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di Luca Farruggio

Se per Platonela conoscenza del bene e del male è la medesima”, dobbiamo interrogarci e provare a pensare che anche la conoscenza del bello e del brutto possa essere la stessa. Tuttavia, mentre del male e del maligno se ne è discusso a lungo (complice l’essenza del cristianesimo), del brutto se ne è discusso troppo poco. Anche il brutto è, era e sarà… ma non osiamo guardarlo in faccia. Lo allontaniamo dalla luce del nostro “filosofare”.

Tanti romanzi, favole, dipinti e film hanno quasi sempre legato necessariamente la bruttezza alla malignità (o al “diverso”, da ciò che è cosa buona e giusta per la communis opinio). E non è solo “merito” di Disney. Infatti al diavolo sono apparse – tra tante bruttezze – le corna, e ci siamo dimenticati che Lucifero è l’angelo più bello creato da Dio.

A. Cabanel, L’angelo caduto, 1847 (foto: Wikipedia)

Ma può esistere un rapporto tra bruttezza e bontà? Può dal brutto fiorire anche il bello? A chi possiamo chiedere aiuto nella nostra indagine? Tralasciando il rapporto speciale del Cristo con i malati (è ovvio che non esista una buona malattia e che ogni guarigione è bella) e la dimensione della bruttezza del peccato, possiamo rifarci allo stesso Platone. A Platone e al suo “brutto-bello” Socrate.

Per Socrate, oltre alla bellezza fisica esiste la bellezza dei valori spirituali. L’uomo che ha occhio metafisico può essere un bravo educatore senza arrestarsi alla bellezza del corpo e raggiungendo così la comprensione del Bello in sé. E’ proprio questo che, nel Simposio, il bello Alcibiade ci dice del brutto Socrate. Non ci resta che leggere l’elogio che egli fa di Socrate, sileno brutto, ma di una profonda bellezza interiore. 

Erme di Socrate (sx) e Alcibiade (dx) (foto: Musei Capitolini)

Voi vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone, gli è sempre intorno e ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla… almeno all’apparenza! E non è da sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di fuori, come nel sileno scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai, miei cari bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che, se uno è bello, a lui non importa niente, ma lo sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa se è ricco o possiede qualunque altra fortuna di quelle strabenedette dalla gente. Lui ritiene che tutti questi possessi non valgono nulla e che noi siamo nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l’ingenuo e a prendersi gioco della gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha mai visto i simulacri che ha dentro! Ma io una volta li vidi e li sentii così divini e preziosi e così stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare all’istante ciò che Socrate voleva.

Così – nei secoli – si è detto e pensato del comportamento di un grande filosofo. Sempre esaltato per la maieutica e per il limiti che ci ha consegnato col γνῶθι σαυτόν. Ma non lo trattiamo come un mostro nel circo della filosofia? Infatti, mentre ciò che fa paura alla mente è oggetto solo di questioni morali, invece ciò che fa paura agli occhi è destinato al silenzio.

In fondo il brutto anatroccolo era solo un bel cigno! La Bestia era solo un bel principe! Non può mai essere che una cosa brutta sia buona o bella! Questo ci siamo detti implicitamente, soprattutto nell’epoca della perfezione estetica in cui al concetto di brutto si è legato quello di male, come se fossero un’unica e medesima cosa.

Q. Massys, La duchessa brutta, 1513 (foto: Wikipedia)

Di fronte a tale meschina verità, abbiamo il coraggio di guardare in faccia il brutto “come se” fosse bello? Questa mi sembra la sfida, al di là di ogni umano ribrezzo. E questa mi sembra la missione per concepire e vivere consapevolmente e serenamente la totalità delle cose umane. Sì, anche il brutto può essere bello! Quel tizio brutto è bello! E anche il bello può essere brutto. Quel bel tizio è brutto! Anche questo si può – e si deve – dire. A questa conoscenza siamo chiamati, anche quando i sensi ci incatenano al like and dislike e al o è bianco o è nero. Tertium non datur.

L’ultimo articolo di Luca Farruggio: Il viaggio più bello mi costò 1 euro.

di Vito Castagna

Caro Goffredo, con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto, per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto).

Quando Elsa Morante scrisse questo incipit a Goffredo Fofi, in una lettera speditagli il 21 dicembre 1971, non avrebbe creduto possibile che proprio quel fatto, apparentemente insignificante, sarebbe divenuto la traccia che avrebbe condotto Alice Rohrwacher alla candidatura all’Oscar.
Come sovente accade, i grandi scrittori lasciano segni a volte inconsapevoli, del tutto fortuiti, che solo animi trafitti dal dardo della sensibilità possono riportare all’attenzione del pubblico, donandogli una veste nuova.

Alice Rohrwacher

Così, su invito di Alfonso Cuarón a produrre una pellicola natalizia, Rohrwacher ha voluto mettere in scena un mediometraggio (38 minuti) che ripercorresse il breve racconto di Elsa Morante e che, al contempo, potesse dargli la possibilità di creare qualcosa di nuovo.
“Le pupille” è ambientato nella Bologna degli anni ‘40, quando le forze italo-tedesche cercavano di opporsi all’avanzata delle truppe alleate nel Nord Africa. Le protagoniste sono un gruppo di orfane accudite in un collegio di suore che si accingono a festeggiare il Natale.

Nella struttura vi è una linea ferrea e intransigente, quella della madre collegiale, interpretata dalla sorella della regista, Alba Rohrwacher, fatta di preghiere e del rispetto dello status quo, e quella molto meno apparente delle bambine. Queste si dimostrano accondiscendenti, costringono i loro corpi alla stasi, eppure, le loro pupille guizzano su ogni cosa, libere, pensanti, rivoluzionarie.
Nonostante il regime che vige all’interno e all’esterno delle mura del collegio, le giovani menti brulicano di idee e di canzoni proibite, alle quali la madre collegiale dà categoricamente la dicitura di cattive. E chi ha idee cattive e non prova rimorso, è cattivo a sua volta.

I richiami pasoliniani di “Le pupille”

Questo sistema di giudizio apparentemente perfetto è destinato ben presto a sgretolarsi. A farlo sarà una zuppa inglese (ironia della sorte nell’anti-esterofila Italia fascista!), portata da una nobil donna, recitata da Valeria Bruni Tedeschi, che cerca di ingraziarsi le preghiere delle orfanelle, nel tentativo di far tornare da lei il conte che l’ha lasciata.
Una torta di 70 uova, nel pieno di una guerra, può essere forte quanto dinamite. Può addirittura far crollare qualunque stigma, dopo averne palesato le contraddizioni.

Alice Rohrwacher dimostra ancora una volta che far cinema è una questione di sensibilità. La sua immaginazione dilata il racconto, lo irrobustisce con elementi nuovi e caratterizzanti; con delicatezza ridisegna spazi colmi di alterità rendendoli poetici e ovattati. I suoi mondi ricordano quelli delle fiabe, eppure, sono carichi dei problemi quotidiani nonostante ne disconoscano le brutalità. La sua candidatura all’Oscar è il giusto riconoscimento al percorso intrapreso da una parte del mondo cinematografico italiano, quello che proviene dal genere documentario, che ha lasciato parlare gli altri, prima di dar voce alle proprie istanze.
“Le pupille” è un invito alla libertà, non urlato, non palesato, ma semplicemente bisbigliato dal gioco furbesco degli occhi. 

ovvero
Galeotto fu l’ascensore

di Giulia Cultrera

Improvvisarsi detective e riuscire a risolvere un caso di omicidio non è certo da tutti. Soprattutto se il titolo di studio dei personaggi in questione è “assiduo ascoltatore di podcast a tema crime e giallo”.

E perché non svelare indizi e teorie all’ignoto assassino, registrando ogni settimana una nuova puntata del podcast Only murders in the building? Un confronto investigatore-assassino equo, a carte scoperte. Geniale.

Basta già questo per capire la piega sarcastica e surreale che può prendere una serie del genere.

Tutto ruota intorno a un lussuoso palazzo abitato da inquilini facoltosi, schivi e riservati, al punto da essere considerati tutti dei potenziali sospettati. E in effetti Tim Kono, la vittima, non era in buoni rapporti con nessuno.

Chiunque può avere un movente. Come lo scopriamo? Qui arriva il bello! I tre protagonisti formulano delle strampalate quanto elaborate congetture sotto forma di rappresentazione teatrale, racconto corale o flussi di coscienza.only murders in the building

Un modo brillante e originale di entrare nella mente dei protagonisti e, soprattutto, di introdurre i personaggi secondari, dandogli modo di esprimersi e di aggiungere particolari inaspettati.

Ben presto scopriamo che l’omicidio di Tim Kono non è l’unico mistero da risolvere. Ognuno ha un passato più o meno burrascoso con cui fare i conti. E in una serie del genere gli scheletri nell’armadio non possono, di certo, mancare.

I protagonisti si danno da fare per svelare i segreti altrui, ma stanno ben attenti a mantenere nascosti i propri. Tentativo inutile, considerata la loro propensione a curiosare e invadere la sfera personale.only murders in the building

Only murders in the building vuole giocare con lo spettatore – non soltanto intrattenerlo – dandogli la possibilità di scoprire alcuni fatti cruciali ancor prima dei protagonisti stessi.

Per farlo raggiunge il punto più alto della serie: una puntata muta, scandita dalle musiche e dai suoni ambientali. Vi ricorda qualcosa? Ovviamente l’episodio intenso e struggente di Bojack Horseman, “Un pesce fuor d’acqua”.

Non servirebbe aggiungere altro. Una scelta azzardata, ma estremamente di impatto.crime

Il motto di Only murders in the building può sicuramente essere mai prendersi troppo sul serio. L’autoironia la fa da padrona ed è sicuramente uno dei punti di forza della serie. Prende in giro il genere crime e ridicolizza in modo sottile i personaggi, enfatizzandone alcuni aspetti caratteriali senza, tuttavia, trasformarli in macchiette.

Abbiamo già osservato questa tipologia di meta-narrazione con Jane the virgin e la sua destrutturazione delle telenovelas sudamericane. Anche in questo caso, lo show fa una brillante parodia dei film polizieschi, giocando con gli archetipi, evitando di svilirli o di compromettere il livello della serie.only murders in the building

Ironica, fresca e sopra le righe. Il ritmo incalzante, a tratti concitato, trova un perfetto equilibrio con le dinamiche divertenti e surreali che si prospettano di puntata in puntata. Fino ad arrivare al colpo di scena conclusivo.

Only Murders in the building non delude le aspettative e si rivela un metodo di narrazione originale e vincente. Non ci resta che aspettare la seconda stagione e scoprire quale sarà il prossimo mistero da risolvere.crime