di Letizia Dimartino
Andavo a Marina di Ragusa, dodicenne, alla fine di agosto, quando avevamo già fatto il viaggio consueto per l’Italia e trascorso le vacanze a Messina. Mio padre guidava la Giulia verde chiaro, correva sulle cunette di “Cutalia”, da lì si comincia a vedere il mare lontano, lasciate le nubi degli Iblei e il temporale del primo pomeriggio. Trovavo le mia amiche sul lungomare, indossavo sandali dorati infradito o alla schiava e occhiali da sole bianchissimi, un filo di gloss rosa. Ero bruttina, l’età ci rendeva strane e senza piacevolezza, poi sarebbe avvenuto tutto. Il cono gelato mi si scioglieva lungo la mano e poi il braccio, avevo poca fame e non sapevo gustare nulla. Sentivamo la canzone “Ciao ciao” che raccontava di un amore estivo che finiva al tornare in città. Poi c’era il sole a tramontare oltre gli scogli, un odore di focacce e di basilico nelle case con gli orti e con l’uva in pergolato sulle tavole di legno illuminate da una lampadina attaccata ad un filo.

Si faceva penombra presto, si pensava a ciò che terminava, gli anziani giocavano a briscola, le donne infornavano un pane di farina dorata, gli uomini avevano il pigiama. Noi ragazzine guardavamo la rotonda sul mare dove avrebbero ballato i grandi, di notte, con le gonne arricciate e le guance accostate e le invidiavamo. Pensavamo ad un amoretto e sembrava bellissimo e lontano e impossibile però ci bastava, la sera, quando ci addormentavamo. Tornando a Ragusa, il cielo nero e le stelle ferme e pulite dopo la pioggia, una luna imponente, il letto per la stanchezza. Il giorno dopo trovavo una granita di limone da mangiare col panino caldo e croccante: andavamo in campagna, Beddio ci attendeva ed era tutta una frescura e un odore di erba e di bello e di riposo, di tè freddo, di fichi neri e spaccati, di estate finita.
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