Una delle più suggestive feste religiose di Sicilia si svolge la Domenica in Albis a Chiaramonte Gulfi, piccolo centro di origine medievale in provincia di Ragusa. La domenica dopo Pasqua una folla di fedeli, di primo mattino, si reca nella vallata sottostante il paese dove in un’antica chiesetta, Santa Maria la Vetere (meglio nota come Santuario di Gulfi), è custodita una taumaturga statua della Madonna.
Alle dieci in punto inizia la veloce ascesa verso la città: davanti a tutti i devoti, che con le funi alleviano il peso della pendenza ai portatori, numerosi sotto il baiardo sul quale è fissata la statua della Madonna; poi appresso la banda e il popolo. Il percorso di quattro km, tortuoso e con notevole pendenza, viene effettuato in un’ora esatta. Così vuole la tradizione. Sicché alle 11, coloro che sono rimasti in città e i devoti dei paesi vicini, accolgono la patrona in piazza Duomo tra un tripudio di voci, musica e mortaretti.
Continua l’antico rituale con il “cuncursu”, la solenne processione nelle vie cittadine, subito dopo pranzo, con la partecipazione delle quattro confraternite di S. Vito, S. Giovanni, S. Filippo e del Salvatore i cui stendardi riccamente ricamati precedono il Simulacro.
Quindi ha inizio il solenne novenario (che risale al 1644 e trae origine da un editto di Filippo IV, re di Spagna, allora anche sovrano di Sicilia). La Madonna di Gulfi posta sull’altare della chiesa Madre (Santa Maria La Nova) riccamente addobbato con fiori, ceri, festoni di velluto rosso, verrà onorata, in ciascun giorno, da una categoria sociale, secondo un rituale codificato nei secoli: il lunedì coltivatori e venditori di ortaggi (urtulani e putiari), martedì i mugnai (mulinari), il mercoledì le donne (fimmini), giovedì i pastori (picurari), il venerdì gli artigiani (masci) il sabato i braccianti agricoli (jurnatari), la domenica gli apicoltori (vasciddari), il lunedì successivo gli agricoltori (massari) e il martedì, infine, i lettighieri e gli staffieri (vurdunari). Chiaramente oggi molte di queste maestranze, che nel passato rappresentavano tutta la classe popolare, sono o scomparse o minoritarie; suppliscono categorie similari, ma sempre nel solco della tradizione.
Tradizione, fede e identità cristiana stanno alla base di questa antica festa, che affonda le radici nei primordi del Cristianesimo (la chiesetta di Gulfi è testimonianza della comunità paleocristiana) e ancor prima per alcune connotazioni del rito che rimandano agli antichi culti della terra madre.
Il legame tra i cittadini di Chiaramonte e quella che chiamano «la Nostra Madre» è visibile nella corale partecipazione al rito annuale al quale, anche coloro che per qualsivoglia motivo sono dovuti andar via dal paese, fanno di tutto per esser presente, anche affrontando un lungo e costoso viaggio. Il ritorno del simulacro al Santuario, il mercoledì, è metafora anche di tanti ritorni alla terra patria, di approdi vagheggiati, di affetti ricongiunti e di speranze rincorse in questo lembo del Sud.
Quell’aprile del 1910 doveva essere memorabile per Chiaramonte. Scriveva il cronista sul Foglio Ufficiale dell’Arcidiocesi di Siracusa, Maggio 1910: «Per una felice coincidenza di circostanze possiamo dire che la festa della Madonna di Gulfi di quest’anno segna una pagina delle più belle della nostra storia. La riapertura della Chiesa Madre col nuovo splendido pavimento di marmo già completo, l’inaugurazione del nuovo organo liturgico, la schola cantorum di Ragusa, ci faranno ricordare per un pezzo delle feste di quest’anno.»
Il Foglio Ufficiale dell’Arcidicesi di Siracusa, Anno III, n. 5 – Maggio 1910.
Sua Eccellenza Mons. Luigi Bignami, arcivescovo di Siracusa «il 2 (aprile) nel pomeriggio, rilevato dall’arciprete Rosso e da suo fratello, Sac. Giuseppe, incontrato lungo il viaggio prima dai seminaristi, poi dal Clero, e per ultimo dal Sig. Sindaco, salì a Chiaramonte. Dalla Chiesa di S. Filippo trasportò processionalmente il SS. Sacramento alla Matrice, che così si riapriva solennemente, dopo quasi due anni di chiusura per restauri degli stucchi, del pavimento e dell’organo: la processione, come si espresse l’Arcivescovo, era la più condegna inaugurazione dei restauri e dell’organo e la più indicata apertura delle feste. L’Arcivescovo predicò il novenario della Madonna. La Domenica 10, tenne il Pontificale: tutti i giorni amministrò le sante Cresime nelle diverse chiese.»
Un momento della festa della Madonna di Gulfi. In piazza duomo, in una posa di Raimondino Palermo del 1890 (a sx) e in una di Giovanni Rosso dei primi del novecento (a dx)
Fin qui il resoconto ufficiale. Ma quell’anno successe dell’altro, che le cronache ufficiali solo in parte raccontarono: una insolita prova di forza, tra l’Arcivescovo Bignami, parroco Alfonso Rosso e sindaco Cav. Giuseppe Nicastro da una parte e il comitato dei festeggiamenti della Madonna di Gulfi e la banda musicale dall’altra. Per la verità i contorni della contrapposizione sfumano ancor più se, alla voce del bollettino siracusano, si aggiungono alcune cronache giornalistiche del tempo e specialmente la memoria popolare che come ben sappiamo è sciolta dai ceppi del politically correct.
Mons. Luigi Bignami, Arcivescovo di Siracusa – Chiaramonte Gulfi, Chiesa madre: apparato per il solenne Novenario della Madonna di Gulfi (1910)
Tutto partiva dall’anno precedente, per i festeggiamenti di San Giovanni Battista, quando l’arcivescovo aveva vietato l’ingresso in chiesa della banda musicale, per eseguire la marcia reale durante le funzioni religiose. Così ad inizio aprile del 1910, in occasione della festa e novenario della Madonna di Gulfi e delle inaugurazioni del nuovo pavimento e dell’organo, Mons. Bignami con «parole più che paterne» auspicò «che non volessero turbare la festa con un vero atto di disubbidienza» ribadendo il divieto ai chiassosi intermezzi della banda con entrata ed uscita.
In verità il prelato di Siracusa aveva avuto qualche soffiata che già il primo giorno di festa, la tradizionale salita, la banda – ovviamente spinta da comitato dei festeggiamenti, portatori e devoti – avrebbe replicato il solito refrain. E così avvenne l’indomani, profittando pure che l’arcivescovo non fosse presente.
Una rara foto della banda, con al centro il maestro direttore, causa del “diverbio” con l’Arcivescovo di Siracusa. La foto è del 1909 (l’anno precedente ai fatti) (coll. Sebastiano Molè)
Il quale, ovviamente, andò su tutte le furie intimando ai sacerdoti ed autorità civili di vigilare sui focosi devoti e sull’intemperante corpo bandistico comunale. «Allora» scrive, in una nota al vetriolo, sul suo Foglio ufficiale l’arcivescovo di Siracusa «chiamai il Sig. Direttore, al quale il Parroco giorni prima aveva riletto le disposizioni – disposizioni per di più affisse in tutte le chiese di Chiaramonte – e l’avvertì che ci pensasse bene a portarsi in chiesa un’altra volta con la musica; egli cercò difendersi, dicendosi un povero padre di famiglia alla dipendenza del Municipio.» Questo il milanese Bignami lo sapeva bene, come aveva contezza che la vigilanza del clero locale fosse fuorviata dalla troppa “devozione popolare”. Perciò: «Parimenti mandai ad avvertire il Sig. Sindaco che se la sera la musica fosse entrata ancora in chiesa, l’indomani mattina avrei lasciato Chiaramonte senz’altro.»
Particolare della foto precedente; cerchiato in giallo il direttore della banda
E perché fosse chiaro a tutti, la sera chiuse il discorso d’introduzione al novenario con queste testuali parole: «Dell’incidente di stamattina non se ne parli più. Non avete creduto di tener conto della mia preghiera, sia come avvenne. Monsignor Bignami dimenticherà tutto, volendo agire da padre co’ suoi figli. Speriamo – continuava nella citata nota – che se fu la prima sarà anche l’ultima. La pagina, certo non delle più felici, che si volle scrivere oggi nella storia della vostra città, stracciamola, in modo che non ne rimanga traccia di sorta.»
E tornò la quieta dopo la tempesta. La banda se ne stette per tutto il novenario fuori dalla chiesa, dove poté suonare tutte le marce richieste dal comitato, dalle varie categorie che si alternavano nelle sere del novenario, devoti ed autorità civili.
La “discesa” della Madonna a fine novenario, in primo piano la banda. (Foto Antonio Bentivegna, primi del ‘900)
L’ultimo giorno, il mercoledì della discesa del simulacro al Santuario, però successe l’inghippo: la banda entrò festosa con la sua marcia trionfale in chiesa e al clero sopraffatto ed esautorato non restò che minacciare di disertare la processione di ritorno al Santuario. Mons. Luigi Bignami, tra l’altro, era ancora nella sua stanza del Palazzo Montesano intento a prepararsi per la discesa, alla fine della quale avrebbe fatto il tradizionale fervorino e saluto alla Madonna. Qualcuno – ingenuo o maligno – corse dall’Arcivescovo a perorare un suo intervento per convincere parroco e clero a desistere. Apriti cielo: lo sprovveduto messaggero ebbe il fatto suo, mentre l’arcivescovo immediatamente, accompagnato dal cerimoniere e dal ciantro Demartino, a piede si avviò verso la città di Comiso, inseguito e raggiunto, poco dopo, dalla carrozza inviata dal Sindaco. Scriverà, sempre nella citata nota del Foglio Ufficiale, che non ci furono né autorità civili né carabinieri ad impedire che comitato e banda cittadina facessero a modo loro; e, in parte, ne aveva avuto contezza quando uscendo dal paese, a piedi, passando davanti alla caserma dei Real Carabinieri vide che «uno di essi sedeva al balcone della caserma in arnese di casa fumando placidamente.» Mai fidarsi dei ‘piemontesi’. Figurarsi poi della stampa laica che sui fatti di quell’inizio di aprile, a Chiaramonte, ci ricamò a menadito. Anche il sindaco fu latitante (o meglio saggiamente presente nel cuore del suo elettorato) e il clero e i notabili, più che tiepidi.
Per sceverare la matassa è opportuno pertanto ricorrere al si dice popolare (che a volte cela più spunti delle carte ufficiali). Sembra che negli anni precedenti con il clero chiaramontano e le autorità civili ci fossero stati vari momenti di incomprensione: ad esempio relativamente al “tesoro” di S. Caterina, il monastero femminile soppresso nel 1866. Gli arredi sacri ed argenti (che oggi in parte sono esposti al Museo di arte sacra) restati in potere della chiesa e pertanto della curia, Mons. Bignami li avrebbe voluto trasferire a Siracusa. Il clero locale, ma specialmente il popolo e le autorità civili, erano contrari in quanto patrimonio della comunità. La voce più critica e vivace fu quella del sacerdote Luigi Salerno, insegnante di latino e greco dei rampolli chiaramontani, già canonico metropolitano e, in seguito, privato del titolo proprio per questa sua abitudine “di dire pane al pane”. Si raccontava che durante una delle visite pastorali del Bignami, sulla questione erano volate parole grosse e che l’arcivescovo avesse abbandonato il campo furente. Parimenti, relativamente al mercoledì 13 aprile 1910, circolava un’altra versione dei fatti: che l’abbandono dell’arcivescovo fu per sottrarsi ad alcuni “facinorosi” che intendevano “dissentire”. E che la carrozza, inviata di fretta dal sindaco, fosse stata provvidenziale ed opportuna.
Ringrazio Angelo Salvo per la documentazione e la copia del “Foglio Ufficiale dell’Arcidiocesi di Siracusa” Anno III, n. 5, maggio 1910.
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