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Duca di Camastra

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di Paolo Monello

In occasione del 329° anniversario della catastrofe sismica del 9-11 gennaio 1693, ritorno sui rapporti ritenuti di causa ed effetto tra le eruzioni del Mongibello e le continue scosse di terremoto, ricordando che la scienza dell’epoca riteneva che più l’Etna eruttava, meno probabilità di terremoti ci sarebbe stata. In verità, come vedremo, il senso comune andava nel senso opposto, ritenendo non solo che la “Montagna” generasse i terremoti ma addirittura che stesse per sprofondare e con essa tutta la Sicilia. Ma andiamo con ordine.

Il Mongibello (foto da catania.gds.it)

Man mano che arrivavano gli avvisi dalle zone più colpite, il Duca di Uzeda fu in grado di informare la Corte sempre più dettagliatamente su ciò che accadeva sul vulcano. Cominciò a farlo con puntiglio il 19 febbraio, quando scrive al Re di temere che le scosse nel Val di Noto fossero continuate «per non aver avuto notizia che Mongibello abbia eruttato la materia sulfurea da cui si origina (il terremoto) né che si sia aperta una bocca nuova da cui possa esalare il vento di fuoco che opprime e tiene chiusa la montagna, deducendosi questa conseguenza (cioè il terremoto, n.d.a.) da ciò che si è constatato altre volte e dai terrificanti boati che si odono nelle vicinanze e mi assicurano da diversi luoghi che una batteria di cento cannoni non provoca un maggior fragore, cosa che fa durare la paura ed il timore di nuovi sconvolgimenti».

Juan Francisco Pacheco Duca di Uzeda, Viceré di Sicilia dal 1687 al 1696 ( (immagine da memoriademadrid.es)

Ed ancora, sempre preoccupato, il 5 marzo, quando scrive:
«Mongibello non ha aperto nuovi crateri né eruttato, solo si è osservato che dal 3 febbraio fino al 14 si udirono grandi boati e gettò notevoli quantità di lapilli incandescenti e considerato che i terremoti sono continuati fino al 24 (di febbraio) mi dice il Duca di Camastra da Noto che negli stessi giorni si udiva sotto la terra come un rumore di vento. La cosa fa vivere gli abitanti con grande sconforto, (augurandosi) che la Montagna elimini (il vento infuocato) o emetta i vapori interni, di modo che cessi la causa, perché questa disgraziata continuazione dei terremoti ritarda la ricostruzione…».

Giuseppe Lanza Lucchese, Duca di Camastra (1630-1708)

Poi sembrò che le cose si mettessero al meglio e che la «disgrazia dei terremoti (andasse) cessando». Ma invece – seppure leggere – le scosse ripresero. Poi, la sera di venerdì 3 luglio «Mongibello cominciò a gettare fuoco e fiamme dal cratere in tanta quantità che la lava cominciò a scorrere verso la parte di levante», fenomeno preceduto da ripetuti boati all’interno della Montagna.

L’indomani il Duca di Camastra «inviò persona pratica a verificare se la colata era uscita da un nuovo cratere che si fosse aperto; però avendo questa persona osservato con attenzione poté vedere che dal cratere principale della cima del monte usciva un certo genere bituminoso e che dalla parte del cratere si udivano orribili boati che non si erano mai uditi altre volte. E che durante il giorno, Mongibello emise una enorme quantità di fumo, come un nuvolone nero che si dilatava nell’aria fin dove arrivava la vista e dicono che si tratti di ceneri che alcune volte si è constatato che sono arrivate fino a Malta» (il caratteristico “pino”, n.d.a).

L’eruzione era durata anche nei giorni seguenti, con nuove scosse avvertite a Catania, con un parossismo la sera del 9 luglio, «quando da Catania si era osservato che dalla bocca principale usciva una gran quantità di fuoco». Di nuovo Camastra aveva inviato un esperto a fare un sopralluogo e l’uomo era tornato da lui comunicandogli che una parte del cratere centrale era crollata e che la lava era stata eruttata con tanta violenza che in meno di un’ora e mezza aveva percorso più di cinque miglia, e che il suo corso si stava indirizzando verso una grande concavità nel territorio della città di Mascali.

La colata lavica verso la parte orientale della valle del Bove (foto da meteoweb.eu)

L’indomani, 10 luglio, il Mongibello era tornato tranquillo (lettera di Uzeda al Re del 23 luglio 1693), limitandosi ad emettere fumo «come fa di solito», con soltanto un leggero terremoto «attribuito alla forza dei movimenti sotterranei che di tempo in tempo sono soliti udirsi all’interno di quella Montagna» (6 agosto), un fenomeno continuato per tutto il mese di agosto. Ma poi di nuovo il 3 settembre, il Duca di Uzeda riferisce a Madrid di forti scosse di terremoto avvertite in tutto il Val di Noto il 14 agosto passato e che nello stesso tempo Mongibello aveva fatto udire ripetutamente forti boati sotterranei «simili ad un cannoneggiamento di artiglieria pesante» e poi aveva emesso fumo, lava e considerevoli quantità di ceneri.

La notte del 24 agosto dal cratere centrale aveva eruttato, emettendo «grandi bagliori […] come di luci (nell’aria) e che dopo che quelle luci si erano spente si osservò che l’aria era piena di odore di zolfo». A seguito di quelle esplosioni ad Acireale erano rimaste danneggiate una chiesa e varie fabbriche.

Il vulcano aveva continuato sempre a farsi sentire ed il 17 settembre Uzeda riferì che l’infaticabile Duca di Camastra aveva mandato «persona pratica ad esplorare il cratere centrale della Montagna e gli altri che si erano aperti ad un miglio e mezzo di distanza» e gli aveva comunicato che della cima della Montagna «verso mezzogiorno […] è rimasta solo una porzione […] a mo’ di scoglio e il resto forma una vasta pianura. A ponente invece si era formata una altura dalla quale uscivano fuoco e fumo […] Nei pressi, si osservavano alcune montagnole di sabbia dell’altezza di due varas (4 metri, n.d.a), mentre a levante era spuntata una montagnola di materia bituminosa. Il fumo poi che usciva dalla bocca di ponente era simile ai movimenti del mare in tempesta, tanto era violenta la forza con cui erompeva dalle viscere del vulcano. Però all’esploratore non era stato possibile vedere la profondità delle fenditure apertesi nel Piano del Lago nei pressi della Torre del Filosofo per la gran quantità di sabbia caduta».

Il Piano del Lago sul versante sud dell’Etna (immagine da ilvulcanico.it)

Ma a parere dell’uomo – scrive rassegnato il Duca di Uzeda – si ritiene «inevitabile che a causa della ripetizione di tante scosse il Piano del Lago sprofondi fino al cratere centrale, come è accaduto nella parte sommitale». Insomma, sembrava che davvero il Mongibello stesse per sprofondare. Né cessavano i terremoti. Il 20 settembre infatti (lo riferivano Camastra, il Castellano di Catania ed i Governatori di Siracusa ed Augusta) si era sentito un terremoto violento, preceduto «dai consueti boati sotterranei della Montagna di Mongibello», che aveva continuato ad esalare fuoco e fumo. Come si poteva ricostruire con l’angoscia che l’indomani crollasse ciò che era stato costruito il giorno prima? Come si vede, mai forse l’Etna era stata così osservata, per leggere in essa il destino futuro della Sicilia, mentre forze oscure stavano diffondendo una grande paura.

di Paolo Monello

Dopo la parentesi sulla sorte dei quadri dell’ultimo Conte di Modica, don Juan Tomás Enriquez, torniamo ai documenti da me posseduti in copia sui terremoti del 9 e 11 gennaio 1693 e provenienti dall’Archivio Generale di Simancas (Spagna). Ricordo che si tratta delle note spedite a Madrid dal viceré don Juan Francisco Pacheco Duca d’Uzeda e Conte di Montalban (1649-1718), in carica a Palermo dal 1687. Persona colta, amante della scienza e della musica, bibliofilo e collezionista di quadri ed altri oggetti preziosi. A mio avviso – alla luce della documentazione – fu l’uomo giusto al posto giusto in quel disgraziato periodo.

Juan Francisco Pacheco Duca d’Uzeda

In genere, quando si parla della catastrofe sismica del gennaio 1693, si accenna solo all’evento dell’11 (a volte si dimentica il 9 e in genere si ignora che la sequenza mortale cominciò la sera del giovedì 8 gennaio) e poi si passa direttamente alla ricostruzione ed alla esaltazione del Barocco delle nostre zone. In verità, la ricostruzione fu assai lenta e durò decine di anni e solo alla fine del ‘700 la Sicilia sud orientale acquistò il volto che in gran parte oggi vediamo.

Nei documenti esaminati si parla invece dell’immediatezza della tragedia, quando le scosse di terremoto sembravano non finire mai e non si sapeva a qual Santo votarsi e come fare per placare l’”ira divina”, che si era abbattuta sui Siciliani ed in particolare sulla Chiesa siciliana per i loro peccati.

Il terremoto del 1693 in una incisione eseguita a Norimberga del 1696

Già in precedenza ho accennato che le prime notizie del disastro arrivarono a Madrid da Napoli ai primi di marzo, mentre le relazioni ufficiali di Uzeda giunsero il 18 marzo e furono esaminate il 22 marzo dal Consiglio di Stato e l’indomani 23 dal Consiglio d’Italia. Si trattava di due lunghe missive, una datata 22 gennaio e l’altra 5 febbraio. Lette le note, il Consiglio di Stato riassunse per il re Carlo II il loro contenuto. Esse si riferivano agli eventi fino al 5 febbraio, e riguardavano le provvidenze assunte dal viceré: soccorsi immediati, ordini per la ricostruzione delle fortezze per la difesa del regno.

Carlo II Re di Spagna

Il Duca di Uzeda, comprendendo di non potere da solo affrontare le infinite questioni che si stavano ponendo, comunicava di aver formato due Giunte, una di “secolari” (cioè di civili) ed una di ecclesiastici per garantire il Culto Divino ed avere consigli, di fronte all’immane disastro che aveva colpito centinaia tra chiese, conventi e monasteri che erano crollati o inagibili.

I Consiglieri approvarono l’operato del Viceré, mettendo in evidenza la gravità della situazione, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello della difesa del Regno, per il timore che – appresa la distruzione delle fortificazioni di Augusta e Siracusa – i Francesi tentassero un colpo di mano. L’Isola infatti risultava completamente indifesa. La flotta siciliana formata di sei galere era in cattivo stato e per la manutenzione delle navi e per il pagamento degli equipaggi c’era un grave problema. Il mantenimento della flotta infatti era finanziato con i proventi della Bolla della Crociata (e cioè la vendita delle indulgenze, con la “remissione” dei peccati in cambio di denaro), affidata ad appaltatori che avevano anticipato grandi somme e per le quali pretendevano forti interessi.

Navi della flotta spagnola in una pittura dell’epoca

In questa situazione di estremo pericolo, il Consiglio chiese al Re di ordinare l’invio di truppe di rinforzo in Sicilia e di disporre che le flotte di stanza nel Mare del Nord entrassero nel Mediterraneo, per accorrere in aiuto della Sicilia. Infine si affidava al Consiglio d’Italia il compito di assistere il viceré con le risorse necessarie.

Più dettagliato invece il verbale del Consiglio d’Italia, dove vengono riferite quasi integralmente le due lettere esaminate, a cominciare dalle scosse sentite a Palermo la notte del 9 (alle 10 di sera), senza gravi danni né a case e persone. Ma la domenica 11 alle 2 del pomeriggio si erano udite fortissime scosse, che avevano danneggiato o distrutto alcune case, senza però alcuna vittima, cosa attribuita subito alla protezione di Santa Rosalia. Il Palazzo Reale aveva però subito notevoli danni, con la fortuna che la Porta Nuova – dove erano custoditi 400 quintali di polvere – era rimasta intatta.

La magnitudo del terremoto del 1693, secondo le ricostruzioni di geologia storica dei ricercatori dell’INGV, ebbe magnitudo 7,4 della Scala Richter. Un terremoto fortissimo.

Gravi danni aveva subito anche il carcere della Vicaria. Le scosse si erano ripetute il mattino del lunedì, danneggiando gravemente l’appartamento del viceré, che aveva preferito dormire nella Galera Capitana e stare di giorno nei locali della Segreteria, per provvedere all’emergenza.

A questo si univano le tremende notizie che man mano erano arrivate al viceré da tutto il Regno e soprattutto dal Valdemone, dall’intero Val di Noto e dalla Contea di Modica, rimasti distrutti, con la morte sotto le rovine di numerosissime persone, il cui numero esatto non si sapeva, per l’impossibilità dei corrieri di viaggiare a causa del crollo dei ponti e dell’esondazione dei fiumi, per le grandi quantità di neve e piogge cadute. Si sapeva però che continuando le scosse di terremoto, le persone si erano rifugiate nelle campagne.

Una veduta di Scicli prima del terremoto del 1693. Particolare di un dipinto di Antonino Manoli (immagine da IloveScicli.it)

Come prima cosa, il Duca di Uzeda aveva nominato il generale Giuseppe Lanza, Duca di Camastra (uno dei protagonisti della guerra di Messina del 1674-78), Vicario Generale del Valdemone, con l’incarico soprattutto di arrivare prestissimo a Catania, che risultava la più colpita dal disastro e dove non era rimasta in piedi neanche una casa, secondo le notizie arrivate. Per il Val di Noto aveva nominato come Vicario Generale il Principe di Aragona (poi sostituito dall’arcivescovo di Siracusa), per Catania aveva nominato Commissario Generale don Giuseppe Asmundo (Giudice della Gran Corte), coadiuvato da don Giovanni Montalto (Giudice del Concistoro).
A questi aveva poi aggiunto per il Val di Noto il Tesoriere e Vicario Generale don Giuseppe Celesti, il Consultore don Matteo Giordano e don Scipione Coppola: a questi e poi anche a Camastra aveva dato il compito di seppellire i morti e di stroncare i furti e i saccheggi, usando le maniere forti necessarie e cioè la forca e le schioppettate.

Giuseppe Lanza Duca di Camastra

Nonostante la situazione deficitaria del bilancio del Regno, Uzeda aveva inviato denaro per soccorrere le guarnigioni delle sventurate città, privilegiando soprattutto Catania, Siracusa ed Augusta e ordinando al Governatore di Messina di soccorrere per quanto potesse quelle piazzeforti, le cui truppe erano state decimate dai crolli e solo per caso ad Augusta – dove era esplosa una polveriera piccola – non era accaduta una tragedia maggiore, che sarebbe stata causata dall’esplosione della polveriera grande, dove erano stipati 1000 quintali di polvere.

Uzeda era assai preoccupato per le immense somme necessarie a ricostruire le fortificazioni e per l’impossibilità di far fronte alla spesa, e questo in tempo di guerra con i Francesi e la presenza nella rada di Siracusa di navi della flotta dei Cavalieri di San Giovanni di Malta, che certamente avrebbero avvisato i Francesi del disastro.

Catania prima del terremoto del 1693 in una pittura dell’epoca

In ogni caso aveva incaricato il Colonnello don Carlos de Grunembergh ed il Maestro di Campo Generale don Sancho de Miranda di fare un accurato sopralluogo a Siracusa ed Augusta, per verificare i danni e per prendere immediate iniziative per la ricostruzione (ma anche rimpiazzare i soldati, in parte morti, in parte scappati, in parte rifugiatisi a Messina), pur mancando materiali e muratori. Il Viceré concludeva la prima lettera, scusandosi ancora una volta di essere rimasto a Palermo, per meglio controllare la situazione dell’ordine pubblico, perché era un miracolo che nonostante il crescente orrore per le notizie che man mano arrivavano, il popolo si manteneva tranquillo, senza furti né delitti.

Nella seconda lettera, il Duca di Uzeda dava informazioni più precise, per quello che aveva potuto sapere, allegando una prima relazione dei danni nelle Città demaniali e Baronali, senza però poter ancora comunicare il numero dei morti sia perché i cadaveri erano rimasti sotto le macerie sia anche perché migliaia di persone erano fuggite disperdendosi nelle campagne, dove abitavano in baracche (o sulle barche, come a Messina).

“La processione di santa Rosalia” a Palermo per lo scampato pericolo del terremoto del 1693. Dipinto a cavallo tra ‘600 e ‘700 di pittore siciliano ignoto, conservato in Spagna

In alcuni casi, alcune bande di ladroni erano state fermate a schioppettate e con la forca ed un forte aiuto aveva dato a sue spese il Principe di Butera, che aveva prestato soccorso a 60 soldati e inviato ad Augusta e Siracusa farina, pane fresco e alcune vacche, dove poi era giunta una tartana con 200 salme di farina e 200 quintali di biscotto.

Aveva inoltre ordinato l’apertura della Zecca di Palermo, per coniare moneta, evitando che il bisogno di denaro costringesse i possessori di argento a impegnarlo o a mandarlo fuori dal Regno per farne monete. Per affrontare le conseguenze della catastrofe, aveva creato una Giunta composta dal Reggente don Juan Antonio Joppulo, dal Presidente don Joseph Scoma, dal Consultore don Antonio Ibañez, dal Controllore Generale marchese de Analista, dal suo Segretario don Felix de la Cruz, dal M.ro Razionale don Sebastian Gesino, dall’Avvocato Fiscale don Balthasar del Castillo e da don Pedro Capero, Deputato del Regno. Tutti costoro, dovevano riunirsi ogni settimana nella Segreteria per discutere i mezzi per affrontare la situazione.

Carlo Maria Carafa, Principe di Butera nel 1693

Inoltre, per il gran numero di chiese, monasteri, conventi e abbazie distrutti, con centinaia di monache di clausura sbandate nel Val di Noto e per celebrare decentemente il Culto Divino aveva ordinato di formare una Giunta Ecclesiastica, composta dall’arcivescovo di Palermo don Fernando Bazan, dal Giudice della Monarchia don Gregorio Solorzano, dall’Inquisitore Generale don Phelipe Ignacio de Trujillo, dal frate Alessandro Conti e dal duca di Grotte come Deputato del Regno, al fine sempre di proporre tutti i mezzi necessari per far fronte al disastro.

Stampa dell’epoca che illustra i danni del terremoto

Riassunto il contenuto delle drammatiche lettere del Duca di Uzeda, il Consiglio le rimetteva al Re, aggiungendo che non c’era «memoria di un simile evento così disastroso, né di tanta disgrazia né vittime» (i consiglieri si sbagliavano: e successivamente apprenderanno che eventi simili si erano verificati nel febbraio 1169 e nel dicembre 1542, nello stesso Val di Noto, n.d.a). Approvando in tutto e per tutto l’operato del Viceré per fortificare quanto prima le piazze di Catania, Augusta e Siracusa e la formazione delle due Giunte, il Consiglio d’Italia chiedeva al Re di permettere ad Uzeda di utilizzare le entrate della cosiddetta “mezza annata” (una sorta di tassa di successione sui feudi), di sospendere momentaneamente il contributo al duca di Savoia (per la guerra in corso contro i Francesi) e di sospendere per un anno l’erogazione di premi, incentivi ed aumenti su salari e pensioni, destinando tali risorse alla ricostruzione delle fortezze.
Come in genere usava, il Re fece scrivere poi in calce al documento «como parece», cioè «va bene».

Il documento del il Consiglio d’Italia approvato da Carlo II con la formula: «como parece» (va bene)

Ma nella Sicilia di quei primi tragici mesi del 1693 non c’era solo l’emergenza materiale (seppellire i morti, costruire baracche, impedire i saccheggi, assicurare i viveri, raccogliere le monache di clausura). Nonostante i pochi danni subiti, Uzeda il 5 febbraio scrive che non c’era giorno che a Palermo non si diffondessero profezie di altri terremoti e desolazioni, come era accaduto a fine gennaio, con la gente fuggita nelle campagne perché una imprudente monaca aveva scritto a sua madre che di lì a poco ci sarebbe stata un’altra catastrofe.

In quei giorni infatti, oltre al dolore, alla lotta per sopravvivere, in metà della Sicilia due erano i protagonisti: la paura causata dall’”ira di Dio” e la Montagna per antonomasia, cioè il Mongibello. Mentre infatti la Chiesa cercava di spiegarsi i motivi per cui Dio era adirato con essa e con i Siciliani, le autorità civili guardavano al vulcano, e dalla sua quiete o dalle sue eruzioni temevano sciagure o finalmente pace.

Il vulcano dell’Etna  veniva considerato a quei tempi responsabile dei terremoti in tutta l’area della Sicilia orientale (foto MeteoWeb)

Sin dal 16 gennaio infatti, il Secreto di Randazzo aveva comunicato che a seguito del terremoto di domenica 11 alle 2 e mezza del pomeriggio (la datazione delle scosse oscilla, come si vede dalle 14 alle 14,30) «la Montagna aveva cominciato a gettare fumo, e si era constatato che la sua cima si era abbassata»: era cioè crollata parte del cratere centrale. E fu così che dall’11 gennaio 1693 il Mongibello divenne un “osservato speciale”…

Una pagina di documento del Consiglio d’Italia conservato nell’Archivio Generale di Simancas attinente il terremoto del 1693