di Simona Canzonieri
Donatella Di Pietrantonio è una dentista pediatrica che si alza molto presto al mattino e si siede a scrivere. In quelle ore silenziose, lontane dal ritmo frenetico della giornata che sta per cominciare, Donatella scrive di donne: madri, sorelle e figlie del suo luogo natìo, l’Abruzzo. L’Arminuta è uno dei frutti di questa sua pratica quotidiana. Un libro pubblicato da Einaudi nel 2017, vincitore del premio Campiello nello stesso anno e tradotto in 23 paesi.

“Arminuta” in dialetto abruzzese significa ritornata e in questo aggettivo sta racchiuso il destino della protagonista. Una bambina che viene affidata dai genitori a parenti senza figli e che alle soglie dell’adolescenza viene riconsegnata alla famiglia d’origine. Ecco allora “l’arminuta”, colei che è ritornata, anzi più esattamente è stata “ritornata”, riconsegnata.
Una ragazzina gettata in una condizione di perpetuo esilio in mezzo a due mondi lontani e incompatibili: quello povero e duro della famiglia d’origine che vive in paese, sulle montagne d’Abruzzo, e quello cittadino piccolo-borghese della famiglia d’adozione che vive sul mare.

“Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati. Il privilegio che portavo dalla vita precedente mi distingueva, mi isolava dalla famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere, invidiavo le compagne di scuola del paese e persino Adriana per la certezza delle loro madri”.

I due mondi apparentemente così distanti possiedono però un tratto in comune: la povertà emotiva. Le due madri, seppur provenienti da due contesti sociali assai diversi, dimostrano la stessa mancanza di strumenti emotivi capaci di aiutare la ragazza nel difficile passaggio di vita. La madre biologica in particolare non sa dare nemmeno un nome ai sentimenti che vive, anche se dimostra a suo modo almeno la volontà di trovare un senso di rapporto con la figlia. La ragazzina rimarrà da sola in compagnia delle sue angosce e paure.

“Nel tempo ho perso anche quella idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.
Unico personaggio positivo del romanzo risulta essere la sorella minore Adriana, l’unica della famiglia ad essere rimasta umana, nonostante la brutalità della vita quotidiana. In netto contrasto con le due figure materne, Adriana dimostra forza e carattere e riesce a concedere amore e aiuto perché ancora capace di ascoltare le proprie emozioni.

“Ci siamo fermate una di fronte all’altra, così sole e vicine […]. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza.”
È un romanzo che si legge in un weekend. L’autrice usa un linguaggio molto semplice e diretto, anche se un po’ appesantito dalla costante ricerca di metafore, ma riesce a tenere desta l’attenzione del lettore riuscendo a coinvolgerlo in quelle atmosfere di profondo disagio materiale e spirituale. L’uso del dialetto abruzzese non infastidisce, anzi dona quasi il sapore di quella terra e una coloritura gradevole al racconto stesso che risulta ben costruito, seppur con qualche figura (come il fratello Vincenzo) che poteva essere meglio gestita.

Il messaggio che traspare è chiaro e univoco, non è romanzo dai diversi livelli interpretativi. Una lettura gradevole che nei più esigenti potrebbe lasciare comunque un vago senso di insoddisfazione.