“La grafia del cinema” è una nuova rubrica quindicinale del lunedì curata da Vito Castagna che, attraverso una serie di recensioni di film datati e contemporanei, cercherà di farvi appassionare al cinema d’autore. Perché, oltre ad essere guardata, la settima arte merita di essere ragionata.
di Vito Castagna
Prima del 9 aprile 1981, se aveste sfogliato il Codice penale, alla sezione “Dei delitti contro la persona individuale”, e più precisamente all’art. 603, avreste letto: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni».
Nel 1964, Aldo Braibanti, intellettuale, ex dirigente del PCI, filosofo e mirmecologo (studioso di formiche), fu uno dei pochi uomini in Italia ad essere accusato di Plagio, il reato che è stato citato pocanzi. L’accusa fu quella di aver adescato un ragazzo maggiorenne, Giovanni Sanfratello, e di averlo sottomesso fisicamente e psicologicamente al proprio volere; in sostanza, Braibanti era reo di aver abusato del ragazzo, dopo averne estorto il consenso facendo peso sul proprio carisma.

Il processo che avvenne a Roma e che seguì l’arresto dell’intellettuale piacentino e i fatti che lo precedettero sono stati rappresentati dal regista Gianni Amelio nel suo Il Signore delle formiche, che ha concorso alla 79º edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Amelio ha cercato di cucire i fatti di cronaca alle necessità romanzesche, riuscendo a creare uno spaccato fedele e brutale dell’Italia di quegli anni, pervasa da un bigottismo becero e retrivo nei confronti dell’omosessualità. Tutto ciò, in particolar modo, si condensa nel processo subito dall’accusato, nella sua pacata e ferrea resistenza alle calunnie di giudici, avvocati e testimoni.

Braibanti, interpretato da Luigi Lo Cascio, è un Socrate che non è disposto a piegarsi alla Legge di uno Stato che non riconosceva all’amore fra uomini la sua liceità.
Tuttavia, la figura di Ettore Tagliaferri (Leonardo Maltese), nome fittizio dell’ipotetica vittima, è quella che più subisce le pene di un sistema reduce del passato: rinchiuso in una casa di cura per malati mentali, viene sottoposto a sedute di elettroshock volte a scacciare il demone di Braibanti dalla sua testa, a costo di bruciargli il cervello.
Ad un giornalista dell’Unità, Ennio Scribani (Elio Germano), altro personaggio inventato, è affidato il compito di sensibilizzare l’opinione pubblica in favore dell’intellettuale, andando contro il suo stesso caporedattore e il disinteresse altrui.

La provincia piacentina e Roma fanno da scenografia al dramma. Al loro interno, attori alla prima apparizione si relazionano con professionisti di chiara fama. Questo coraggioso esperimento, che richiama ad Accattone o ad Uccellacci e Uccellini, per citare alcuni film di Pasolini, si è rivelato particolarmente efficace. Fanno da contraltare, una conduzione della macchina da presa e una fotografia che preferiscono un andamento classico e pulito rispetto alla sperimentazione. La colonna sonora entra in scena solo nei momenti necessari, lasciando campo libero ai silenzi e ai dialoghi.

Così come il Braibanti mirmecologo, Amelio osserva la società da un punto privilegiato, come se questa fosse racchiusa in una teca. Il suo occhio si sofferma sulle negazioni, sulle ipocrisie di un’Italia che troppo poco è mutata. Un chiaro rimando ad un altro caso, quello del già citato Pasolini, nel quale l’intellettuale bolognese era stato accusato di pederastismo, nel 1949.
Smascherando l’inquisizione di quegli anni, quella che da omosessuale ha dovuto patire egli stesso, il regista accomuna la vicenda Braibanti a quella di ogni individuo schiacciato dalla morale dominante. Un vetro sul quale Amelio invita gli altri a specchiarsi, dopo averlo fatto a sua volta e, al contempo, un appello alla ribellione contro ogni sopruso.