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Dite

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di Vito Castagna

CANTO IX (parte seconda)

Le nostre membra stanche cominciarono a fremere, così come le spesse mura che sembravano squarciarsi di fronte a noi. Un demone dal grugno suino, che spavaldo ci sbeffeggiava appollaiato sugli spalti, perse l’equilibrio e precipitò divenendo poltiglia al suolo. Alla nostra sinistra, lo Stige ribolliva, come se nel suo greto vi fosse una fornace ardente.

Virgilio, nel frastuono, urlò: «Apri gli occhi e guarda la palude che schiuma, lì dove la nebbia è più fitta!». Tolse le mani che aveva imposto sul mio viso ed osservai spaventato il luogo che mi aveva indicato. Come le rane, che difronte alla biscia che fluttua sull’acqua, fuggono verso la riva, vidi un dedalo di corpi feriti che si riversava all’infuori dello Stige; le anime si sbracciavano tra le onde increspate dal tremore, altre, invece, correvano sul bagnasciuga scivolando sulla melma e calpestandosi. Fuggivano da un individuo che, in lontananza, camminava sull’acqua senza bagnare il palmo dei suo candidi piedi.

Il terremoto cominciò lentamente a placarsi. Colui che giungeva dall’epicentro della scossa avanzava verso di noi, scansando con la mano sinistra gli spessi vapori della palude che gli celavano il volto. Nei gesti e nelle sue smorfie non vidi altro che fastidio per i miasmi e disgusto per quel luogo. Non ebbi dubbi che costui era la nostra salvezza, il messo disceso dal Cielo che avrebbe sfondato le porte di Dite. Mi voltai verso Virgilio con il cuore colmo di gioia, egli, però, mi richiamò ad un atteggiamento più decoroso e mi invitò ad inchinarmi di fronte al nuovo venuto.

Nonostante il nostro gesto, quell’angelo maestoso non ci degnò di uno sguardo e, con passi lenti e infallibili, calpestò il corpo del demone precipitato qualche istante prima, dirigendosi verso l’accesso della città. I demoni all’interno, infiacchiti dalla scossa, persero ogni baldanza dinanzi al messo celeste. Tutto venne colto da un assordante silenzio. L’angelo estrasse una verga d’oro dall’orlo della sua veste purpurea e aprì la porta. I cardini cigolarono e questa cadde contro i demoni con un gran tonfo.

«Voi cacciati dal cielo, gente disprezzata, da dove nasce questa vostra tracotanza? Perché siete recalcitranti a quel volere che non può non raggiungere il suo scopo, e che tante volte ha accresciuto i vostri tormenti? A che serve opporsi? Ricordate, Cerbero porta il mento e la gola spellati a causa della vostra stessa colpa!». Detto ciò, volse le spalle contro i difensori sconfitti e, con la fronte corrucciata da altri pensieri, si diresse verso lo Stige, senza dirci nulla, ma noi, rincuorati dalle sue sante parole, decidemmo di varcare la soglia della città dannata.

Attraversammo il fossato, poi il portone divelto. I demoni ci fecero largo senza opporre resistenza. Dite si aprì a noi mostrandoci ciò che le sue mura avevano con tanta gelosia celato; dolori e tormenti serpeggiavano tra le meste vie. Il male ristagnava come una mistura velenosa nell’aria, occhi vacui osservavano con attenzione il nostro cammino, come se volessero indicarci la via per l’uscita più vicina.
I carcerieri e le loro fauci ringhianti ci vennero dietro come in una processione macabra. Svoltata una strada tetra, ci si parò innanzi un grande spazio aperto e ci bloccammo, rapiti da quello spettacolo orrendo.

Come accade ad Arles, dove ristagna il corso del Rodano, o a Pola, nei pressi del Quarnaro che bagna, chiudendoli, i confini dell’Italia, dove i sepolcri rendono i pavimenti delle chiese accidentati, così avveniva in quello spiazzo. I sepolcri di Dite, però, generavano più dolore di un semplice commiato: questi erano tanto divorati dalle fiamme, che nessun artigiano avrebbe chiesto un ferro più caldo. Dai coperchi aperti fuoriuscivano dei terribili lamenti, testimonianza di una terribile agonia. Solo allora capii di osservare la fonte del colore rosso acceso dei minareti e delle cupole, del bagliore che la città emanava e che, come magma, pulsava tra le mura oscure.

Mi rivolsi a Virgilio: «Maestro, chi sono queste anime che gemono nei sepolcri?». Ed elli mi rispose, mentre ne guardava uno finemente istoriato: «Quelli sono gli eretici e i loro seguaci di ogni setta. Sappi che le tombe sono colme di corpi, più di quanto tu possa immaginare. Ogni dannato riposa con un proprio simile e ogni sepolcro alterna il proprio calore, prima più caldo, poi più freddo. Il refrigerio è solo il preambolo di un nuovo tormento, di una vampata più rovente».
Poi la mia guida girò verso destra e passammo tra quei martiri e i loro alti spalti.

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di Vito Castagna

CANTO IX (parte prima)

I moli di Dite vennero avvolti dalla nebbia spessa che risaliva dalla palude. I demoni e i dannati restarono asserragliati sulle mura, come intimoriti dalla nostra presenza. Dagli spalti si beffavano di noi, ma una inspiegabile paura divorava il petto dei cittadini infernali, forse frutto di quella loro tracotanza che aveva interrotto, con tanta alterigia, il nostro cammino.

Mi sedetti su una bitta screpolata e rivolsi lo sguardo verso il portale. Lentamente, i corpuscoli dei vapori smussarono i contorni degli oggetti e degli individui, rendendoli ancora più grotteschi. Le luci delle torce divennero macchie di colore giallognolo su quel bianco lattiginoso che cominciavamo a respirare. Anche Virgilio, nonostante la sua condizione, non riusciva a scorgere le mura.

Non gli restava che ascoltare, mentre camminava innervosito di fronte a me, le minacce e le offese dei diavoli. Era così insicuro che le sue parole precedenti sembravano del tutto false. Eppure, attendevamo il nostro salvatore, aggrappati a quella flebile speranza, perché non saremmo potuti tornare indietro, accerchiati dalla palude e dalla città. Nei gironi infernali vi si può solo scendere, precipitare nella rovina, in basso, fino all’abisso; tornare indietro, verso la luce del giorno, è impossibile.

«Dovremo pur vincere questa battaglia, a meno che non mi abbiano mentito… Basta dubitare… Lassù ci hanno promesso un aiuto. Vorrei che fosse già qui e che sbrecciasse queste mura!». La mia guida si mordeva le unghie, parlava fra sé, dubitava della parola di Dio. Poi, colto nuovamente il senno, ritrattava ogni timore e cercava di infondersi speranza. Nonostante tutto, di fronte a quella tempesta dell’animo, covavo in me una profonda paura. Cercavo di interpretare i suoi silenzi e li coloravo con una tinta di disfatta, forse più di quanto lo fossero realmente.

Nel tentativo di sviare quei pensieri nefasti, mi rivolsi a lui: «Mai nessuno dal primo cerchio discese in questo triste luogo?» e lui mi rispose: «E’ capitato di rado. In verità, io stesso feci questo cammino quando venni ingannato dalla maga Eritone. Ella mi fece entrare a Dite per far fuggire un’anima condannata nel cerchio dei Giudei, il punto più profondo dell’Inferno, il più lontano dal cielo. Ecco perché conosco questa strada ma, ahimè, non vi altra via se non quella che attraversa la città».

Mentre ascoltavo le sue parole, la nebbia cominciò a diradarsi. Venni attratto dalla torre più alta e dalle Furie infernali che si affacciavano da essa. Il loro corpo femmineo era ricoperto di sangue nero e cinto dalle spire verdi di idre fino al petto. La folta chioma era costituita da serpi che si annodavano fra loro e che gli accarezzavano la fronte e le tempie. Virgilio scoprì subito ciò che aveva rapito la mia attenzione, riconoscendo le meschine serve di Proserpina, la regina dell’Inferno: «Guarda le feroci Erinni. Quella alla sinistra è Megera, quella che piange a destra è Alletto, nel mezzo vi è Tesifone» poi, con lo sguardo fisso su di loro, tacque.

Dall’alto le tre si straziavano i seni nudi con le unghie, si battevano con violenza e urlavano contro di me: «O Medusa, o Medusa, vieni a noi! Tramutalo in pietra. Facemmo male a non vendicare l’azione di Teseo. Pagherà quel vivo là sotto questa colpa!».

Virgilio mi si parò innanzi ordinandomi di chiudere gli occhi: «Se guardassi la Gorgone, non potresti tornare nel mondo dei vivi!». Detto ciò, pose le sue mani sulle mie per occludere, con maggiore efficacia, il mio sguardo. Ad un tratto, ci colse un frastuono improvviso che scosse le viscere dello Stige facendone tremare le sponde. Sembrava un vento impetuoso che squassa i boschi e ne spezza i rami, che fiero fa fuggire gli armenti e i pastori. Atterriti, ci voltammo verso la palude.

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