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Don Ferdinando de Bazan Arcivescovo di Palermo

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di Paolo Monello

Le ripetute segnalazioni del Duca di Uzeda sui continui terremoti spinsero la Corte, nel novembre successivo, in mancanza d’altro e come unico rimedio, a ordinare «che in questo Regno si facessero rogazioni e pubbliche penitenze al fine di procurare di placare con questo mezzo l’ira della Divina Giustizia nello sciagurato accidente dei terremoti». All’inizio si era suggerito di fare questi esercizi di penitenza «sin exterioridad», dopo quasi un anno di terremoti, il Re ordinò che si facessero invece preghiere pubbliche.

(Da sx) Il Viceré, Duca di Uzeda e il Re di Spagna Carlo II

Impetrare dalla Divinità la fine dei terremoti era condizione essenziale per la ricostruzione soprattutto delle fortificazioni in tempo di guerra con la Francia e delle città stesse, ma essa andava a rilento a causa delle continue scosse che terrorizzavano e ancor più demoralizzavano i superstiti. La Chiesa sin dai primi giorni aveva cercato di reagire come poteva e come sapeva fare.

Alla protezione di Santa Rosalia (con la promessa sin dai primi di marzo di una festa annuale per l’11 gennaio di ogni anno) l’Arcivescovo Bazan, dall’agosto aveva stabilito «lo svegliatoio di alcuni tocchi funebri di campane in ogni venerdì in memoria della Passione e morte di N.S. e della liberazione dal terremoto» (Mongitore), cosa che certamente non sollevava l’animo di tanti palermitani e soprattutto degli abitanti del Val di Noto, sottoposti ad inimmaginabili tribolazioni.

(Da sx) Un dipinto della processione di Santa Rosalia a Palermo poco dopo il terremoto e l’Arcivescovo di Palermo Bazan

Adeguandosi al senso comune, il Viceré Uzeda aveva anche chiesto al Senato della Città di Palermo di nominare San Francesco Borgia – un santo spagnolo, precisa Uzeda – “como especial Abogado de los terremotos” (15 ottobre), ed arrivatigli gli ordini reali nel novembre, aveva inviato dispacci in tal senso a tutti i prelati del Regno e al Tribunale della Monarchia per la loro pronta esecuzione. Ma erano insorti problemi. Da un lato infatti l’Arcivescovo Bazan riteneva conveniente spostare queste cerimonie a dopo l’11 gennaio 1694, «maggiormente perché gli atti delle missioni e di comunione generale si erano appena conclusi il giorno della Presentazione di N.ra S.ra», il 21 novembre. Inoltre «erano prossimi a ripetersi nel giorno della Concezione e per Natale».

San Francesco Borgia (Museo de Bellas Artes di Siviglia)

La maggiore opposizione era però venuta dalla Giunta dei Secolari (organismo che con la Giunta degli Ecclesiastici doveva consigliare il Viceré), che con particolare attenzione ai pericoli per l’ordine pubblico suggeriva allo stesso di ordinare ai Prelati del Regno di «continuare nelle loro Diocesi questi Santi esercitij come che tutta la sostanza della Vera Riforma Christiana ricercata dalla Divina accettatione per placare la sua Santa Giustizia ne’ popoli unicamente consiste nel buon uso e frequenza de’ Sacramenti e della Parola Divina con le prediche e missioni, insinuando alli Vescovi che sospendano gli ordini datili in esequtione delle Lettere Reali per non dar maggior apprensione alla sieguente diceria della falsa Profetia del Venerabile Beda».

Beda il Venerabile (673 circa – 735). Monaco cristiano e storico anglosassone, vissuto a Sunderland in Inghilterra (immagine da Wikipedia)

Circolava infatti a Palermo una profezia di quattro versi in latino (esametro/pentametro, esametro/pentametro) che così recitava [metto gli accenti sulle sillabe, n.d.a.]:
«Séxdec(im) ést ortúm post Chrísti sécla perácta/Sólstitiúm triúm bís quoque lústra novém/Étna cadét Mons, Trínacri(a), ác tota quíppe períbit/Núllum véstigiúm túnc remanébit eiús». (Passati sedici secoli dalla nascita di Cristo, è sorto il solstizio dei tre [anni] e due volte nove lustri [cioè 1600+3+2x9x5=1693], ed allora il Monte Etna sprofonderà e tutta la Sicilia perirà e di essa non rimarrà alcuna traccia).

Il “De Vaticiniis” del Monaco Beda

La fattura dei versi, anche se poco elegante, metricamente rivelava comunque una origine colta (ambienti gesuitici?). Tali versi – secondo la Giunta – miravano a spargere il terrore per un imminente sprofondamento della Sicilia con l’Etna il giorno dello stesso solstizio invernale, il 21 dicembre.

La Giunta aveva fatto verificare se veramente una simile profezia si trovasse nell’opera “De Vaticiniis” del monaco inglese Beda (672-735), ma non ce n’era traccia. Pertanto, alla luce di quanto era successo nel 1647, quando le processioni contro la siccità avevano generato una grave rivolta, per l’«apprensione in che si sta con la Diceria di queste false Profetie che sia per essere fatale al Regno il prossimo solstitio vernale e l’annuale del’11 del futuro gennaio».

Miniatura del monaco Beda da una Bibbia francese del XII sec. da Reims (immagine da cassiciaco.it)

La stessa Giunta per motivi di ordine pubblico raccomandava al Viceré, in sostanza, di disobbedire agli ordini reali e di ordinare che si continuassero le cerimonie all’interno delle chiese, con prediche e sacramenti senza processione né rogazioni, le quali ultime prevedevano la flagellazione con effusione di sangue dei penitenti. Il Duca di Uzeda non si fece pregare e il 5 dicembre la sua Segreteria spedì una nota ai Vescovi dell’isola sospendendo gli ordini del Re, vietando processioni, rogazioni e invitando i Prelati a porre in essere «mezzi più conformi alla prudenza e alla pietà cristiana, per indurre le popolazioni alla frequenza dei sacramenti e all’esercizio delle altre opere, che possano essere efficaci a piegare la Divina Misericordia, affinché sospenda il castigo che ci minaccia colla ripetizione dei terremoti».

Stampa dell’epoca che illustra i danni del terremoto

Fortunatamente, il giorno del solstizio invernale passò senza che nulla accadesse e il 29 dicembre il Duca di Uzeda tornò a riferire a Madrid che «Mongìbello aveva continuato la sua esalazione di fumo e fiamme in quantità» ma senza alcun danno. Superati anche i timori per un’eclisse il 1° gennaio, ci si preparò a ricordare il 1° anniversario.

Come andarono le cose, lo leggiamo in una lettera del 22 gennaio:
«Questi giorni in cui si è compiuto l’anno delle passate sventure – scrive Uzeda -, si è rinnovato in tutti il timore e la consapevolezza di nuove sofferenze; però non per questo si è tralasciato di celebrare con il più fervoroso culto e devozione il giorno undici in rendimento di grazie per i benefici ricevuti, e ad onore della nostra Protettrice Santa Rosalia, e ho notizia che nella maggior parte del Regno si è fatto lo stesso in onore dei Santi Tutelari e Patroni, muovendo con questo mezzo gli animi a continuare le devozioni, senza introdurre il clima di preoccupazione delle rogazioni […] per ottenere dalla Divina Pietà il conforto che tanto è necessario».

Il tragico terremoto del 1693 nella pittura barocca (anonimo, collezione privata XVII-XVIII sec.)

Come si vede, l’11 gennaio 1694 fu celebrato anche a Palermo, ma oggi non c’è traccia di una cerimonia in quel giorno in onore di Santa Rosalia. Invece a Vittoria sì. Non sappiamo se l’11 gennaio 1694 a Vittoria si celebrò quel primo triste anniversario (anche se i morti non superarono le 40 unità) ma fu allora che nacque la leggenda del sacrificio della testa del Santo per la salvezza della città (come apparirebbe dalla t.a.c. eseguita qualche anno fa sulla statua, che indicherebbe un taglio netto) e che probabilmente l’arciprete don Enrico Ricca narrò a don Giovanni Palumbo, che ne parlò nella sua opera sul Santo nel 1744, contribuendo a radicare l’usanza annuale. Che io sappia, oggi solo a Vittoria si celebra una festa esterna in onore di San Giovanni a memoria dell’11 gennaio 1693.

La statua di San Giovanni a Vittoria

di Paolo Monello

Mentre l’Arcivescovo di Palermo, don Fernando Bazan, esponeva il suo pensiero sulle cause morali di religiosi e non, che avevano a suo dire provocato l’ira di Dio contro gli sventurati abitanti della parte orientale del Regno ed in particolare del Val di Noto; il Viceré don Francisco Pacheco Duca di Uzeda (a cui i Catanesi intitoleranno la porta sul mare all’inizio di via Etnea) e gli uomini della sua cerchia (il segretario don Felix de la Cruz Haedo, il Vicario Generale don Giuseppe Lanza Duca di Camastra ed i tre Commissari Generali don Giuseppe Asmundo, don Giovanni Montalto e Scipione Coppola) miravano invece a ricondurre il fenomeno alla natura dei luoghi, individuando subito una “causa meccanica”: il Mongibello.

La porta Duca di Uzeda a Catania (foto da antudo.info)

Ed il vulcano infatti sarà al centro della nutrita corrispondenza tra il Viceré e la Corte di Madrid, conservata nell’Archivio General de Simancas. In merito a questa documentazione, ho avuto modo di leggere nel preziosissimo volume pubblicato nel 2014 dalla Bononia University Press intitolato “L’Etna nella storia. Catalogo delle eruzioni dall’antichità alla fine del XVII secolo”, che solo nel 2007 le carte di Simancas – esaminate da Emanuela Guidoboni ed altri – avrebbero consentito per la prima volta di avere un quadro di eruzioni dell’Etna prima sconosciute nel periodo dei terremoti del 1693-94.

Il vulcano Etna (chiamato anche Mongibello)

Senza alcuna pretesa di “primogenitura” e con tutto il rispetto dovuto agli scienziati – seppure personalmente privo di cultura scientifica – ne avevo già parlato nel 1994 pubblicandone degli estratti nella ricerca intitolata “Gli uomini e la catastrofe”, traendone guarda caso la stessa deduzione che gli autori del volume ricavano con le seguenti parole: «Scarsamente nota in vulcanologia, l’attività eruttiva – tra il 1693 ed il 1696 – emerge da numerose fonti, di cui 76 manoscritti inediti, la maggior parte corrispondenze istituzionali, contenenti brevi ma puntuali riferimenti al vulcano, un vero sorvegliato speciale: la sua attività eruttiva era interpretata come una valvola di sfogo dei terremoti, quindi “monitorata” anche con ispezioni specifiche sul luogo».

L’Etna in una recente eruzione

Dell’attività amministrativa del Duca di Uzeda come Viceré (1687-1696) si sono occupati Giuseppe Tricoli (“Un periodo del governo spagnolo di Sicilia nella relazione del viceré Uzeda”) e Giuseppe Giarrizzo (“La Sicilia dal viceregno al regno”, in “Storia della Sicilia”, 1978), ma spesso si fa riferimento ai giudizi negativi espressi su di lui da antichi scrittori come Vincenzo Auria e Giovanni Evangelista Di Blasi, che lo hanno definito più interessato all’arte ed alle scienze che agli affari di governo. Ma proprio i riferimenti alla sua passione per le scienze, mi consentono di dire che il Duca di Uzeda fu l’uomo giusto al posto giusto e che senza la sua cultura le cose per la Sicilia sarebbero andate peggio.

(Da sx in alto in senso orario) Gli storici Vincenzo Auria (1625-1710), Giovanni Evangelista Di Blasi (1721-1812), Giuseppe Giarrizzo (1927-2015) e Giuseppe Tricoli (1932-1995)

Nei confronti del nuovo Re di Spagna Filippo V di Borbone (nipote di Luigi XIV), Juan Francisco Pacheco V Duca di Uzeda fece in parte il percorso dell’Almirante di Castiglia e Conte di Modica don Juan Tomás, con la differenza però che mentre l’Enriquez si schierò quasi da subito con il pretendente austriaco Arciduca Carlo, il Duca di Uzeda passò dalla parte dell’Asburgo nel 1711 (dopo che questi era diventato imperatore), rifugiandosi prima a Genova e poi a Vienna, dove morì. Con il conte di Modica condivise però la passione per l’arte (possedeva quadri di Mantegna, Del Sarto, Carracci, Brueghel, Caravaggio, Vasari, Tintoretto, Mattia Preti, Guido Reni ed altri numerosi pittori in gran parte italiani, ed anche disegni di Leonardo e Velazquez), ma rispetto all’Enriquez possedeva in più una biblioteca di 4000 volumi ed era un appassionato di opere in musica di vari compositori dell’epoca (tra cui anche Alessandro e Domenico Scarlatti).

(Da sx) Juan Francisco Pacheco V Duca di Uzeda e don Juan Tomás Enriquez Conte di Modica e Almirante di Castiglia

Pertanto, quando l’Arcivescovo Bazan lamentava la messa in scena di spettacoli musicali a tarda ora (che a suo avviso accrescevano l’immoralità, provocando “l’ira di Dio”) ce l’aveva proprio con il Duca di Uzeda. Il quale, secondo un recente studio della dottoressa Anna Tedesco, nel suo soggiorno palermitano fece rappresentare (nel teatro della Marina, a Bagheria e a Messina) almeno 18 opere, una delle quali il 28 ottobre 1693 (in piena crisi sismica) intitolata “L’innocenza penitente”.

Don Fernando Bazan, Arcivescovo di Palermo dal 1685 al 1702

Lo storico Di Blasi lo accusò di avere spogliato la Sicilia delle opere d’arte più rare (pitture, statue, reperti archeologici) e dei manoscritti più preziosi. In verità, gran parte della biblioteca, secondo Auria, il Duca l’aveva portata a Palermo dalla Spagna ed in essa c’erano numerosi trattati scientifici e di matematica (tra cui un’opera di Archimede). Vero è, però, che portò con sé in Spagna (nel 1696) i manoscritti greci lasciati alla città di Messina da Costantino Làscaris. Questi, fuggito in Italia a seguito della caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453 si era stabilito a Messina nel 1467, insegnando nella scuola di greco istituita presso il convento basiliano di San Salvatore, per la cui cattedra pubblicò una grammatica greca. Grazie al Làscaris ed alla cerchia di studiosi che creò attorno a sé, Messina poté disporre di una invidiabile collezione libraria.

Costantino Làscaris (1434-1501)

Per avere un’idea, è sufficiente accennare che tra i 500 manoscritti che lasciò a Messina abbiamo Omero, Erodoto, Platone, Aristofane, Senofonte, Demostene, Aristotele, Isocrate, Euripide ed altri. Ma dopo la rivolta del 1674-1678, Messina fu ferocemente punita dal Viceré, Conte di Santo Stefano, con la distruzione del Palazzo Reale e il sequestro di ben 1426 antiche pergamene (di cui 250 in greco) contenenti i privilegi della città e delle biblioteche del Senato e della Cattedrale, compresi i preziosi codici greci appartenuti a Làscaris. Al momento di passare le consegne nel giugno 1687, il Conte di Santo Stefano lasciò i libri ed i codici al Duca di Uzeda, che li custodì nel Palazzo Reale e poi li portò con sé in Spagna. Oggi si trovano nella Biblioteca Nacional. Non sarebbe il caso di restituirli a Messina?

Francisco IV de Benavides y Dávila, Conte di Santo Stefano e Viceré di Sicilia tra il 1678 e il 1687

Pertanto, non ci deve meravigliare che tra le numerose lettere inviate da Uzeda a Madrid, il Viceré metta sempre in correlazione le notizie delle nuove scosse con l’attività eruttiva o meno del Mongibello, dimostrando così di conoscere a pieno le teorie “fuochiste” sulle origini dei terremoti, divulgate dal gesuita Athanasius Kircher ed in Sicilia condivise professate e divulgate da Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) ed in ultimo dal protomedico Domenico Bottone (1641-1726), del quale non a caso si riscontra una lettera del 20 gennaio 1693 in cui il medico-scienziato, autore nel 1692 della “Pyrologia topographica”, aveva analizzato tutte le manifestazioni del fuoco.

Il “De immani Trinacriae Terraemotu’, pubblicata nel 1718, sulla base della relazione fatta per la Royal Society di Londra nel 1693

L’Etna costituiva una “valvola di sfogo” per i fuochi interni che dal centro della terra o da altre sorgenti sotterranee, bruciando ed esplodendo senza avere da dove uscire, provocavano i terremoti. Le eruzioni “garantivano” che i fenomeni rimanessero sotto controllo. Tale teoria fu ulteriormente discussa da Bottone nella relazione elaborata nel 1693 per la Royal Society di Londra, stampata a Messina nel 1718 (testo che si trova nella Biblioteca Regionale ma che possiedo in copia pervenutami appunto da Londra). Questa concezione, diffusa certamente meno della spiegazione dell’”ira di Dio”, è presente in molte comunicazioni tra i funzionari locali e Uzeda e tra Uzeda e la Corte.

Il gesuita Athanasius Kircher (1602-1680)

Comunque, che la lettera dell’Arcivescovo Bazan fosse un po’ provocatoria e che la teoria del gesuita Kircher fosse nota ed accettata all’interno della Chiesa è dimostrato anche dalla lettera del 6 febbraio 1693 inviata dall’Inquisitore di Malta Francesco Acquaviva al Segretario di Stato Cardinale Spada in cui, in riferimento ai danni ed al numero delle vittime di Catania, il religioso scrive che «dal Mongibello non si vedeva uscir tal fuoco che gli havesse potuto render sicuri da nuovi accidenti».

Accenneremo, nel prossimo articolo, ai passi più interessanti relativi alle eruzioni dell’Etna contenuti nelle lettere del Viceré, Duca di Uzeda, ai Consigli d’Italia e di Stato.

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Immagine banner: veduta del teatro greco-romano di Taormina, Pietro Fabris, 1779 (da didatticarte.it) 

di Paolo Monello

Interrogandosi dunque sulle cause dell’”ira di Dio” che aveva sconvolto la metà orientale del Regno di Sicilia il 9 e 11 gennaio 1693, l’Arcivescovo di Palermo mise per iscritto quelli che secondo lui erano le cause dello sdegno di Dio. Della lettera del 30 gennaio non possiedo il testo originale, ma l’ampio riassunto che il Consiglio di Stato a Madrid ne fece al Sovrano nella seduta del 27 aprile, allegando poi le sue considerazioni.

«Essendo certo che castighi così grandi, sono per peccati enormi», il prelato – scrivono i consiglieri – afferma che è «suo dovere rappresentare a Vostra Maestà quanto ritiene possa avere smosso l’ira di Dio» ed avendo il terremoto colpito soprattutto le chiese, i conventi e i monasteri con tutte le persone che c’erano dentro, era evidente che a provocare l’ira divina erano state «le offese dello stato ecclesiastico», di cui Bazan si assumeva la responsabilità (ma fino ad un certo punto, come vedremo…).

L’Arcivescovo di Palermo Don Ferdinando De Bazan

Nella sua lunga lettera, Bazan metteva in evidenza tre punti nodali della crisi della Chiesa siciliana (anche se la disamina riguarda soprattutto Palermo). In sintesi: il clero secolare era troppo numeroso e molti sacerdoti abbandonavano le chiese di paese per trasferirsi nella capitale, accrescendo «il gran numero di chierici ignoranti e di cattivi costumi, che vanno a Palermo, convinti che sia certa e maggiore l’elemosina della messa, fuggendo la miseria delle loro terre».

La responsabilità di ciò era dei Vescovi, che concedevano il permesso ai sacerdoti di recarsi a Palermo, dove inoltre – in caso di reati – venivano protetti dal Giudice della Monarchia (cioè il rappresentante del Re nel governo della Chiesa siciliana), il quale garantiva permessi ed impunità, concedendo anche l’esenzione dall’assistere «alla solenne processione del Corpus, ingiustamente perché non c’è eccezione che liberi da questo obbligo», cosa tanto più incomprensibile «quando tutti credono che il SS.mo Sacramento, per il breve ossequio che gli si fece quei giorni, rimediando alla poca decenza con cui veniva portato ai malati, liberò quella città dal pericolo del terremoto».

Alessandro VII alla processione del Corpus Domini, Giovanni Maria Morandi, XVII sec.

Venendo al rimedio, l’arcivescovo suggeriva quindi che si limitasse drasticamente «con un numero fisso» la concessione di permessi per venire a Palermo, e che «il Giudice della Monarchia… a nessun affiliato nel suo Tribunale permetta di stare a Palermo più del breve tempo necessario per sbrigare le proprie faccende». Insomma, Bazan chiedeva al Re di intervenire sul suo rappresentante don Gregorio Solorzano, altrimenti non avrebbe più potuto «governare quel clero, i cui peccati hanno offeso Dio».

Venendo poi ad esaminare lo stato del Clero regolare, Bazan ammetteva «francamente, che il rilassamento è grande e totale nei conventi piccoli dove non si osserva alcuna regola» e proponeva la soppressione dei conventi con meno di dodici frati (come del resto stabilivano i canoni ecclesiastici romani, ripristinando le visite di controllo, come prevedevano le Costituzioni Apostoliche), vietando i cambi di residenza dei monaci (concessi invece dal Tribunale della Monarchia) «perché solo lo sperarlo fa i frati insolenti» e stabilendosi che «a nessuno si desse licenza per pernottare fuori del convento».

Raffigurazione della corruzione del clero con il diavolo che fa cadere delle monete nelle mani del Papa (Miniatura del XV sec.)

Inoltre, secondo Bazan, il diritto di asilo nelle chiese era «dannoso alla causa pubblica per la frequenza di esso e la facilità con cui si ottiene», per la qual cosa proponeva di chiedere a Roma «che solo i delitti contro i sacramenti (che sono in numero moderato) diano diritto di rifugio, e che gli Arcivescovi di Palermo nella loro diocesi e come delegati apostolici nelle altre, quando i delitti siano gravissimi o abituali i delinquenti, con gravi conseguenze per l’ordine pubblico, possano punirli citra penam sanguinis [cioè esclusa la pena di morte, n.d.a.], senza necessità di inviare i processi alla Sacra Congregazione delle Immunità per ottenere licenza di farlo». Nei delitti di dissolutezza, il clero era inoltre privilegiato in tribunali diversi da quelli naturali e «poiché queste cause per loro natura sono di giurisdizione del Tribunale Ecclesiastico, e invece le accoglie il Tribunale del Santo Uffizio a causa dei suoi privilegi», si perdonavano gravissimi peccati: occorreva quindi «ordinare che in tutti i fori la giurisdizione sia solo del Tribunale Ecclesiastico».

Accanto ad un loggiato aperto alcune giovani suore, dal contegno frivolo e malizioso, assistono ad un concertino offerto da piacenti gentiluomini (Alessandro Magnasco, XVIII sec.)

Non meno grave era la situazione nei monasteri femminili. «Si deve tenere per non minore motivo dell’ira divina – aggiungeva il prelato – il rilassamento nei conventi di religiose», dove molti uomini entravano «senza licenza». Per i quali Bazan proponeva una «pena di 100 onze o non potendo pagarle, ad un anno di castello o carcere irremissibile, o altre pene che si potrebbero discutere».

In una sontuosa stanza che ha ben poco a che fare con la cella di un monastero, una religiosa assapora una tazza di cioccolata calda (bevanda peccaminosa, di gran moda tra gli aristocratici) in compagnia (Alessandro Magnasco, XVIII sec.)

Esaurito il capitolo dello stato ecclesiastico, Bazan passava a condannare la rilassatezza dei costumi generali, puntando soprattutto il dito contro le rappresentazioni teatrali, fatte a tardissima ora, dalle quali «derivano moltissimi delitti» contro la morale e contro Dio. Pur rendendosi conto che esse si facevano «con il motivo di tenere occupato il popolo, proprio perché è di natura malinconica», ricordava che l’Arcivescovo di Genova Spinola le aveva proibite «in quella città non meno popolosa di Palermo, e non meno suscettibile di altre». Le rappresentazioni infatti «non solo danneggiano i costumi, ma anche il bene pubblico, per essere un seminario di bestemmie e latrocinii…e c’è la comune propensione [dei Siciliani] a questi vizi, in special modo con l’orribile bestemmia di Santo Diavolo, che viene punita con una pena facoltativa che mai è irrogata e converrà molto al servizio di Dio imporre pene certe».

Attori della Commedia dell’Arte su un carro in una piazza cittadina (pittura del XVII sec.)

Pertanto gravi erano anche le responsabilità dei pubblici ufficiali (ed il Viceré Duca di Uzeda ne era appassionato organizzatore e mecenate) nel non proibire e reprimere tali licenziose rappresentazioni. Don Ferdinando Bazan poi, mosso «dalla compassione di vedere [questo] miserevole Regno distrutto in gran parte e dal timore che solo l’emenda delle nostre offese potrà trattenere la mano di Dio perché non continui i suoi castighi», offriva le sue dimissioni al Re, in quanto la sua “incapacità” di governare bene la Chiesa palermitana e le altre dell’Isola aveva attirato la punizione divina.

Infine l’Arcivescovo, «anche se non si intromette nelle questioni politiche… non può come Pastore tralasciare di porre alla reale attenzione di Vostra Maestà che [questi] afflitti suoi figli hanno bisogno che V.M. rafforzi i segni della sua grandezza, ponendoli in una serie di fatti di buon governo, lasciando che respirino nella loro afflizione, non solo dalle contribuzioni del Real Fisco ma anche dalle deviazioni in cui si suole spendere il ricavato delle tasse, per cui se finora sono stati veramente poveri, ora sono proprio nella miseria».

La povertà in una incisione del XVII secolo (Jacques Callot, la compagnia dei baroni)

La lettera ci appare un capolavoro di diplomazia, la cui sostanza era tutta politica e non teologica. Infatti Bazan, se ammette che l’ira di Dio è dovuta senz’altro al grave stato di rilassatezza morale e veri e propri delitti in cui parte del clero secolare e regolare era caduta, afferma però che la sua azione di risanamento è stata ostacolata dal contrasto tra i vari poteri: per quanto riguardava i sacerdoti, dal Giudice della Monarchia; per il clero regolare, dall’Inquisizione (entrambe le istituzioni proteggevano i delinquenti, insomma).

Né i pubblici ufficiali di Palermo (ma soprattutto il Viceré Duca di Uzeda) erano esenti da critiche per la questione dei divertimenti serali e per il lassismo con cui non garantivano la punizione dei bestemmiatori… Inoltre, nella coda della nota, c’erano due punte “velenose”: la denunzia dell’eccessivo fiscalismo (situazione aggravata dalla miseria causata dai terremoti) e l’ingiustizia di spendere fuori dal Regno le tasse pagate dai siciliani (in quegli anni la Sicilia contribuiva con frumento e denaro a sostenere Milano ed il Piemonte nelle loro guerre contro i Francesi).

Palazzo Chiaramonte (detto anche Steri) a Palermo, sede del Tribunale della Santa Inquisizione dal 1600 al 1782

Pur nominato dal Re in base all’Apostolica Legazia, a Bazan va dato atto che si rendeva conto che la situazione era complicata dai conflitti giurisdizionali tra la Chiesa siciliana retta dal re tramite il Giudice della Monarchia, il Santo Uffizio dell’Inquisizione siciliana (anch’essa protetta dalla Corona spagnola) e la Sede Apostolica: temi che sin dai primi di febbraio sarebbero stati discussi nella apposita Giunta Ecclesiastica insediata dal Duca di Uzeda per far fronte ai disastrosi effetti del terremoto su centinaia di chiese, conventi e monasteri, e dove erano presenti sia Bazan che Solorzano.

Il Consiglio di Stato, riassunta ampiamente la nota dell’Arcivescovo, prese atto del suo zelo nella riforma dei costumi religiosi e nell’attendere al Culto Divino in modo tale che «la Divina Justicia suspenda el rigor que nuestras culpas han motivado», limitandosi a suggerire al Re di invitare i vescovi a non concedere permessi ai religiosi per andare a Palermo e ad ordinare al viceré e a Giudice della Monarchia (ciascuno per le proprie competenze) a stabilire un numero fisso di sacerdoti per ogni chiesa (in modo da evitare il soverchio numero delle “vocazioni, spesso finte e unico strumento per evadere il fisco, come la Giunta metterà in evidenza) e a punire con rigore il “rilassamento” morale nei conventi e monasteri.

Mappa della Sicilia con i paesi colpiti dal sisma del 1693 segnate. A destra l’elenco delle città evidenziate nella mappa.

Infine, il Consiglio suggeriva al Re di accogliere l’indicazione dell’Arcivescovo per vietare giochi e rappresentazioni teatrali e soprattutto per punire con sanzioni certe la bestemmia di “Santo Diavolo”. Né Bazan né il Consiglio di Stato si posero però una domanda fondamentale: se Dio voleva punire la sua Chiesa per gli eccessi commessi a Palermo, come mai la sua sferza aveva colpito soprattutto il Val di Noto con distruzioni immense e migliaia di vittime ed aveva lasciato integre le parti centrale ed occidentale del Regno?

Una domanda che invece si erano posti Uzeda e i suoi collaboratori. E per frenare il timore popolare che l’ira di Dio assestasse nuovi colpi, occorreva ridurre «i terremoti… a puri fenomeni meccanici» (Corrado Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, Cedam, Padova 1979). Per questo, l’attenzione alla “causa meccanica” e cioè il Mongibello fu quasi immediata, come ci dimostrano i documenti di Simancas…
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La potenza del terremoto del 1693 (misurata con la scala Mercalli) che distrusse il Val di Noto