggio possibile, quello metafisico che può avvenire solo nella mente e che si specchia negli occhi del viaggiatore assorto durante una siesta.

Dante Gabriel Rossetti, Il saluto di Beatrice (1882)

Parlandoci del mondo ultraterreno, Dante ci descrive il suo mondo, o forse, come ogni scrittore, lo trasforma e lo reinventa.
Credo che anche noi, nelle ristrettezze quotidiane presenti e future, dovremmo seguire questo esempio.

Salvador Dalì, Lucifero (1965)

di Vito Castagna

CANTO V (parte prima)

Un forte tuono rimbombò nell’antro. Rinsavii. Ci trovavamo nella sponda infernale e attorno a noi vi era buio e nebbia, tanto spessi che inghiottivano il mio sguardo spossato. Le urla di dolore ci investivano con violenza. Poi, svoltammo per un irto sentiero e quel rumore incessante e incomprensibile si affievolì prima di cessare del tutto.

Giunti in una radura, incontrammo numerose anime sedute su un prato, accasciate a terra, prive di forza. L’aria era accarezzata dai loro flebili sospiri. Tra di queste, avvolte da un bagliore bluastro, ci vennero incontro le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Essi ci guidarono tra le sette cerchie merlate del Limbo e tra i suoi labirinti plumbei, nei quali riposavano coloro che non avevano conosciuto Cristo. Dialogammo a lungo, ma non rivelerò quanto mi fu detto. Il ricordo mi è troppo intimo. Attraversato il castello, di fronte ad un portale ricoperto di edera, le nostre strade si divisero. Ci addentrammo nuovamente nell’oscurità, discendendo dal primo cerchio al secondo.

Una breccia sola permetteva di attraversare delle mura in rovina. Dinanzi ad essa, vi era accasciato su un trono Minosse, colui che esamina le colpe dei dannati e ne decide la pena. Le anime si inginocchiavano al suo cospetto e, piangendo, sussurravano i loro peccati al suo orecchio demoniaco. Dopo averli ascoltati, il giudice si avvinghiava, con la sua stessa coda serpentina, tante volte quanti sono i gironi che il dannato doveva discendere prima di soffrire in eterno.

Nonostante fossimo tra la calca, egli ci scorse e interruppe il suo compito, pose la mano squamosa sul volto di un dannato per zittirlo. Quest’ultimo rimase impassibile ad attendere il giudizio. «O tu, non fidarti di chi ti guida. Non farti ingannare dall’ampiezza di questa entrata. Uscire di qui non è facile come quel romano ti vuole far credere!».

Virgilio, ferito da quelle parole, rispose: «Perché continui a blaterare, Minosse? Non frapporti al nostro cammino. Così è stato deciso in Paradiso e, quindi, non proferire altra parola. Fai ciò che devi e lasciaci passare!»

Il demone mi guardò negli occhi. I suoi erano azzurri, attraversati verticalmente da un’orbita nerissima, nella quale si perdeva ogni bagliore di luce. Quello sguardo conteneva tutti i peccati dell’uomo, le confessioni udite e, nella oscura fenditura, il peso che albergava tra il cuore e le squame di chi venne costretto a giudicare. Distolsi gli occhi, incapace di sostenere quei macigni, poi le urla colpirono la parete con maggiore forza e una notte, ancora più spessa, ci avvolse.

Il luogo nel quale entrammo era sferzato da venti di tempesta che portavano con sé i dannati, schiantandoli tra le rocce aguzze con indicibile violenza. I miserabili piangevano e bestemmiavano Dio per quella pena senza riposo.

Capii che quello era il tormento dei lussuriosi, coloro che sottomisero la ragione al piacere. E come gli uccelli che quando si librano in volo formano un’ampia schiera, così quel vento avvinghiava i peccatori e li trasportava di qua, di là, di giù, di su. Aimè, non vi era alcuna speranza che si placasse.

«Maestro, chi sono quelle anime che la tempesta castiga?». Ed egli mi rispose: «Una di queste fu imperatrice. Ella rese lecita ogni sua depravazione, distruggendo qualsiasi forma di morale. È Semiramide, sposa di Nino, che governò la terra che oggi è retta dal Sultano. Un’altra è Didone che, abbandonata, si uccise per amore; poi vi sono Elena, Achille, Paride e Tristano». Continuò ad indicarmi più di mille altre ombre col dito e io, di quegli sventurati morti per un sentimento tanto forte, provai una profonda pietà.

Link al terzo canto (parte seconda). CLICCA QUI!

di Vito Castagna

III CANTO (parte seconda)

Ci facemmo largo tra una folla di uomini e donne gementi. Li scansavo e al tocco li sentivo gelidi, imperlati di un freddo sudore. Scorgevo quei volti che fuoriuscivano dall’oscurità che ci circondava; i loro sguardi imploravano pietà e io non potevo far nulla per consolarli. Ne sentivo il peso e dentro il mio petto si generava un’incosciente senso di colpa che mi faceva chinare gli occhi al suolo, osservando i piedi laceri e sporchi.
«Maestro, chi sono queste anime? Cosa le spinge, nonostante il terrore, a proseguire?».

Virgilio si muoveva in quel dedalo di corpi senza neppure sfiorarli.
«Tutto ti sarà più chiaro quando raggiungeremo le sabbiose rive del fiume Acheronte».
Restammo in silenzio lungo l’irta discesa che conduceva al fiume. I lamenti dei dannati rimbombavano lungo le pareti rocciose. Ci fermammo sulla riva e Virgilio mi fece cenno di attendere.

Fu allora che scorgemmo tra il buio e la nebbia un vecchio nocchiero dalla lunga barba che solcava le onde impetuose. Mentre afferrava il remo, tuonò imperioso: «Guai a voi, anime malvage. Guai a voi se sperate di rivedere il colore del cielo, io vengo per condurvi alla riva dove dimorano le tenebre eterne. Preparatevi a soffrire il caldo torrido e il gelo più pungente».

La barca marcia si arenò sulla sabbia bianca ed egli passò in rassegna i tristi passeggeri. Mi si arrestò di fronte e mi scosse col suo braccio possente per tastare la mia condizione, poi urlò: «Tu, anima viva, allontanati da questi morti».

La mia guida mi soccorse posando la mano sulla mia spalla, dicendomi gestualmente di non arretrare. Il demone incalzò: «Raggiungerai l’Aldilà attraverso un’altra strada. Non è questo il tuo momento e di certo non è questo il luogo. Ti condurrà una nave più leggera di questa. La spiaggia del Purgatorio ti attende».
Udendo queste parole, Virgilio si fece avanti beffardo: «Caronte, non ti crucciare. Tutto è stato già deciso lassù, dove si può tutto ciò che si vuole, quindi smetti di sbarrarci il cammino».

Le gote del demone si acquietarono ma le sue orbite erano divorate dalle fiamme. Il traghettatore si apprestò a solcare i flutti, dopo averci fatto sistemare a prua della barca. Ammassate intorno a noi, le anime disperate battevano i denti e bestemmiavano Dio, i loro parenti e tutta la specie umana, maledicendo il giorno della loro nascita. Spinte da un volere irresistibile, si riversarono sulla riva che attende chi in vita non ha temuto il Creatore.

Caronte urlava, fischiava, richiamava il suo gregge scrutandolo con occhi di brace, batteva con violenza il suo remo sulle membra dei disperati che cercavano di resistere a quella forza. Così, come le foglie che cadono ad una ad una nei pomeriggi ventosi d’autunno, il cattivo seme di Adamo attraversava l’Acheronte. Nel frattempo, sulla sponda che avevamo lasciato alle spalle, si accalcavano nuovi disperati deliranti.

Sceso dall’imbarcazione, Virgilio mi disse: «Figlio mio, adesso avrai capito. Qui si radunano tutti i dannati; bramano di oltrepassare il fiume perché costretti dalla giustizia divina, e così il terrore più cupo si trasforma in desiderio. Da qui non può passare nessuna anima buona e, se il demone tanto si è lamentato della tua presenza, significa che sei destinato alla salvezza eterna».

Le parole della mia guida vennero interrotte dal rombo profondo di un terremoto che scosse il funereo paesaggio circostante. Colto dal terrore, venni avvolto da una luce rosso sangue che mi penetrò in testa annebbiandomi la vista. Persi coscienza e stramazzai al suolo.

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di Vito Castagna

III CANTO (parte prima)

«Attraverso me si raggiunge la città dolente, attraverso me si raggiunge l’eterno dolore, attraverso me si raggiunge la gente perduta. Il mio creatore mi fece spinto dalla Giustizia, il Padre mi fece attraverso la potestà divina, il Figlio con la sua somma sapienza, lo Spirito Santo grazie al primo amore. Prima di me non fu creato nulla, esistevano solo cose eterne ed io eternamente durerò. Lasciate ogni speranza, voi che entrate».

Queste parole oscure, dipinte con un colore simile al sangue raggrumato, campeggiavano su un portale; smarrito mi rivolsi a Virgilio:
«Maestro, non ne comprendo il senso».
Al che mi rispose saggiamente: «Significa che dovrai abbandonare ogni esitazione, qui dovrà morire ogni tua paura. Come ti avevo promesso, abbiamo raggiunto il luogo dove i peccatori, soffocati dal dolore, hanno perduto la misericordia divina».

Sorrise per infondermi coraggio, mi prese la mano e mi condusse attraverso la porta. Accedemmo al mondo dei morti e venni immediatamente investito da un rumore assordante che ristagnava nell’aria di quella spelonca. Udendo quei sospiri e quelle grida disperate mi misi a piangere, afflitto da quella sofferenza. Diverse lingue, dagli accenti che non avevo mai udito, fuoriuscivano orribili e mutilate dalle bocche straziate e si mescolavano al trambusto di mani che battevano per ira e disperazione sulla parete rocciosa fino a sanguinare.

Un vento carico di sabbia ci avvolse lungo quel triste cammino impedendoci la vista; fui costretto a proteggere gli occhi col lembo della mia veste. Assillato dai dubbi, urlai alla mia guida cercando di sconfiggere il frastuono della tempesta e delle grida:
«Maestro, cos’è quello che sento e chi sono questi disperati?».

«Queste sono le urla delle anime di coloro che vissero senza infamia e senza lode. Tra di essi soffrono quegli angeli che non furono né ribelli né fedeli a Dio, che si mantennero neutrali nello scontro tra il Bene e il Male e per questo non furono accolti né in Cielo né negli Inferi».

«Maestro, cosa genera i loro lamenti?»
«Gli ignavi sono invidiosi della sorte di qualsiasi altro dannato. Non hanno lasciato alcuna traccia nel mondo e sono sdegnati dalla misericordia e dalla giustizia; non pensare a loro, guardali velocemente e dimenticali anche tu».

Ed io, divorato dalla curiosità, calai il braccio che mi proteggeva e osservai alla ricerca di uno spiraglio tra la danza dei corpuscoli di sabbia. Fu allora che vidi un demone che issava una bandiera priva di simboli; questi correva così velocemente che lo stendardo pareva non fermarsi mai. Come una falena attirata dalla luce, seguiva senza posa una teoria di dannati così ampia che mai avrei potuto credere che la morte ne avesse falciato così tanti.

Riuscii a riconoscerne qualcuno, poi vidi Celestino V, colui che per viltà abbandonò il soglio pontificio.
Questi disperati, disprezzati da Dio e dai suoi nemici, erano nudi ed eternamente punti da vespe e mosconi. I loro pungiglioni affondavano nei volti e dalle ferite sgorgava copiosamente del sangue che si mescolava alle lacrime di dolore estremo. Il pianto sanguigno colava sulle povere membra ricadendo a terra, dove un dedalo di vermi banchettava in comunione con quell’orrido pasto.

Inorridito mi voltai e scorsi in lontananza una moltitudine di anime che si accalcavano lungo un fiume. Ci allontanammo in fretta per sfuggire al rumore viscido di quei vermi.

Link al CANTO II (parte seconda). Cliccate qui!

di Vito Castagna

CANTO II (parte seconda)

«Oh, nobile Virgilio, tu che godi di una fama che non verrà mai scalfita dallo scorrere del tempo, un mio caro amico è stato bloccato nel greto del Monte e la paura gli assale le ginocchia, temo per la sua incolumità e spero che non si sia già perduto. Troppo tardi venni a conoscenza del suo viaggio. Corri, ti scongiuro! Aiutalo con i tuoi consigli, liberami da questo timore! Con te al suo fianco sarà al sicuro».

Le forti sensazioni precedenti si affievolivano man mano che acquistavo possesso delle mie membra, eppure i pensieri si affastellavano in un groviglio che riuscivo a sciogliere troppo lentamente per il compito che mi era stato appena affidato.
«Tu non mi conosci, sono Beatrice e vengo dal Paradiso. Non mi sarei mai allontanata da lì se non provassi un profondissimo affetto per quell’uomo…».

Il pianto di un neonato la interruppe, poi, con gran fatica, tentai di risponderle: «Donna virtuosa, attraverso te si eleva tutta la specie umana, farò qualunque cosa tu desideri. Ma la tua venuta accende la curiosità: come puoi non temere di perderti in questo labirinto di esseri vacui? Non hai paura di essere corrotta dal nostro dolore?».

«Questo luogo non può generare in me timori. Sono una creatura di Dio, egli mi ha reso sorda alle vostre grida, ceca alla vostra miseria. Le fiamme di questo incendio non possono divorarmi perché la luce divina è così abbagliante da oscurare il dolore».

Questa risposta mi colpì molto, poi proseguì: «La Madre stessa di Cristo si dolette della sorte del mio amico. Ella parlò con Lucia esortando la sua protezione, poi la santa corse da me e disse: Beatrice, lode di Dio, perché non soccorri chi ti amò? Dante si elevò dal tedio comune scrivendo di te, sei stata la sua musa, non hai pietà di lui? Non vedi che il peccato lo assale? Udite queste parole, mi precipitai qui e ti chiamai disperatamente.

Ci fu un attimo di silenzio, poi si discostò da me con gli occhi umidi di pianto. Mai stelle mi si presentarono più brillanti. Fu quel suo dolore che mi spinse verso di te con maggior fretta. Quando ti trassi in salvo dalla lupa ero felice di aver esaudito la sua richiesta. Dopo quello che ti ho detto, hai ancora paura? Se non credi alle mie rassicurazioni, sappi che quelle tre donne benedette vegliano sul tuo cammino».

Come i fiori che vengono occlusi dal gelo notturno e che sbocciano sotto i caldi raggi del sole, così feci io col mio coraggio oppresso e il mio cuore fu rinfrancato da quella consapevolezza.
«Devo ringraziare colei che mi soccorse e te che pietoso le ubbidisti! Adesso ho la forza di seguirti come mi ero proposto. Tu sarai la mia guida, il mio signore, il mio maestro e non dubiterò dei tuoi consigli».

Dopo aver detto questo, Virgilio riprese il suo cammino addentrandosi nell’oscurità notturna. Lo sentivo salmodiare, distante e invisibile. Forse ripensava a quell’incredibile incontro con Beatrice, mentre ne parlava avevo percepito un lieve tremore nella sua voce, come se un ultimo afflato della sua vita precedente non fosse stato corrotto dalla morte.

di Vito Castagna

II CANTO (parte prima)

Seguimmo il sentiero in un pomeriggio senza nuvole, poi il sole cominciò a calare e il cielo si tinse di striature violacee; dopo un’ora fummo avvolti dall’oscurità. Le parole di Virgilio rimbombavano nella mia testa ma non avevo osato aprir bocca. Intanto, la mia guida non si era voltata neanche una volta per accertarsi che la seguissi.

Questo nostro silenzio venne interrotto dal verso di numerosi animali notturni che cercavano disperatamente riparo tra le insenature del costone roccioso. Come avrei potuto sostenere quel terribile viaggio?

O muse, vi invoco e a voi mi affido. Beneditemi col vostro canto, permettetemi di scrivere quanto di meraviglioso vedranno i miei occhi. Questo pensiero mi diede il coraggio di rivolgermi a Virgilio.

«Poeta, sarò degno di affrontare questo viaggio? Tu dicesti che Enea raggiunse gli Inferi con le sue spoglie mortali e che ciò avvenne per volere di Dio. Le cose che lì apprese gli permisero di fondare Roma e il suo Impero e in quella sacra città Pietro edificò la sua Chiesa. Dimmi, come potrei percorrere lo stesso itinerario? Chi me lo concede, se io stesso non mi ritengo all’altezza? Temo che seguirti sia una follia! Perdona la mia franchezza, tu sei saggio, capirai certamente quello che non so esprimere a parole».

Come chi non desidera quello che prima bramava ardentemente per colpa del suo timore, avevo perso la forza di proseguire. Virgilio sembrava lievitare sulla pietraia e sulle radici, il vento, che si era alzato burrascoso, non scuoteva la sua antica veste. Si voltò verso di me e, nonostante le mie parole, i suoi lineamenti non si mostrarono turbati, come se conoscesse in anticipo quel tormento del mio cuore.

«So bene cosa provi. Il tuo animo è stato trafitto dalla paura, come una bestia che, irretita dalla sua immaginazione, schiuma e scalcia contro il fattore. Per infonderti coraggio ti dirò perché sono venuto a soccorrerti nella selva. Giacevo immoto tra coloro che non avevano goduto della verità divina, quando, ad un tratto, una voce femminile ruppe il silenzio nel labirinto plumbeo. Ella chiamava il mio nome. Capii di essere colui che cercava perché quando l’eco mi raggiunse percepii un leggero calore, un formicolio all’altezza del petto.

Per un solo istante sentii lo scorrere del tempo e la spessa corazza del torpore eterno cadde dal mio freddo sudario. Ricordai la mia infanzia, la voce di mia madre, l’odore dell’inchiostro sul papiro, l’ultima carezza che diedi prima di morire. Poi lei mi colse da terra, mi cinse a sé in un abbraccio e mi guardò negli occhi. Tu non riusciresti nemmeno ad immaginare la loro bellezza, lucevano come le stelle e fu allora che, oltre al tempo, provai una gioia così lontana e profonda che le lacrime sgorgarono dai miei occhi pieni di polvere.

Per un solo momento fu come nascere, il profumo di rosa della sua pelle scosse la mia eterna e imperturbabile condizione. Poi sfiorò le mie gambe fragili e mi mise in piedi. Mi sorresse qualche istante e, infine, fui in grado di reggermi sugli arti. Ero ancora stordito da quell’emozione e lei, leggendo il mio animo, parlò con la sua voce angelica per tranquillizzarmi.

CANTO I (SECONDA PARTE). CLICCA QUI

di Vito Castagna 

I CANTO (parte seconda)

«Abbi pietà di me!» gli gridai. «Aiutami! Qualunque essere tu sia, spirito o uomo». Mi meravigliai delle mie stesse parole; gliele avevo sputate addosso con foga.

Impassibile, non venne scalfito dal terrore che mi balenava negli occhi. Mi rispose lentamente, come se da tempo immemore non avesse proferito parola. «Sono stato un uomo in passato, nacqui a Mantova al tempo di Cesare e vissi a Roma sotto il buon Augusto, quando si veneravano i falsi idoli nel ventre dei templi umidi e oscuri, incensandoli per non sentire il puzzo delle loro menzogne».

Stremato, prese fiato forzando la mascella stanca, poi ricominciò a parlare muovendo la lingua più velocemente. «Scrissi molto, tanto da essere chiamato poeta. Narrai la storia del pio Enea, figlio di Anchise, che scampò alle fiamme di Troia». I suoi occhi, che si erano persi nel dedalo dei ricordi, si posarono su di me come non avevano fatto prima. «Perché ritorni nella selva? Perché non ti inerpichi sul bianco monte? Il Paradiso terrestre ti attende sulla sua vetta».

Lo ascoltai incredulo. Quell’anima non poteva che essere di Virgilio e il cuore mi esplose di gioia. Mi vergognai di non aver saputo riconoscere prima le sue fattezze. Gli afferrai la mano e la percepii gelida, attanagliata di una morte che il sangue delle mie vene non avrebbe potuto riscaldare.

Gli dissi: «Tu sei il mio maestro, a te solo mi sono ispirato». Nel frattempo, la iena e il leone, intimoriti dalla presenza dello spirito, si fermarono ad osservare la scena. La lupa, invece, avanzava verso di noi ringhiando e la sua bava schiumosa gocciolava sui sassi. La indicai atterrito: «Sono tornato indietro a causa di quella bestia; aiutami! Non potrò resisterle!».

Virgilio svincolò la mano dalla mia stretta. Ormai libero di poter parlare, mi disse: «Se vuoi sopravvivere dovrai prendere un’altra strada. La lupa non ti lascerà ascendere al monte; la sua cupidigia ti divorerà e la tua carcassa non potrà saziarla. Ella si accoppierà con altri animali, il peccato genererà altro peccato, ma verrà il giorno che un cane da caccia affonderà i denti aguzzi nel suo collo e in tutta l’Italia, per i quali morirono di ferite Camilla, Eurialo, Turno e Niso, verrà salvata dalla conoscenza, dall’amore e dalla virtù».

Dopo aver detto queste parole, cominciò a camminare con passo svelto costeggiando la foresta. «Sarò la tua guida e ti condurrò nei luoghi dove udirai le grida disperate dei dannati, condannati alla morte eterna, e vedrai coloro che gioiscono avvolti tra le fiamme, perché quel dolore gli permetterà di raggiungere il Paradiso. Non potrò guidarti in quest’ultimo posto ma ti affiderò ad un’anima più degna di me».

Gli venni dietro chiedendomi a chi potesse riferirsi. La lupa si era ricongiunta con le altre due bestie. I tre si accucciarono sui sassi alle pendici del monte, come dei banditi in attesa del pellegrino indifeso. Virgilio riprese a parlare senza guardarmi: «Dio non mi permetterà di condurti a lui perché non conobbi la sua Verità. Beato colui che può raggiungere il trono dal quale egli regna!».

Balbettando, risposi: «Lo ringrazio per averti mandato a salvarmi. Ti seguirò ovunque».
Il sole era ormai alto nel cielo e non proiettavamo più alcuna ombra. Quando entrammo in un crepaccio, mi voltai ancora una volta indietro. Le tre bestie non ci avevano seguito.

I CANTO (PRIMA PARTE) CLICCATE QUI!

Come già anticipato nell’introduzione della scorsa settimana, Vito Castagna inizia a “tradurre” alcuni canti della Divina Commedia in “agili racconti” per aiutare il lettore ad empatizzare e comprendere meglio l’opera originale. L’appuntamento sarà settimanale, di sabato.

di Vito Castagna

I CANTO

Trovai un impervio sentiero e lo seguii facendomi largo tra i rovi. I sassi e le radici fuoriuscivano dalla terra e mi accorgevo della loro presenza solo quando vi inciampavo. Il buio della notte mi avvolgeva oscurandomi la vista, tastavo l’aria col palmo delle mani, la annusavo col desidero di capire dove fossi. Purtroppo, ogni mio sforzo era inutile.

Come avvolto da onde nere, annaspavo fra gli alberi di quella foresta.
Avevo 35 anni e la gloria, l’onore e la mia parte politica mi avevano condotto lontano dalla retta via. Forse, fu tutto questo a condurmi in quel luogo di morte, lì, dove più che provare timore per la mia carne, tremavo per la salvezza della mia anima.

Continuai spinto da forze estranee che avevano accecato la speranza, mani invisibili sorreggevano il mio cammino. Poi, sbucai in uno spazio aperto. I suoni della foresta si erano dissolti e riuscii a sentire il rumore dei miei passi. Mi percepii nel vuoto, pronto a cadere in un baratro oscuro privo di vita. Fu durante quella vertigine che il sole sorse lentamente alle mie spalle. Scorsi la ghiaia bianca ai miei piedi e poi un monte, anch’esso immacolato, che si stagliava contro il cielo. Nonostante il mio cuore battesse ancora forte, mi voltai indietro verso la foresta, come il viandante scampato alla bufera.

Quando tentai di arrampicarmi sul monte, sentii echeggiare la risata malsana di una iena. Afferrai una pietra con la mano impolverata e, immobile, cercai di non far alcun rumore. Non ebbi la forza di colpirla quando, col suo ghigno luciferino, mi comparve davanti sorridendomi. Lasciai cadere il sasso e non riuscii a resistere al suo sguardo di donna, lascivo e mutevole.

Un leggero soffio di vento le sfiorava il suo pelo maculato e lei sembrava bearsene.
Mi mossi lentamente all’indietro, mentre i calzari mi sprofondavano nel pietrame. Non mi seguì, ma la sentivo che ridacchiava al sole, che iniziava a levarsi alto. Cominciai a sudare accorgendomi solo allora del pericolo che avevo corso.

Mi accasciai al suolo credendomi ormai al sicuro. Fu allora che si fece innanzi a me un leone. Trasalii, scattando in piedi al suo ruggito igneo. L’aria ne venne squarciata. Cercai con gli occhi una via di fuga verso l’alto ma una lupa, dalla gabbia toracica sporgente per la troppa magrezza, spense la mia speranza. Ella mi ricacciò indietro verso la foresta mostrandomi i suoi denti disperati e promettendomi una cupidigia insaziabile. Quella nefasta trinità mi spingeva sotto l’ombra degli alberi, ne potevo sentire l’oscuro freddo passo dopo passo. Era il peccato pronto a permeare ogni goccia del mio sangue.

Piangevo e ponevo le mie braccia tra me e loro, nel tentativo di un’inutile difesa. Quando tutto sembrava deciso, comparve un uomo. Non seppi dire se fosse un’ombra o un uomo in carne ed ossa. Disperato, mi rivolsi a lui.

CANTO I SECONDA PARTE