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Divina Commedia

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Nella ricorrenza dei 700 anni dalla morte del sommo poeta Dante Alighieri, l’autore del presente articolo, Vito Castagna, ci introduce nel suo originale progetto di “tradurre” alcuni canti della Divina Commedia in “agili racconti” e aiutare il lettore ad empatizzare e comprendere meglio l’opera originale.

di Vito Castagna

Dante Alighieri, il poeta fiorentino ramingo, morì il 14 settembre 1321 a Ravenna, all’età di 56 anni (mi preme riportare gli anni di vita per uscire dalla polvere apatica del tempo), dopo aver lasciato ai posteri i frutti di una lunga attività artistica, nella quale svetta la Divina Commedia.

Sandro Botticelli, Divina Commedia inferno (1480 circa)

Sono trascorsi esattamente 700 anni dalla morte di Dante e, come ben sapete, il mondo della cultura si è già mosso per celebrare nel migliore dei modi l’evento. Il Dantedì, festeggiato il 25 marzo scorso, ricorda il giorno nel quale il Dante personaggio si perse nei meandri della selva oscura, la prima tappa che l’avrebbe poi portato ad attraversare il mondo ultraterreno e a raggiungere gli scranni celesti.

John Flaxman, Virgilio e Dante (1793)

La Commedia, divenuta e riconosciuta come un patrimonio imprescindibile, è stata ampiamente studiata, soprattutto dai giovani che nelle scuole hanno potuto saggiare alcuni suoi passi; per alcuni sono stati dei bocconi dolcissimi, per la maggior parte, amari e in alcuni casi indigesti.

Eugene Delacroix, La barca di Dante (1822)

Pur essendo vero che nel corso del tempo l’impoverimento lessicale abbia nociuto agli italiani di tutte le età, va detto che l’opera di Dante è di difficile comprensione. La Commedia, scritta tra il 1304 e il 1307, con i suoi versi allegorici, con i suoi riferimenti politici e con la sua complessa, quanto eterogenea, teoria di personaggi era dedicata ad un pubblico dotto che potesse capirla. La forma dell’opera è una delle sue espressioni più alte ma è anche uno dei suoi più grandi limiti.

William Blake, Inferno (1824-1827)

Essa può gratificare il lettore quanto scoraggiarlo, trasportandolo in un lucente labirinto inestricabile. Trovandomi anch’io in questa stessa situazione ai tempi della scuola, ho pensato di “tradurre” alcuni canti della Divina Commedia in agili racconti che possano permettere una maggiore fruizione e magari trasmettere un’empatia che spinga il lettore a leggere l’opera originale e magari, e questo sarebbe forse il più grande risultato, a comprenderla un po’ meglio. Inoltre, non mi pongo l’obiettivo di una mera parafrasi ma di una reinterpretazione personale del narrato attraverso la mia personale sensibilità. Mi si conceda questo contributo, nella speranza di non incappare in una parafrasi o in una parodia.

William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nell’Inferno (1850)

Concludo con una domanda che potreste rivolgermi o, quantomeno, che pongo a me stesso: “Questa operazione è attuale?”
Riscrivere alcuni canti della Divina Commedia va oltre il contingente anniversario della morte di Dante. In un periodo come questo, nel quale lo spostamento è precluso, l’opera del sommo poeta rappresenta il prototipo dell’unico viaggio possibile, quello metafisico che può avvenire solo nella mente e che si specchia negli occhi del viaggiatore assorto durante una siesta.

Dante Gabriel Rossetti, Il saluto di Beatrice (1882)

Parlandoci del mondo ultraterreno, Dante ci descrive il suo mondo, o forse, come ogni scrittore, lo trasforma e lo reinventa.
Credo che anche noi, nelle ristrettezze quotidiane presenti e future, dovremmo seguire questo esempio.

Salvador Dalì, Lucifero (1965)

di Vito Castagna

(Canti XXXII – XXXIII)

«Ti converrà dirmi il tuo nome se non vuoi che ti strappi i capelli!». Afferrai un dannato per la chioma guardando con rabbia il suo corpo attanagliato dal ghiaccio del Lago Cocito. «Potrai pure togliermi tutti i capelli e potrai colpirmi mille volte ma non ti dirò chi sono! Le tue promesse di fama qui non hanno valore».

Iniziai a strappargli delle ciocche e quello urlò di dolore, più latrava e più provavo un inconsapevole piacere che mi spingeva a continuare. Fortunatamente, un altro peccatore si volse verso la vittima e attirò la mia attenzione, frenando la mia collera: «Che succede Bocca? Perché fai così tanto rumore, qualche diavolo ti tormenta?». A quelle parole lasciai i capelli che tenevo stretti tra le mani; la repulsione aveva preso ormai il posto della rabbia: «Non voglio sapere più nulla di te, traditore, ma ti infamerò con queste mie mani».

Dopo il fuoco dell’ira, il freddo attanagliò nuovamente il mio corpo. Cercai di non colpire altre teste coi miei piedi, così come avevo fatto con Bocca degli Abati. I corpi dei traditori erano incastonati in un ghiaccio così lucido da sembrare vetro, il gelo era talmente pungente da tramutare in pochi istanti le lacrime in scaglie ghiacciate. Gli occhi dei dannati erano ricoperti di squame bluastre.

Ci allontanammo. Dopo pochi passi, vidi due dannati con i corpi avvinghiati fra loro e, così come si addenta il pane, il primo addentava la nuca dell’altro. Mi chinai su di loro e mi rivolsi all’iracondo: «Perché fai questo? Se tu hai ragione nel farlo, io parlerò di te nel mondo dei vivi. Sempre che la lingua non mi caschi prima dal freddo».

Questi lasciò la presa, poi si pulì le labbra coi capelli di chi aveva ferito: «Tu vuoi che rinnovi il dolore che mi attanaglia il cuore. Ma se quanto ti dirò coprirà di infamia questi che addento, allora te lo racconterò senza poter frenare le lacrime. Io sono il conte Ugolino e questo traditore al mio fianco è l’Arcivescovo di Pisa, Ruggieri. Non è mistero che venni catturato e fatto uccidere per sua volontà, mentre mi fidavo di lui; ti racconterò invece della terribile morte che mi riservò, in modo che tu possa giudicare la sua condotta. 

Ero già imprigionato da molto tempo nella torre della Muda, quando feci un incubo che fu rivelatore del mio destino: Ruggieri guidava una battuta di caccia al lupo e ai suoi cuccioli. Davanti vi erano delle cagne magre, con i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi ma, quando la bestia e i suoi cuccioli mi sembrarono stanchi, le cagne li addentarono ai fianchi. Mi svegliai di soprassalto, col respiro affannato. Poi, col bagliore della luna, riuscii a scorgere i visi rigati di pianto dei miei figli, che nel sonno supplicavano il pane.

Si erano già svegliati quando udii il battere del martello sulla porta della torre, mentre gli aguzzini ci muravano vivi. Decisi di non dire nulla ma la fame cominciava a divorarci i visceri. Il mio sguardo si perse nel vuoto e il mio Anselmuccio mi chiese che cosa avessi, ma non risposi e non piansi per tutto il giorno, fino all’alba seguente.

Quando un raggio passò dalla feritoia e illuminò la buia cella, scorsi nei loro visi scarni la mia condizione e dalla disperazione cominciai a mordermi le mani per non urlare. I miei figli, vedendomi in quello stato, pensarono che avessi fame e mi dissero: “Padre, mangiaci. Sarà meno doloroso di vederti così; tu ci vestisti di queste carni, ora spogliaci”.

Cercai di rasserenarli mostrandomi più quieto. Nei due giorni seguenti, tra i sospiri e il sordo rumore dei crampi, pregai più volte che di colpo la terra ci inghiottisse. Al quarto giorno Gabbo si gettò ai miei piedi, aveva le orbite infossate nel cranio, e mi disse con un flebile respiro: “Padre, perché non mi aiuti?”.

Morì poco dopo e allo stesso modo vidi spirare gli altri miei tre figli, uno ad uno, tra il quinto e il sesto giorno. Brancolai con lo sguardo spento sopra i loro corpi, li chiamai e li scossi per due giorni ma nessuno rispose. Fu allora che il dolore venne sopraffatto dalla fame».

Con le lacrime ormai divenute punte di ghiaccio sui suoi occhi, addentò con maggiore violenza l’Arcivescovo e così, col sangue tra i denti, si zittì.

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di Vito Castagna

(Canto XXXI)

Abbandonammo le Malebolge senza dire una parola. Solo qualche pietra che si staccava dal costone roccioso e rotolava verso il fondo spezzava quel nostro silenzio e distoglieva i miei pensieri dal sangue appiccicoso che avevo visto scorrere dai corpi mutilati, dalla furia dei falsari che spinge l’uomo ad azzannare coi denti il proprio compagno. A quanto dolore avrei dovuto assistere, mi chiedevo; quanto in fondo sarei dovuto scendere per sfuggire dai peccati dell’uomo? Più conosco e più mi perdo in questo labirinto.

Ad un tratto, il canto di un corno arrivò da lontano, fendendo quella luce irreale che non apparteneva né al giorno né alla notte. Fu un suono così forte che avrebbe zittito il rombo dei tuoni e che mi spinse ad indovinarne la direzione. Nemmeno Orlando avrebbe potuto suonare con così tanta veemenza il suo corno a Roncisvalle, pesai. Poi, la luce si fece un poco più alta e riuscii a scorgere delle torri, che mai mi sarei aspettato in quel luogo: «Maestro, dove siamo? Quelle laggiù sono torri!» ed egli mi rispose: «Tu guardi troppo da lontano. Queste tenebre ti fanno vedere quello che non c’è». Virgilio sembrava irritato dalla mia affermazione ma, forse ricordatosi dei miei limiti umani, prese la mia mano e disse dolcemente: «Quelle non sono torri, sono giganti. E stanno tutti intorno a questa voragine, conficcati nella roccia dall’ombelico in giù».

Come quando la nebbia si dissipa, riuscii lentamente a scorgere quelle figure; pareva di scorgere Monteriggioni incoronata di torri, qui, invece, i giganti svettavano su quel pozzo nero. Eravamo così vicini che ne potevo scorgere le fattezze. La Natura fece bene a smettere di generare tali bestie, questo è un esempio della sua saggezza. Nessuno, infatti, potrebbe resistere ad una tale unione di razionalità, crudeltà e forza.

Ne vidi uno che aveva il volto talmente grosso e allungato che somigliava alla Pigna di San Pietro e di quella proporzione erano tutte le altre membra. Quello si volse verso di noi con gli occhi stralunati e cominciò ad urlare: «Raphél maì amèche zabì almi!». La sua voce era talmente possente che una raffica di vento ci travolse. Virgilio non se ne turbò e gli disse: «Anima sciocca, sfoga la tua ira col tuo corno piuttosto! È lì, legato al tuo collo e sta sul tuo petto!». Poi si rivolse a me: «Questo è Nembrod, fu lui a far costruire la torre di Babele ed è per colpa sua se oggi si parlano così tante lingue. Lasciamolo stare, perché tutto ciò che diciamo gli sarà incomprensibile, così come lo sono le parole che pronuncia».

Ci allontanammo fino ad imbatterci in un altro gigante possente, dalle braccia legate dietro la schiena da una catena avvolta attorno al suo corpo: «Questo è Fialte, colui che sfidò Giove quando i titani diedero battaglia agli dei. Quelle braccia che levò contro di loro adesso sono legate. L’altro che vedi qui vicino è Anteo, l’unico a non essere imprigionato nella roccia» e lo indicò col dito. Fialte tentò di muoversi e la terra si scosse con così tanta forza che una torre sarebbe caduta al suolo. Le catene lo tenevano divincolato, serrandogli il collo, e quello provò con tutte le sue forze a romperne gli anelli, ma fu tutto vano. Mai come allora temetti di morire.

Corremmo verso Anteo, così alto da uscire per sette metri dal proprio anfratto. Virgilio si rivolse a lui: «Anteo, deponici sui ghiacci del Cocito. Questi che è con me è vivo e potrà darti la gloria sulla terra». A quelle parole, il gigante aprì il palmo della sua mano e ce lo parò dinanzi. Virgilio allora mi abbracciò, come se fossimo un unico fascio. Anteo ci prese ed era tanto enorme a vedersi che sembrava stesse per cadere su di me. Poi, lentamente, ci depose sul fondo ghiacciato, che punge Lucifero e Giuda, e tornò indietro.

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di Vito Castagna

(CANTI XXI-XXII)

«Vada Malacoda!» urlarono i demoni. Virgilio rimase impassibile sul ponte che conduceva alla quinta bolgia. Il diavolo si fece avanti, osannato dai suoi e si parò dinanzi a lui. «Perché siete qui?», sputò tutto d’un fiato. «Lasciaci andare, Malacoda, perché questo nostro viaggio è voluto dal Cielo». A quelle parole l’abominio gettò a terra il suo uncino e perse ogni spavalderia. I compagni, dal canto loro, lo guardarono increduli e strinsero ancora più forte le loro lance uncinate, mentre coi denti ringhiavano contro Virgilio. Malacoda intimò ai suoi di smettere: «Non avete sentito? Non fategli alcun male!».I diavoli Malebranche

Solo allora il mio maestro si voltò verso lo sperone roccioso dietro al quale mi nascondevo. «Puoi venire, non c’è più pericolo». Percorsi il tratto di ponte che ci separava ma, quando fui accanto a Virgilio, i diavoli mi si fecero incontro. Temetti che non volessero rispettare i patti. Quelli ci giravano intorno, pronti ad assalire la preda: «Vuoi che lo colpisca alla schiena?» disse uno, un altro rispose: «Sì, dagli un bel colpo». Malacoda afferrò quello per un braccio: «Sta fermo, Scarmaglione!». Poi, si rivolse a noi: «Il ponte che collega la quinta alla sesta bolgia è crollato. Dovrete procedere lungo l’argine, lì troverete un nuovo ponte. I miei diavoli vanno in quella direzione per controllare che i dannati non escano dalla pece. Andate con loro, non vi daranno fastidio».

Il demone scelse dieci abomini, nominandoli uno ad uno. Quelli si raccolsero ma, solo dopo il peto del crudele Barbariccia, cominciarono ad attraversare il ponte. Non ci restava che seguirli. Sotto di noi la pece ribolliva e con essa i barattieri che vi si immergevano a forza. Alcuni peccatori però, col desiderio di trovare sollievo dalla pena, facevano emergere la schiena da quel catrame e poi, timorosi che i diavoli li arpionassero, la rimmergevano velocemente.I diavoli Malebranche

Durante la nostra marcia scorsi un dannato che si attardava sul pelo della pece. Non fui il solo. Graffiacane, uno dei diavoli, lo afferrò per i capelli col suo uncino e lo estrasse mostrandolo agli altri come un premio. «Rubicante, scuoialo!» gridarono tutti. Mi rivolsi a Virgilio: «Vorrei sapere chi è quello sventurato». Il mio maestro si avvicinò alla vittima che si dimenava in aria e quella rispose: «Nacqui in Navarra… Mia madre mi mise al servizio di un signore, un suicida! Poi servii re Tebaldo». Ad un tratto un demone lo ferì con un dente che pareva la zanna di un cinghiale. Barbariccia, invece, prese il peccatore per le braccia: «Fatevi da parte, adesso lo infilzo!». Mentre lo guardava dimenarsi si voltò verso Virgilio: «Fagli qualche domanda ora, prima che lo facciamo a pezzi!».I diavoli Malebranche

Il mio maestro era visibilmente raccapricciato, ma obbedì. I due cominciarono a parlare degli italiani che erano presenti nella bolgia. D’un tratto Libicocco trafisse il braccio del prigioniero con l’uncino: «Abbiamo atteso abbastanza!» e gli strappò la carne dall’arto. Un altro infierì su una gamba. Guardandosi le ferite, si rivolse a noi e ai suoi aguzzini: «Se volete vedere toscani e lombardi, li farò venire, ma i demoni stiano lontani, altrimenti nessuno vorrà avvicinarsi». Cagnazzo urlò: «Senti che ha escogitato per rigettarsi nella pece!». Allora, il dannato si difese dalle accuse e i demoni, convinti, arretrarono per non farsi scorgere dai peccatori. Il navarrese, con un rapido movimento, posò i piedi a terra e si divincolò. Con un tuffo si immerse nella pece bollente, suo tormento e salvezza. I demoni infuriati lo inseguirono volando, ma fu tutto inutile. Irati, si scagliarono uno contro l’altro. Alcuni caddero nella pece, ricoprendosi le ali di catrame. Mentre quelli si graffiavano e mordevano, io e Virgilio fuggimmo.I diavoli Malebranche

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di Vito Castagna

CANTO XII (parte prima)

Scendemmo lungo una scarpata scoscesa, una frana ormai salda nel suo equilibrio precario. Ed infatti, ad ogni mio passo, le rocce fremevano sotto i calzari e alcune ruzzolavano rumorosamente verso il fondo cupo. Temevo di poter precipitare, per colpa di un sasso o della debolezza delle mie gambe ma, quando trovavo una base salda, volgevo lo sguardo verso Virgilio che, come un daino, scendeva lesto. La sua agilità mi infondeva una strana sicurezza e la tenacia per poter andare avanti. 

Ad un tratto, durante la discesa, le parole di Cavalcanti mi tornarono alla mente. Perché esitai a rispondere quando mi chiese se suo figlio Guido fosse vivo? Forse furono le parole di Farinata a scuotermi ma non saprei dirlo con certezza. Se solo Cavalcante dei Cavalcanti mi avesse dato il tempo di dissipare i mostri di Montaperti dalla mia testa. Se solo avesse atteso un’istante, prima di affondare nuovamente tra le fiamme del suo sepolcro, avrei potuto dirgli che il figlio non era morto come egli, invece, aveva dedotto dal mio silenzio. Ora non sarebbe disperato e io non porterei questo peso nel cuore.

Non era soltanto il dolore recato ad un padre a darmi spiacere; la profezia di Farinata degli Uberti era un presagio nefasto. A suo dire, tra soli quattro anni, sarò esiliato dalla mia Firenze. Forse, mentiva per rispondermi a tono, o almeno lo spero… Di colpo, scorsi qualcosa tra i sassi, una figura animalesca distesa sull’antico pietrame.

Quando fui più vicino la riconobbi. Il Minotauro, la vergogna di Creta, nato da una donna e da un toro, si issò sui suoi arti e, alla nostra vista, corrotto dall’ira, cominciò a mordersi le membra. Virgilio allora gli gridò: «Forse credi che con noi viaggi Teseo, colui che ti diede la morte? Vai via, bestia! Costui non venne guidato da Arianna, tua sorella, ma è qui per vedere i vostri tormenti!».

Il mostro venne stordito da quelle parole, come il toro che colpito a morte barcolla prima di stramazzare al suolo. Solo allora, la mia guida si rivolse a me indicandomi la via: «Corri, ora la bestia è attanagliata dalla propria furia; lì c’è il passaggio».

Lasciammo il mostro e i suoi muggiti alle nostre spalle. La via indicatami, purtroppo, era più impervia della precedente e ogni pietra si smuoveva al mio peso. Vedendomi pensieroso, Virgilio disse: «Forse ti starai chiedendo cosa ha generato questa frana, che era sorvegliata dal mostro che ho ammansito. Sappi che l’ultima volta che fui qui le rocce che vedi non erano crollate. Se ben ricordo, questo è accaduto prima che Cristo discendesse e portasse con sé i patriarchi del Primo cerchio. Quella volta tutto l’Inferno venne scosso da un terremoto, tanto violento che credetti che tutto l’universo precipitasse nel caos. Fu allora che si formò questa frana. Ma adesso guarda in fondo! Quello è il Flegetonte, il fiume di sangue nel quale ribollono i violenti».

Oh, cieca cupidigia, oh folle ira, che ci guidate nella breve vita terrena per poi farci gemere eternamente in queste acque! Sotto di noi vi era una delle anse del fiume che fendeva la pianura, così come mi aveva detto la mia guida, e tra i ciottoli e le rocce galoppavano dei centauri con gli archi in pugno e le faretre appese alla schiera, come se fossero a caccia.

Incuriositi dalla nostra venuta, si raggrupparono di fronte a noi, sbarrandoci la strada. Dopo, tre di loro si avvicinarono a noi, armati. Uno di loro gridò da lontano: «A quale tormento vi state recando, voi che scendete questo dirupo? Rispondete, se non volete essere colpiti dalle nostre frecce!».

Senza battere ciglio, Virgilio rispose: «Parleremo solo con Chirone, quando saremo più vicini. La tua impulsività ti si è rivoltata sempre contro, dovresti saperlo!». Poi mi chiamò a sé e mi disse: «Quello è Nesso, che morì nel tentativo di rapire la bella Deianira e che si vendicò di Ercole col suo stesso sangue. Quello in mezzo, che si guarda il petto, è il saggio Chirone, precettore di Achille; l’ultimo è Folo, che visse nell’ira. Questi centauri galoppano intorno al fiume e bersagliano le anime che tentano di fuggire dal sangue che ribolle».
Cautamente, con i dardi puntati contro il cuore, ci dirigemmo verso di loro.

Link al canto IX (parte seconda) CLICCATE QUI

di Vito Castagna

CANTO IX (parte seconda)

Le nostre membra stanche cominciarono a fremere, così come le spesse mura che sembravano squarciarsi di fronte a noi. Un demone dal grugno suino, che spavaldo ci sbeffeggiava appollaiato sugli spalti, perse l’equilibrio e precipitò divenendo poltiglia al suolo. Alla nostra sinistra, lo Stige ribolliva, come se nel suo greto vi fosse una fornace ardente.

Virgilio, nel frastuono, urlò: «Apri gli occhi e guarda la palude che schiuma, lì dove la nebbia è più fitta!». Tolse le mani che aveva imposto sul mio viso ed osservai spaventato il luogo che mi aveva indicato. Come le rane, che difronte alla biscia che fluttua sull’acqua, fuggono verso la riva, vidi un dedalo di corpi feriti che si riversava all’infuori dello Stige; le anime si sbracciavano tra le onde increspate dal tremore, altre, invece, correvano sul bagnasciuga scivolando sulla melma e calpestandosi. Fuggivano da un individuo che, in lontananza, camminava sull’acqua senza bagnare il palmo dei suo candidi piedi.

Il terremoto cominciò lentamente a placarsi. Colui che giungeva dall’epicentro della scossa avanzava verso di noi, scansando con la mano sinistra gli spessi vapori della palude che gli celavano il volto. Nei gesti e nelle sue smorfie non vidi altro che fastidio per i miasmi e disgusto per quel luogo. Non ebbi dubbi che costui era la nostra salvezza, il messo disceso dal Cielo che avrebbe sfondato le porte di Dite. Mi voltai verso Virgilio con il cuore colmo di gioia, egli, però, mi richiamò ad un atteggiamento più decoroso e mi invitò ad inchinarmi di fronte al nuovo venuto.

Nonostante il nostro gesto, quell’angelo maestoso non ci degnò di uno sguardo e, con passi lenti e infallibili, calpestò il corpo del demone precipitato qualche istante prima, dirigendosi verso l’accesso della città. I demoni all’interno, infiacchiti dalla scossa, persero ogni baldanza dinanzi al messo celeste. Tutto venne colto da un assordante silenzio. L’angelo estrasse una verga d’oro dall’orlo della sua veste purpurea e aprì la porta. I cardini cigolarono e questa cadde contro i demoni con un gran tonfo.

«Voi cacciati dal cielo, gente disprezzata, da dove nasce questa vostra tracotanza? Perché siete recalcitranti a quel volere che non può non raggiungere il suo scopo, e che tante volte ha accresciuto i vostri tormenti? A che serve opporsi? Ricordate, Cerbero porta il mento e la gola spellati a causa della vostra stessa colpa!». Detto ciò, volse le spalle contro i difensori sconfitti e, con la fronte corrucciata da altri pensieri, si diresse verso lo Stige, senza dirci nulla, ma noi, rincuorati dalle sue sante parole, decidemmo di varcare la soglia della città dannata.

Attraversammo il fossato, poi il portone divelto. I demoni ci fecero largo senza opporre resistenza. Dite si aprì a noi mostrandoci ciò che le sue mura avevano con tanta gelosia celato; dolori e tormenti serpeggiavano tra le meste vie. Il male ristagnava come una mistura velenosa nell’aria, occhi vacui osservavano con attenzione il nostro cammino, come se volessero indicarci la via per l’uscita più vicina.
I carcerieri e le loro fauci ringhianti ci vennero dietro come in una processione macabra. Svoltata una strada tetra, ci si parò innanzi un grande spazio aperto e ci bloccammo, rapiti da quello spettacolo orrendo.

Come accade ad Arles, dove ristagna il corso del Rodano, o a Pola, nei pressi del Quarnaro che bagna, chiudendoli, i confini dell’Italia, dove i sepolcri rendono i pavimenti delle chiese accidentati, così avveniva in quello spiazzo. I sepolcri di Dite, però, generavano più dolore di un semplice commiato: questi erano tanto divorati dalle fiamme, che nessun artigiano avrebbe chiesto un ferro più caldo. Dai coperchi aperti fuoriuscivano dei terribili lamenti, testimonianza di una terribile agonia. Solo allora capii di osservare la fonte del colore rosso acceso dei minareti e delle cupole, del bagliore che la città emanava e che, come magma, pulsava tra le mura oscure.

Mi rivolsi a Virgilio: «Maestro, chi sono queste anime che gemono nei sepolcri?». Ed elli mi rispose, mentre ne guardava uno finemente istoriato: «Quelli sono gli eretici e i loro seguaci di ogni setta. Sappi che le tombe sono colme di corpi, più di quanto tu possa immaginare. Ogni dannato riposa con un proprio simile e ogni sepolcro alterna il proprio calore, prima più caldo, poi più freddo. Il refrigerio è solo il preambolo di un nuovo tormento, di una vampata più rovente».
Poi la mia guida girò verso destra e passammo tra quei martiri e i loro alti spalti.

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di Vito Castagna

CANTO IX (parte prima)

I moli di Dite vennero avvolti dalla nebbia spessa che risaliva dalla palude. I demoni e i dannati restarono asserragliati sulle mura, come intimoriti dalla nostra presenza. Dagli spalti si beffavano di noi, ma una inspiegabile paura divorava il petto dei cittadini infernali, forse frutto di quella loro tracotanza che aveva interrotto, con tanta alterigia, il nostro cammino.

Mi sedetti su una bitta screpolata e rivolsi lo sguardo verso il portale. Lentamente, i corpuscoli dei vapori smussarono i contorni degli oggetti e degli individui, rendendoli ancora più grotteschi. Le luci delle torce divennero macchie di colore giallognolo su quel bianco lattiginoso che cominciavamo a respirare. Anche Virgilio, nonostante la sua condizione, non riusciva a scorgere le mura.

Non gli restava che ascoltare, mentre camminava innervosito di fronte a me, le minacce e le offese dei diavoli. Era così insicuro che le sue parole precedenti sembravano del tutto false. Eppure, attendevamo il nostro salvatore, aggrappati a quella flebile speranza, perché non saremmo potuti tornare indietro, accerchiati dalla palude e dalla città. Nei gironi infernali vi si può solo scendere, precipitare nella rovina, in basso, fino all’abisso; tornare indietro, verso la luce del giorno, è impossibile.

«Dovremo pur vincere questa battaglia, a meno che non mi abbiano mentito… Basta dubitare… Lassù ci hanno promesso un aiuto. Vorrei che fosse già qui e che sbrecciasse queste mura!». La mia guida si mordeva le unghie, parlava fra sé, dubitava della parola di Dio. Poi, colto nuovamente il senno, ritrattava ogni timore e cercava di infondersi speranza. Nonostante tutto, di fronte a quella tempesta dell’animo, covavo in me una profonda paura. Cercavo di interpretare i suoi silenzi e li coloravo con una tinta di disfatta, forse più di quanto lo fossero realmente.

Nel tentativo di sviare quei pensieri nefasti, mi rivolsi a lui: «Mai nessuno dal primo cerchio discese in questo triste luogo?» e lui mi rispose: «E’ capitato di rado. In verità, io stesso feci questo cammino quando venni ingannato dalla maga Eritone. Ella mi fece entrare a Dite per far fuggire un’anima condannata nel cerchio dei Giudei, il punto più profondo dell’Inferno, il più lontano dal cielo. Ecco perché conosco questa strada ma, ahimè, non vi altra via se non quella che attraversa la città».

Mentre ascoltavo le sue parole, la nebbia cominciò a diradarsi. Venni attratto dalla torre più alta e dalle Furie infernali che si affacciavano da essa. Il loro corpo femmineo era ricoperto di sangue nero e cinto dalle spire verdi di idre fino al petto. La folta chioma era costituita da serpi che si annodavano fra loro e che gli accarezzavano la fronte e le tempie. Virgilio scoprì subito ciò che aveva rapito la mia attenzione, riconoscendo le meschine serve di Proserpina, la regina dell’Inferno: «Guarda le feroci Erinni. Quella alla sinistra è Megera, quella che piange a destra è Alletto, nel mezzo vi è Tesifone» poi, con lo sguardo fisso su di loro, tacque.

Dall’alto le tre si straziavano i seni nudi con le unghie, si battevano con violenza e urlavano contro di me: «O Medusa, o Medusa, vieni a noi! Tramutalo in pietra. Facemmo male a non vendicare l’azione di Teseo. Pagherà quel vivo là sotto questa colpa!».

Virgilio mi si parò innanzi ordinandomi di chiudere gli occhi: «Se guardassi la Gorgone, non potresti tornare nel mondo dei vivi!». Detto ciò, pose le sue mani sulle mie per occludere, con maggiore efficacia, il mio sguardo. Ad un tratto, ci colse un frastuono improvviso che scosse le viscere dello Stige facendone tremare le sponde. Sembrava un vento impetuoso che squassa i boschi e ne spezza i rami, che fiero fa fuggire gli armenti e i pastori. Atterriti, ci voltammo verso la palude.

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di Vito Castagna

CANTO VIII (parte seconda)

Il dannato raccolse tutte le sue forze per lanciarsi contro di me. I suoi muscoli guizzavano dal fango, come se del sangue caldo li nutrisse e copioso ne dilatasse i vasi. Ero atterrito e già mi immaginavo nel fondo del lago, dilaniato dalle sue mani e dalla sua bocca marcescente. Virgilio, accortosi solo allora di quell’inaspettato passeggero, si sporse dalla barca. L’anima lo fissò immobile spalancando gli occhi, priva di coraggio.

«Vattene via! Ritorna con gli altri cani!». Dopo queste parole, affondò il calzare nel volto dell’aggressore. Questi non ebbe il tempo di reagire e, ferito tra il naso e l’occhio destro, cadde nella melma. Poi Virgilio, come elettrizzato dalla sua stessa audacia, mi abbracciò e mi baciò una guancia: «Che anima sdegnosa!». Con spregio sputò nell’acqua. «Sia benedetta colei che ti partorì» mi disse continuando ad osservare la sua saliva nella melma, che velocemente stavamo per lasciarci dietro. Questa rimase a galla prima di oltrepassare un leggero strato di muschio galleggiante.

«Quel dannato fu in vita tanto orgoglioso che nessuna buona azione rese onore alla sua memoria. Per questo la sua anima giace qui, colma di ira. Coloro che lassù si credono dei grandi Re, quaggiù saranno dei porci che si dimenano nel fango. Nessuno li ricorderà con benevolenza».

Ed io, ancora scosso da quanto accaduto, pronunciai parole crudeli, cariche di risentimento: «Prima di lasciare questo luogo maledetto, vorrei vederlo affondare nella palude per non far più ritorno». Sedutosi a prua mi rispose: «Il tuo desiderio si avvererà molto presto».

Guardai la scia che, come una ferita, ci lasciavamo alle spalle fendendo il muschio. Il capo del dannato affiorò dal pelo dell’acqua rendendo ben visibile la ferita purulenta che gli aveva causato Virgilio. Improvvisamente venne tirato in fondo, poi si generò della schiuma attorno a lui e un groviglio di mani si abbattè su quel corpo già offeso. Gli iracondi si accalcavano gridando: «Addosso a Filippo Argenti!». L’orgoglioso si fece largo con bracciate ampie ma, divorato dalla follia, cominciò a mordersi gli arti egli stesso, provocandosi delle ferite profonde. Un’onda di corpi lo avvolse. Seguirono dei rantolii strozzati, il rumore dell’acqua smossa violentemente. Infine, vi fu silenzio e la palude dello Stige tornò quieta.

Inorridito dal destino di quel concittadino, distolsi lo sguardo. Intanto, un lamento funebre forava i vapori e risuonava nelle mie orecchie, raggelandomi il cuore. Virgilio conosceva la provenienza di quel pianto disperato. «Ci stiamo avvicinando alla città di Dite, patria di cittadini afflitti e di orde di demoni. Ascolta il loro canto, monito per chi vi viene condotto». Scorsi tra la nebbia dei bagliori indistinti, poi la luce divenne più nitida e di fronte a me svettarono le cupole rosse delle moschee, dal colore tanto acceso da sembrare uscite da una fornace arroventata dalle fiamme del basso Inferno.

Raggiungemmo i fossati della città e le mura di ferro si stagliarono minacciose di fronte a noi. Dopo aver circumnavigato la cerchia merlata alla ricerca dei moli, Flegias attraccò su una passerella di legno, ricoperta di muschio, e ci ordinò di scendere. Non appena toccammo terra, in migliaia si precipitarono sugli spalti delle mura e mi osservarono chiedendosi chi fossi e perché mi recassi in quella città, pur essendo vivo. Quei grugni demoniaci mi facevano tremare i polsi. Virgilio si avvicinò al portale serrato e chiese di parlare con uno dei loro rappresentanti. «Vieni tu solo; il tuo compagno, invece, ritorni indietro, visto che ebbe l’ardire di addentrarsi in questo triste regno. Ritrovi da solo la via di casa» urlò un abominio da una feritoia. Trattenevo, tremante, il braccio alla mia guida. «Maestro, non vorrai dargli ascolto! Non mi abbandonare! Se non ci lasceranno passare, troveremo un’altra strada».

«Nessuno potrà opporsi al nostro viaggio. Ma devi aspettarmi qui, abbi fiducia in me!» disse. Si aprirono le porte ed una nutrita folla fece cerchio attorno al saggio. Non riuscii a comprendere le loro parole ma il colloquio non durò molto. La brigata si divise e gli abitanti di Dite si richiusero dietro le ombrose mura. Sconfortato, Virgilio tornò a me col capo chino. Poi, riuscì a trovare la forza di parlarmi: «Chi ci ha negato l’accesso alla città dolente… Non preoccuparti della mia rabbia, supereremo questa prova. La loro tracotanza sarà punita. Vedrai, qualcuno ci aiuterà!».

CANTO VI – VII – VIII (prima parte)

di Vito Castagna

CANTI VI – VII – VIII (prima parte)

Quando riaprii gli occhi, le due anime congiunte erano state ingoiate nuovamente della bufera. Col rammarico in cuore, eroso dalle loro parole, accettai di abbandonarli al loro destino e proseguii preceduto da Virgilio. Ci inabissammo lentamente tra i cerchi infernali. Il dolore e le urla sembravano stillare da ogni nostro passo, le impronte che ci lasciavamo alle spalle erano testimonianza della sofferenza trasmessaci da ciascun individuo che aveva incrociato il nostro sguardo, toccato le nostre vesti in cerca di pietà o sputatoci addosso una bestemmia.

L’incontro con Paolo e Francesca

Golosi, avari e prodighi pagavano senza posa gli eccessi delle loro indoli malsane. Chi si era ingozzato con avidità era sorvegliato dai sei occhi di Cerbero e veniva tempestato da una grandine violenta; chi aveva accumulato ricchezze con ingordigia era stato trasfigurato e costretto a spingere un masso per tutto il cerchio, così come chi aveva scialacquato i beni altrui senza remore.

Prodighi e avari si scontravano tra di loro seguendo itinerari opposti, colpendosi ed offendendosi nella loro miserabile condizione. Incappammo in loro, dopo aver udito le parole del mio concittadino Ciacco. Ci districammo tra quelle membra stremate senza riconoscere nessuno. Oltre all’acre puzzo di sudore, mi colpì la tonsura del capo di quest’ultime anime. Virgilio, saggiamente, mi rivelò che molti di loro erano chierici, cardinali e papi e che tutte i beni del mondo non avrebbero potuto placare la loro sete di ricchezza.

Cerbero

Accelerammo il passo. Per troppo tempo avevamo tardato sulla via, attratti febbrilmente dai tormenti dell’uomo. Giungemmo presso una fonte d’acqua scura che gorgogliava dalle viscere della roccia. La vena nera si riversava nella palude fetida dello Stige ed era costeggiata da un sentiero fangoso ed accidentato che fummo costretti a seguire. I miei calzari sprofondavano sempre di più nella melma.

Poi, l’acquitrino si aprì di fronte a noi e i suoi miasmi nauseabondi assalirono le nostre narici. Solo dopo esserci avvicinati, riuscii a scorgere delle anime che si aggrovigliavano nel fango. Gli iracondi affioravano dal pelo di quel liquido immondo e lo facevano ribollire con i loro frenetici movimenti. Con la bocca impastata di melma, alcuni urlavano un monito: «Noi fummo tristi in vita, covando un’ira incomprensibile. Ora ci rattristiamo nella palude nera!».

Gustave Dorè, Girone dei golosi. Dante parla con l’anima di Ciacco

Costeggiamo il pantano, poi, giungemmo ai piedi di una torre, sormontata da una fiaccola che era stata accesa al nostro arrivo. A questo segnale, ne seguì un secondo che brillò tra i vapori. Cosa poteva significare tutto questo? Mi rivolsi al mio maestro e lui mi rispose, cogliendo la mia preoccupazione: «Tra le onde sudice, potrai scorgere chi stiamo aspettando, sempre se i fumi del pantano non ti impediscano di vederlo». Fu proprio allora che scorsi una barca che fendeva le onde con impensabile velocità, tanto che nessun arco saettò una freccia nell’aria così rapidamente. Il nocchiero, giunto nei pressi della riva, si rivolse a me: «Finalmente sei arrivata, anima turpe!».

Giovanni Scifo, “Flegias”

Virgilio, immersosi nel fango fino ai polpacci, gli si fece incontro: «Flegias, tu gridi a vuoto! Verremo con te solo per oltrepassare la palude». Il demone, deluso da quelle parole, respinse nel ventre la sua ira. Poi, la mia guida salì sul legno e mi aiutò fraternamente nell’affrontare la stessa operazione.

Mentre stavamo fendendo l’acqua con la prua della barca, un dannato sbucò fuori dal fango e si aggrappò allo scafo. Resistendo alle onde, mi disse: «Chi sei tu, che giungi qui prematuramente?». Ed io: «Se sono qui, di certo non rimango. Ma tu chi sei? Che sei così brutto?». Il fango gli sommergeva il viso, sbucava con le braccia ancora forti e con altrettanta violenza veniva ricacciato nell’acqua. Sputando la melma, rispose: «Sono un’anima afflitta, non lo vedi?». Mi ritrassi indietro: «E rimarrai col dolore e la disperazione, spirito maledetto! Aspetta, io ti conosco, nonostante tu sia ricoperto di fango». A quella rivelazione, si protrasse furioso verso di me, pronto a gettarmi tra i liquami della palude.

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G. Stradano, “La barca di Flegias” (1587)

di Vito Castagna

CANTO V (parte prima)

Un forte tuono rimbombò nell’antro. Rinsavii. Ci trovavamo nella sponda infernale e attorno a noi vi era buio e nebbia, tanto spessi che inghiottivano il mio sguardo spossato. Le urla di dolore ci investivano con violenza. Poi, svoltammo per un irto sentiero e quel rumore incessante e incomprensibile si affievolì prima di cessare del tutto.

Giunti in una radura, incontrammo numerose anime sedute su un prato, accasciate a terra, prive di forza. L’aria era accarezzata dai loro flebili sospiri. Tra di queste, avvolte da un bagliore bluastro, ci vennero incontro le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Essi ci guidarono tra le sette cerchie merlate del Limbo e tra i suoi labirinti plumbei, nei quali riposavano coloro che non avevano conosciuto Cristo. Dialogammo a lungo, ma non rivelerò quanto mi fu detto. Il ricordo mi è troppo intimo. Attraversato il castello, di fronte ad un portale ricoperto di edera, le nostre strade si divisero. Ci addentrammo nuovamente nell’oscurità, discendendo dal primo cerchio al secondo.

Una breccia sola permetteva di attraversare delle mura in rovina. Dinanzi ad essa, vi era accasciato su un trono Minosse, colui che esamina le colpe dei dannati e ne decide la pena. Le anime si inginocchiavano al suo cospetto e, piangendo, sussurravano i loro peccati al suo orecchio demoniaco. Dopo averli ascoltati, il giudice si avvinghiava, con la sua stessa coda serpentina, tante volte quanti sono i gironi che il dannato doveva discendere prima di soffrire in eterno.

Nonostante fossimo tra la calca, egli ci scorse e interruppe il suo compito, pose la mano squamosa sul volto di un dannato per zittirlo. Quest’ultimo rimase impassibile ad attendere il giudizio. «O tu, non fidarti di chi ti guida. Non farti ingannare dall’ampiezza di questa entrata. Uscire di qui non è facile come quel romano ti vuole far credere!».

Virgilio, ferito da quelle parole, rispose: «Perché continui a blaterare, Minosse? Non frapporti al nostro cammino. Così è stato deciso in Paradiso e, quindi, non proferire altra parola. Fai ciò che devi e lasciaci passare!»

Il demone mi guardò negli occhi. I suoi erano azzurri, attraversati verticalmente da un’orbita nerissima, nella quale si perdeva ogni bagliore di luce. Quello sguardo conteneva tutti i peccati dell’uomo, le confessioni udite e, nella oscura fenditura, il peso che albergava tra il cuore e le squame di chi venne costretto a giudicare. Distolsi gli occhi, incapace di sostenere quei macigni, poi le urla colpirono la parete con maggiore forza e una notte, ancora più spessa, ci avvolse.

Il luogo nel quale entrammo era sferzato da venti di tempesta che portavano con sé i dannati, schiantandoli tra le rocce aguzze con indicibile violenza. I miserabili piangevano e bestemmiavano Dio per quella pena senza riposo.

Capii che quello era il tormento dei lussuriosi, coloro che sottomisero la ragione al piacere. E come gli uccelli che quando si librano in volo formano un’ampia schiera, così quel vento avvinghiava i peccatori e li trasportava di qua, di là, di giù, di su. Aimè, non vi era alcuna speranza che si placasse.

«Maestro, chi sono quelle anime che la tempesta castiga?». Ed egli mi rispose: «Una di queste fu imperatrice. Ella rese lecita ogni sua depravazione, distruggendo qualsiasi forma di morale. È Semiramide, sposa di Nino, che governò la terra che oggi è retta dal Sultano. Un’altra è Didone che, abbandonata, si uccise per amore; poi vi sono Elena, Achille, Paride e Tristano». Continuò ad indicarmi più di mille altre ombre col dito e io, di quegli sventurati morti per un sentimento tanto forte, provai una profonda pietà.

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