di Paolo Monello
Le ripetute segnalazioni del Duca di Uzeda sui continui terremoti spinsero la Corte, nel novembre successivo, in mancanza d’altro e come unico rimedio, a ordinare «che in questo Regno si facessero rogazioni e pubbliche penitenze al fine di procurare di placare con questo mezzo l’ira della Divina Giustizia nello sciagurato accidente dei terremoti». All’inizio si era suggerito di fare questi esercizi di penitenza «sin exterioridad», dopo quasi un anno di terremoti, il Re ordinò che si facessero invece preghiere pubbliche.

Impetrare dalla Divinità la fine dei terremoti era condizione essenziale per la ricostruzione soprattutto delle fortificazioni in tempo di guerra con la Francia e delle città stesse, ma essa andava a rilento a causa delle continue scosse che terrorizzavano e ancor più demoralizzavano i superstiti. La Chiesa sin dai primi giorni aveva cercato di reagire come poteva e come sapeva fare.
Alla protezione di Santa Rosalia (con la promessa sin dai primi di marzo di una festa annuale per l’11 gennaio di ogni anno) l’Arcivescovo Bazan, dall’agosto aveva stabilito «lo svegliatoio di alcuni tocchi funebri di campane in ogni venerdì in memoria della Passione e morte di N.S. e della liberazione dal terremoto» (Mongitore), cosa che certamente non sollevava l’animo di tanti palermitani e soprattutto degli abitanti del Val di Noto, sottoposti ad inimmaginabili tribolazioni.

Adeguandosi al senso comune, il Viceré Uzeda aveva anche chiesto al Senato della Città di Palermo di nominare San Francesco Borgia – un santo spagnolo, precisa Uzeda – “como especial Abogado de los terremotos” (15 ottobre), ed arrivatigli gli ordini reali nel novembre, aveva inviato dispacci in tal senso a tutti i prelati del Regno e al Tribunale della Monarchia per la loro pronta esecuzione. Ma erano insorti problemi. Da un lato infatti l’Arcivescovo Bazan riteneva conveniente spostare queste cerimonie a dopo l’11 gennaio 1694, «maggiormente perché gli atti delle missioni e di comunione generale si erano appena conclusi il giorno della Presentazione di N.ra S.ra», il 21 novembre. Inoltre «erano prossimi a ripetersi nel giorno della Concezione e per Natale».

La maggiore opposizione era però venuta dalla Giunta dei Secolari (organismo che con la Giunta degli Ecclesiastici doveva consigliare il Viceré), che con particolare attenzione ai pericoli per l’ordine pubblico suggeriva allo stesso di ordinare ai Prelati del Regno di «continuare nelle loro Diocesi questi Santi esercitij come che tutta la sostanza della Vera Riforma Christiana ricercata dalla Divina accettatione per placare la sua Santa Giustizia ne’ popoli unicamente consiste nel buon uso e frequenza de’ Sacramenti e della Parola Divina con le prediche e missioni, insinuando alli Vescovi che sospendano gli ordini datili in esequtione delle Lettere Reali per non dar maggior apprensione alla sieguente diceria della falsa Profetia del Venerabile Beda».

Circolava infatti a Palermo una profezia di quattro versi in latino (esametro/pentametro, esametro/pentametro) che così recitava [metto gli accenti sulle sillabe, n.d.a.]:
«Séxdec(im) ést ortúm post Chrísti sécla perácta/Sólstitiúm triúm bís quoque lústra novém/Étna cadét Mons, Trínacri(a), ác tota quíppe períbit/Núllum véstigiúm túnc remanébit eiús». (Passati sedici secoli dalla nascita di Cristo, è sorto il solstizio dei tre [anni] e due volte nove lustri [cioè 1600+3+2x9x5=1693], ed allora il Monte Etna sprofonderà e tutta la Sicilia perirà e di essa non rimarrà alcuna traccia).

La fattura dei versi, anche se poco elegante, metricamente rivelava comunque una origine colta (ambienti gesuitici?). Tali versi – secondo la Giunta – miravano a spargere il terrore per un imminente sprofondamento della Sicilia con l’Etna il giorno dello stesso solstizio invernale, il 21 dicembre.
La Giunta aveva fatto verificare se veramente una simile profezia si trovasse nell’opera “De Vaticiniis” del monaco inglese Beda (672-735), ma non ce n’era traccia. Pertanto, alla luce di quanto era successo nel 1647, quando le processioni contro la siccità avevano generato una grave rivolta, per l’«apprensione in che si sta con la Diceria di queste false Profetie che sia per essere fatale al Regno il prossimo solstitio vernale e l’annuale del’11 del futuro gennaio».

La stessa Giunta per motivi di ordine pubblico raccomandava al Viceré, in sostanza, di disobbedire agli ordini reali e di ordinare che si continuassero le cerimonie all’interno delle chiese, con prediche e sacramenti senza processione né rogazioni, le quali ultime prevedevano la flagellazione con effusione di sangue dei penitenti. Il Duca di Uzeda non si fece pregare e il 5 dicembre la sua Segreteria spedì una nota ai Vescovi dell’isola sospendendo gli ordini del Re, vietando processioni, rogazioni e invitando i Prelati a porre in essere «mezzi più conformi alla prudenza e alla pietà cristiana, per indurre le popolazioni alla frequenza dei sacramenti e all’esercizio delle altre opere, che possano essere efficaci a piegare la Divina Misericordia, affinché sospenda il castigo che ci minaccia colla ripetizione dei terremoti».

Fortunatamente, il giorno del solstizio invernale passò senza che nulla accadesse e il 29 dicembre il Duca di Uzeda tornò a riferire a Madrid che «Mongìbello aveva continuato la sua esalazione di fumo e fiamme in quantità» ma senza alcun danno. Superati anche i timori per un’eclisse il 1° gennaio, ci si preparò a ricordare il 1° anniversario.
Come andarono le cose, lo leggiamo in una lettera del 22 gennaio:
«Questi giorni in cui si è compiuto l’anno delle passate sventure – scrive Uzeda -, si è rinnovato in tutti il timore e la consapevolezza di nuove sofferenze; però non per questo si è tralasciato di celebrare con il più fervoroso culto e devozione il giorno undici in rendimento di grazie per i benefici ricevuti, e ad onore della nostra Protettrice Santa Rosalia, e ho notizia che nella maggior parte del Regno si è fatto lo stesso in onore dei Santi Tutelari e Patroni, muovendo con questo mezzo gli animi a continuare le devozioni, senza introdurre il clima di preoccupazione delle rogazioni […] per ottenere dalla Divina Pietà il conforto che tanto è necessario».

Come si vede, l’11 gennaio 1694 fu celebrato anche a Palermo, ma oggi non c’è traccia di una cerimonia in quel giorno in onore di Santa Rosalia. Invece a Vittoria sì. Non sappiamo se l’11 gennaio 1694 a Vittoria si celebrò quel primo triste anniversario (anche se i morti non superarono le 40 unità) ma fu allora che nacque la leggenda del sacrificio della testa del Santo per la salvezza della città (come apparirebbe dalla t.a.c. eseguita qualche anno fa sulla statua, che indicherebbe un taglio netto) e che probabilmente l’arciprete don Enrico Ricca narrò a don Giovanni Palumbo, che ne parlò nella sua opera sul Santo nel 1744, contribuendo a radicare l’usanza annuale. Che io sappia, oggi solo a Vittoria si celebra una festa esterna in onore di San Giovanni a memoria dell’11 gennaio 1693.
