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di Antonio, Nunzio e Mario Spina

La sera dell’8 settembre 1943, una parola carica di speranza echeggia lungo la penisola: armistizio!
Il maresciallo Badoglio la pronuncerà poco dopo alla radio, in un proclama che inizia cosi:
“Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta…”.

La stessa sera – come ogni sera – un militare siciliano di 21 anni appunta sul suo diario avvenimenti e sensazioni della giornata. Studente universitario, è arrivata anche per lui la chiamata alle armi, mentre i fuochi della Seconda guerra mondiale sono più che mai accesi. Dopo le disfatte sulle montagne della Grecia, in terra d’Africa e nella sterminata steppa russa, adesso è sui nostri lidi che si combatte, in seguito al recente sbarco degli Alleati; l’esercito italiano in balia degli eventi, sempre più smarrito. Da un mese circa, il nostro giovane militare si ritrova con una batteria della Divisione “Piave” accampata in un altipiano alla periferia nord di Roma. Su quel diario ha già scritto: “…l’aria della guerra si fa sentire sempre più, attendiamo impassibili le novità che da un momento all’altro possono capitare circa il nostro impiego…”. Poi arriva l’8 settembre…

Mercoledì 8 settembre…

Maria è il nome della mamma, morta giovanissima, dopo avere dato alla luce quattro figli, lui il primogenito. C’è la guerra nell’aria; eppure si parla anche di esami, quelli che, nonostante le difficoltà, sono stati indetti per la promozione al grado di caporal-maggiore degli studenti universitari aggregati ai vari reparti.

Lo studio come un dolce rifugio. O, meglio, un utile espediente per esorcizzare le paure del momento e purificare un po’ quell’aria pesante. Il brusco ritorno alla realtà ha il suono incoraggiante di un «gridio», di una parola che inizia per “A”, scritta con la lettera maiuscola. «Troppo bello per crederci!».

“…Armistizio, nessuno ci presta fede , sarebbe troppo bello per crederci.”

Lacrime di gioia, l’angoscia che di colpo svanisce. La guerra è finita anche per i propri cari, che in Sicilia hanno visto e patito i primi scontri armati dopo lo sbarco degli Alleati. Il panorama, adesso, offre solo immagini liete di un ritorno alla vita normale.
Le prime parole della pagina successiva esprimono i sinceri – quasi ingenui – sentimenti di un giovane che ha risposto al dovere di servire la Patria: senza colore politico, senza destra e sinistra. La Patria!
Poi, però, ascoltando le parole di Badoglio, orecchie tese alla radio…

8 settembre 1943: diario di guerra di un siciliano
“… Ancora ansimanti gridavano: Armistizio! Armistizio!…”

Ma allora? Che vuol dire quella seconda parte del proclama («Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»)? Che la guerra continua?
Illusione e disillusione, nel breve volgere di un attimo. La guerra continua, altro che, se continua! Contro il nemico che prima era alleato, ma continua! Il dovere di servire la Patria chiama ancora…

8 settembre 1943: diario di guerra di un siciliano
“… possiamo rivedere i nostri cari (?)”

Quella sarà la prima di una lunga serie di notti insonni, o quasi. Abbandonati a loro stessi, dopo il “rompete le righe” del capitano, il gruppetto di militari siciliani – per sottrarsi ai continui agguati delle forze armate germaniche – troverà rifugio nelle campagne di Arcinazzo Romano, ognuno presso una famiglia di contadini. Come dimora andrà bene anche una stalla; di tanto in tanto una “libera uscita” per lavorare nei campi, e ricambiare così la benevolenza ricevuta. Sentiranno più volte il gracchiare di un militare tedesco in perlustrazione, nascosti in ogni angolo possibile, persino sotto il largo vestito di una persona amica. La scamperanno sempre!

8 settembre 1943: diario di guerra di un siciliano
“Ognuno sente nel suo io d’aver dato alla Patria quanto essa gli ha chiesto…”

Trascorreranno mesi e mesi prima del tanto sospirato ritorno a casa, utilizzando tutti i mezzi di locomozione possibile: carri, camion, treno. L’attraversamento dello Stretto di Messina potrà avvenire solo dietro pagamento a un pescatore, che metterà a disposizione la sua barchetta, purché sia piena di occupanti e il guadagno di conseguenza cospicuo. Il nostro giovane militare, derubato di tutto, si ritroverà per fortuna dei soldi, che una sua zia – incontrata a Santa Maria Capua Vetere, lungo la discesa – gli aveva accuratamente “cucito” nelle mutande (e lui se ne era pure vergognato). La traversata avverrà di notte, per sfuggire ai controlli; nel buio, le forti correnti dello Stretto faranno sobbalzare pericolosamente l’imbarcazione sovraccarica, la paura di morire si ripresenterà inattesa, a un passo da casa.

8 settembre 1943: diario di guerra di un siciliano
“Il Capitano […] dice di tenerci pronti ad imbracciare le armi contro i tedeschi…”
E finalmente l’abbraccio dei propri cari, increduli nel vederselo comparire all’improvviso. Le lacrime di gioia che, stavolta, non si asciugano subito…
Chissà quante migliaia di militari italiani, quella sera dell’8 settembre, hanno ascoltato alla radio il proclama di Badoglio? Chissà cosa hanno scritto sul loro diario? Chissà quanti non ce l’hanno fatta a riabbracciare i propri cari?

PAGINE DEL DIARIO IN FORMATO PDF

di Giuseppe Leone

‘Contammo le lastre. Erano più di quattrocento, un tesoretto da faraone. Affidate per lo sviluppo ad un esperto, palesarono una galleria di ritratti e scene, frammenti di vita d’una minuscola fattoria fra la fine del secolo scorso e l’esordio del nostro; e, insieme, la cronaca-storia d’una famiglia, dei suoi fasti, lutti, vacanze, incombenze quotidiane…’
Affido alle parole di Gesualdo Bufalino l’inizio di questo mio pensiero sull’amico Dino, che fa parte della mia storia personale, professionale e di amicizia con alcuni di quei grandi scrittori che hanno segnato la storia della nostra letteratura.

Gesualdo Bufalino nella campagna iblea

Era il 1977 quando Sellerio mi richiese una consulenza, in casa editrice, per visionare delle stampe da lastre, di fine ottocento, ricevute da uno sconosciuto professore di Comiso. D’accordo entrambi che potessero essere stampate decisamente meglio, soprattutto ai fini della realizzazione di una stampa tipografica, presi l’incarico di restaurarle e stamparle. Inoltre mi si chiese di fare da tramite con l’ignoto professor Bufalino.

nel suo studio

Il timore di Enzo Sellerio era ovviamente che ci si ritrovasse di fronte ad uno studioso di storie patrie, grafomane pericoloso. Mi disse che il progetto era nato a seguito del ritrovamento di un gran numero di quelle lastre in vetro, da parte di un nobile di Comiso, all’interno di un cassettone nel ripostiglio del suo palazzo. Queste risultarono essere, poi, circa quattrocento e tutte rappresentanti scene di vita signorile di una famiglia siciliana, fotografie di contadini, di campieri e di tutta quella gente che viveva all’interno del feudo. Immagini straordinarie che raccontavano scorci di vita e di storia umana in Sicilia.

Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia con Elvira Sellerio

Il nobile di Comiso coinvolse il professor Bufalino affinché ne realizzasse una pubblicazione, mettendo in moto una macchina che avrebbe segnato la vita di tutti. Gesualdo, che stava già scrivendo il testo, attraverso l’assessore regionale Alberto Bombace, incaricò la casa editrice Sellerio di occuparsi della pubblicazione e io fui, come detto, coinvolto nel restauro e nella stampa delle lastre.

Sciascia, Bufalino e Consolo

Accettando l’incarico mi trovai da un lato Enzo Sellerio che premeva per capire quale fosse la qualità del testo dell’anonimo professore e lo stesso, dall’altro, che insisteva nell’aggiungere più immagini. Dopo circa due mesi conclusi il restauro e la stampa e, apprestandomi a consegnare tutto alla casa editrice, Gesualdo mi affidò il testo completo chiedendomi, a sua volta, di recapitarlo alla Sellerio.

Enzo Sellerio

Lo scritto fu consegnato come richiesto ai Sellerio, contenuto in una grande busta, lo lessero e rilessero con avidità, rimasero sbalorditi per la bellezza e le straordinarie capacità del professore di Comiso, per la scrittura incisiva, poetica e fortemente evocativa. Il seguito è storia nota, il testo sorprese tutti e i Sellerio si chiesero subito se il sessantenne docente avesse altre opere conservate nel cassetto; dopo alcune pressioni, tra queste l’intervento spronatore di Leonardo Sciascia, Bufalino si decise a consegnare il manoscritto dal titolo ‘Diceria dell’untore’, che venne pubblicato dalla casa editrice e che vinse nel 1981 il premio Campiello.

Momenti di amabile conversazione

Da quel momento in poi quell’anonimo professor Gesualdo Bufalino fu conosciuto e riconosciuto come grande scrittore. E questa è soltanto una piccola parte, tra le tante della mia storia, che narra dell’amicizia che mi legò ad alcuni dei grandi scrittori del Novecento.

Giuseppe Leone, siciliano (vive e lavora a Ragusa), con i suoi scatti racconta la Sicilia attraverso fotografie di persone, paesaggi, architettura feste, luoghi e moda. A colori e soprattutto con il prediletto bianco e nero. Ha collaborato con riviste Nazionali ed Internazionali, con case editrici e con case di moda note, come Dolce & Gabbana. Ha esordito illustrando il volume di Antonino Uccello La civiltà del legno in Sicilia (Cavallotto, 1973). Da allora le sue fotografie hanno arricchito numerosi libri, cataloghi e riviste di editori italiani e stranieri.

A Comiso

di Mimmo Arezzo

In un crogiolo di grandi tesori, Modica può annoverarne ancora un altro che meriterebbe di essere conosciuto meglio. Io stesso, fino a un paio di anni fa, non avevo mai notato una linea a forma di 8 molto allungato che occupa quasi tutto il transetto del Duomo di San Giorgio, e che viene presentata come “meridiana” (probabilmente non l’avevo ben capita e, quindi, rapidamente rimossa).

Il Duomo di San Giorgio di Modica (foto di Ruggero Poggianella da Wikipedia)

Il primo problema che questa pone riguarda proprio il nome, perché la parola “meridiana” è di derivazione latina e significa “linea del mezzogiorno”. Ora, noi siamo abituati a definire con quel nome i disegni che si trovano nelle facciate di molti edifici e che non riguardano solo il mezzogiorno ma indicano le varie ore del giorno, a secondo di dove si trova l’ombra dello “gnomone” (il bastoncino). Un nome più corretto per quei disegni sarebbe quello di “orologio solare”. Il disegno del pavimento di San Giorgio riguarda invece proprio il mezzogiorno e quindi è esatto chiamarlo “meridiana”.

È stato realizzato nel 1895 (non ha quindi la stessa età della chiesa), per conto della Confraternita delle Cento Messe, dal matematico Armando Perini, nato nell’isola d’Elba, ma inseritosi bene nel tessuto sociale e politico modicano fino al punto di diventarne assessore comunale.

La meridiana tracciata dal matematico Armando Perini nel transetto del duomo

Ora, addentrandoci un po’ più sul tecnico, sappiamo che a causa della inclinazione (di circa 23,5°) dell’asse di rotazione della Terra sul piano della sua orbita il Sole ci appare, alla stessa ora, più alto d’estate e più basso d’inverno. Se potessimo fare un segno nel cielo per identificare la posizione del Sole a mezzogiorno di tutti i giorni dell’anno, dovremmo aspettarci di avere non un punto, ma un segmento.

(Immagine di Andrea Pittalis da Wikipedia)

Poiché non si può fare un segno nel cielo, facciamo un buchetto, per esempio, sul tetto di una chiesa, e facciamo un segno sul pavimento nella posizione dell’occhio di luce a ogni mezzogiorno dell’anno. Questa volta il “segmento” sarà facile da realizzare. Sorprendentemente però non otteniamo un segmento, ma l’8 allungato della curva di Modica. Come mai?

Precisando che cosa sia il “mezzogiorno” diciamo subito che ne esistono due. Quello “vero”, in un certo punto P della superficie terrestre, è l’istante del passaggio del centro del Sole sul semipiano che contiene l’asse terrestre, e il punto P.

Il giorno “vero”, di conseguenza, è l’intervallo di tempo che intercorre fra i due passaggi successivi. Ma i giorni “veri” non hanno tutti la stessa durata. Nell’intervallo fra l’inizio e la fine di un giorno la Terra ha percorso un tratto della sua orbita e dunque alla fine “vede” il Sole secondo una angolazione leggermente diversa.

Poiché il sistema non subisce nel tempo influenze significative dagli altri corpi celesti, sono state compilate delle tabelle con le durate dei vari giorni e si è adottato come “giorno” la media aritmetica dei dati raccolti suddividendolo in 24 ore; quindi state tranquilli, non sto sconvolgendo proprio tutto quello che sapete.

Esistono allora due mezzogiorni, uno “vero” e uno “medio”, che a volte precede e a volte segue quello vero. I segni fatti per terra in corrispondenza dei mezzogiorni veri costituiscono, lungo l’anno, un segmento diritto; quelli fatti in corrispondenza del mezzogiorno medio costituiscono una curva a forma di 8 che prende, un poco di sbieco, tutto il transetto di San Giorgio.

E qui si possono notare alcune cose veramente sorprendenti. La prima è la larghezza della curva, perché la differenza fra i due mezzogiorni va (a Modica) dai circa -15 ai circa +15 minuti primi. La seconda cosa che colpisce è la profondità culturale di una società capace di concepire ed evidenziare una realtà del genere, proprio in quell’ambito ecclesiastico che tanto aveva fatto soffrire, proprio su quei temi, Galileo Galilei.

Modica con il Duomo di San Giorgio al Centro (foto di Renata Testa da flickr.com)

Infine, colpisce che avendo a disposizione un gioiello scientifico di tale livello non sia mai diventato punto di riferimento delle visite di tutte le scuole iblee, rendendone possibile la conoscenza in età scolare e non alle soglie degli ottant’anni, com’è avvenuto nel mio caso.

Mimmo Arezzo si è laureato a Pisa nel 1966, ha svolto la sua attività all’Università di Genova, come docente di Algebra e Geometria, fino al 2010. Negli ultimi anni di attività è stato eletto Direttore della Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS), organismo che conferiva le abilitazioni all’insegnamento scolastico (di tutte le discipline).

di Luigi Lombardo 

Husky” è parola ai più incomprensibile e priva di significato. Ma se la leghiamo a “operazione Husky”, tutto comincia ad apparire più chiaro. Con questa espressione si volle indicare la più importante azione militare del 2° conflitto mondiale assieme allo sbarco di Normandia.

Con questa operazione si volle «Costringere, o indurre, l’Italia a deporre le armi come unico obiettivo nel settore mediterraneo che giustifichi la campagna già iniziata e l’entità delle forze alleate disponibili in questo settore. L’occupazione della Sicilia costituisce la premessa indispensabile, mentre l’invasione della penisola italiana e la conquista di Roma sono, evidentemente, le mosse successive. In tal modo si potrà recare il massimo contributo alla causa alleata e al progresso generale della guerra […]».

Così parlò Winston Churchil ad Algeri il 29 maggio 1943, annunciando appunto l’inizio dell’operazione “Invasione della Sicilia”. Ottanta anni fa dunque si decise di dare una svolta decisiva al grande conflitto mondiale, attaccando il nemico italo-tedesco sul fronte meridionale. Ancora una volta la Sicilia diventa centrale, come porta del Mediterraneo, alle truppe anglo-americane, che intendono colpire il cuore del territorio nemico. Agli Inglesi fu affidato il settore orientale, da Pozzallo a Siracusa, agli Americani quello occidentale, cioè da Scoglitti a Gela. Le due grandi armate, sbarcate nelle spiagge sud orientali avrebbero mosso alla conquista di Palermo e di Messina, cioè di tutta l’isola.

L’operazione ha inizio il 9 e 10 luglio 1943, annunciata da un fittissimo bombardamento messo in atto dalla flottiglia aerea che colpisce i centri del Sudest Sicilia più vicini alle coste, come Palazzolo, sede della “gloriosa” divisione “Napoli”. Nel tardo pomeriggio del 9 luglio giunse al comando tedesco di Enna un laconico messaggio di un ricognitore tedesco in volo: «Vedo un mare nero di navi», ma non fu creduto, considerato uno scherzo di pessimo gusto.

Vedo un mare nero di navi

Ma era la verità: nella notte toccarono le coste siciliane tra Gela e Cassibile «Il più imponente sbarco militare in tutta la storia del mediterraneo, 160.000 soldati, 4.000 aerei da combattimento e da trasporto, 285 navi da guerra, due portaerei e 2.775 unità di trasporto, 1.100 mezzi da sbarco, 14.000 veicoli, 600 carri armati, 1.800 cannoni». L’armata americana sbarca tra Gela e Scoglitti; quella inglese, assieme a un contingente canadese, tra la Marza (Pachino) e Augusta: il tutto senza grosse resistenze.

Ma ci fu una certa mobilitazione di molte divisioni italiane che ebbero perdite consistenti. In particolare la divisione Napoli di stanza tra Palazzolo e Solarino, oppose una strenua resistenza, come leggiamo nei diari del generale Ronchi. Molti atti di “eroismo” dei nostri sodati furono omessi e taciuti nei resoconti anche giornalistici, per non dire nelle relazioni ufficiali dei comandi anglo-americani: a tutti sembrò una passeggiata quella che fu una battaglia cruenta, come testimonia il cimitero inglese di Siracusa: perché la “storia la fanno i vincitori”. 

Le grandi catastrofi, sia causate da eventi naturali (terremoti, eruzioni, uragani) che da fatti storico-sociali (guerre, conflitti armati, carestie ecc.), si imprimono straordinariamente nella memoria. Di esse si conservano i ricordi individuali che presto evolvono in memoria collettiva, tradizione orale, racconto.

Il racconto come si sa si impreziosisce di immaginario, è esso stesso immagine, al punto che spesso ciò che si evoca è narrazione affabulante. Ne deriva che questa “fabula” si trasforma in racconto esemplare, pedagogico, ammonitore, simbolico. La verità storica si fa insegnamento morale, in quanto la declinazione mitica tende, coll’allontanarsi temporale dei fatti, a prevalere e a mettere in rilievo gli aspetti emblematici e paradigmatici dei tragici fatti. La storia diventa, in qualche modo, ammaestramento etico, severo magistero. Le catastrofi (compresi gli eventi bellici), pertanto, sono attribuite alle colpe degli uomini e alla conseguente punizione degli dèi, del dio.

La storia diventa, in qualche modo, ammaestramento etico, severo magistero

I tragici bombardamenti di Palazzolo del 9-10 luglio 1943, se non hanno dato luogo a produzioni poetiche e ai cunti, che di solito si sviluppano da questi eventi, hanno favorito il fiorire di racconti, di storie vere e immaginarie, fondati sui “si dice”, “mi dissero”, che sono già la premessa della “affabulazione”. 

Così, parlando nello specifico dei bombardamenti del 1943 a Palazzolo, la tradizione dei morti a centinaia sul piano della Guardia (un quartiere di Palazzolo), magari non corrisponderà al vero, o le fedi strappate a morsi dalle dita dei morti saranno un’immagine topica generata dalla fantasia ricreatrice della fabula; sta di fatto però che continuano a raccontarsi e a persistere nella memoria dei superstiti. La verità è che la storia trapassata nel mito non appare meno vera né sembra meno storia, poiché è vissuta, percepita e partecipata come tale.

Ci sono, in tutta evidenza, alcuni eventi storici che più degli altri si prestano a essere solennizzati, celebrati, “monumentalizzati”. Le guerre giocano sovente questo ruolo di marcatore e costruttore di memoria, essendo esperienze fondanti di elaborazioni narrative e commemorative. 

Da qui scaturisce il valore non solo simbolico delle testimonianze orali, la densità antropologica di certe soggettive ricostruzioni di avvenimenti e di vicende.

Certo che la guerra e le stragi conseguenti generano una sovreccitazione, e la realtà dei fatti storici ne risente. Questa “distorsione” dei fatti risponde probabilmente a una esigenza avvertita dall’uomo dinnanzi alla minaccia del negativo o a fronte dell’evento luttuoso. Disinnescare il negativo, placare l’inquietudine, esorcizzare l’irruzione della morte: questo è ciò che sembra muovere il processo di costruzione e d’invenzione del racconto, della “fabula”. Magari si va a fantasticare sul probabile “untore”, il traditore di turno, ritenuto responsabile e colpevole del fatto tragico.

Così è avvenuto anche a Palazzolo laddove si è indicata in un personaggio locale la causa del bombardamento, cosa che la verità storica non ha per nulla confermato. Il problema è che quando questi fatti raccontati e tramandati si fanno verità storica, senza il minimo riscontro di prove, il “si dice”, distorcendo la realtà, travolge degli innocenti, che a mo’ di untori sono additati al pubblico ludibrio, se non alla irrimediabile condanna, alla maledizione perpetua.

La raccolta di memorie tramandate ha l’apprezzabile significato di consegnare alle future generazioni il pathos, stimolando l’empatia che il fatto trascina con sé. Ma certe verità “vere” o certi più profondi misteri stanno dietro o dentro le notule documentarie, nei grandi archivi segreti americani, ancora parzialmente indagati, perché parzialmente disponibili.

Chi come me della raccolta della documentazione orale ha fatto un motivo di studio ne conosce i limiti, come d’altra parte gli enormi pregi, se correttamente interrogate e interpretate: le stesse fonti si rivelano preziose e spesso insostituibili, a patto però di saperle contestualizzare e correttamente interpretare. Ragionando sulle complesse relazioni tra oralità e scrittura, la “fabula” può aiutare la storia, e questa si fa palpitante racconto di un vissuto umano altrimenti definitivamente obliato.

Foto tratta da “1943. La Reconquista dell’Europa” di Alfonso Lo Cascio

Tra i meccanismi di placamento del negativo rientra anche il gioco infantile: la simulazione delle battaglie, scontri tra cavalieri per una dama, rievocazione di fatti storici, decaduti a scherzo, tiritere e filastrocche recite per evocare fatti cruenti. In particolare sui bombardamenti del 1943 io stesso ricordo una tiritera che cominciava così: «L’apparecchio americano: butta bombe e se ne va». A parte l’evidente confusione tra inglesi e americani (per il popolo erano tutti miricani!), il terribile evento quasi si depotenzia, diventa motivo di gioco, e attraverso il gioco quasi si accetta, proiettato nei luoghi della memoria collettiva.

Lo sbarco fu preceduto dal lancio di centinaia di paracadutisti, molti dei quali uccisi in volo, o catturati appesi agli alberi. Uno ne catturarono a Palazzolo, alto, biondo, mortalmente ferito fu portato all’obitorio e disteso che sembrava un Cristo morto. Una processione mosse dal paese per vederlo disteso sul bianco marmo, bianco e di gentile aspetto, e l’unico commento, come mi racconta mia madre, fu «Poviru figghiu, pari n-Cristu mortu».

Per perpetuare la memoria e ad essa consegnare le innocenti vittime, proprio a Palazzolo, grazie alla generosissima offerta in denaro della famiglia Giompaolo, emigrata in Australia, è nato il “Viale dei caduti” (un tempo “Parco della Rimembranza”), dove su alti ceppi in pietra calcarea sono stati raccolti e incisi tutti i nomi dei morti palazzolesi nella prima guerra mondiale e appunto nella seconda guerra. 7

L’ultimo articolo di “10 luglio 1943”: Lo sai che è arrivata la libertà?

di Giuseppe Cultrera 

La Siciliana, Rivista Mensile illustrata di Storia, Archeologia e Folklore nasce nel novembre 1911 con un numero unico (oggi diremmo, numero 0). L’interesse suscitato dall’esperimento in uno con il reperimento di un nutrito numero di collaboratori e sostenitori, inducono il giovane fondatore e direttore Gaetano Gubernale (Avola 1887 – Siracusa 1953) ad avviare la pubblicazione del periodico. Un’impresa che appare, a molti, temeraria; tranne che al visionario venticinquenne avolese, tenace e audace nello stesso tempo, che completa il primo anno di pubblicazione – traguardo raggiunto di solito da poche testate – con appaganti consensi e sperticate lodi. E prosegue, fino al dicembre 1915 (e sono quattro anni!), allorché viene chiamato alle armi e, pertanto, costretto a una stasi. Riparte la rivista, a fine guerra, prima con un numero e poi altri due: altra pausa perché i tempi adesso sono difficili – socialmente, culturalmente e politicamente – ma di breve durata; dal gennaio 1924 ricomincia la pubblicazione a cadenza mensile, con vecchi collaboratori e nuovi intellettuali, fino al dicembre 1931.

Nei tredici volumi realizzati (i 12 fascicoli mensili erano destinati a essere rilegati, motivo per cui la numerazione delle pagine era annuale) troviamo un deposito monumentale di materiali storici, artistici ed etnoantropologici attinenti alla cultura siciliana, capaci di fornirci interessanti chiavi di lettura eterogenee. Oltre cento collaboratori – alcuni notevoli ricercatori o scrittori di fine Ottocento e primo Novecento – hanno riversato umori, segreti, curiosità e, perché no, anche minuzie dai cento angoli dell’isola del Sole. La Siciliana è stata, e continua a essere per chi vuole ancora sceverarla, un percorso dinamico e introspettivo nel continente Sicilia.

La Siciliana: raccontare un’isola
Una pagina della rivista La Siciliana, fondata e diretta da Gaetano Gubernale, (numero 1 del 1915, anno III). A seguire: le copertine del numero 7, 1914 e 3/4 del 1928

E se approccio e percorso potrebbero apparire provinciali o campanilistici, ricordo – prima di tutti a me stesso – che il progetto va contestualizzato nel tempo e nel luogo e va ricondotto a una temperie culturale di ingenuo e audace entusiasmo (dentro il quale ci furono manierato romanticismo e positivismo, decadentismo e futurismo, interventismo e pacifismo: anche se poi tutto finì, come sappiamo, annegato in tre ideologie totalitarie).

La Siciliana è, anche, un elegante prodotto editoriale. Merito certamente dello stampatore, la tipografia Zammit di Noto che, dal secondo numero, compose gli oltre 200 fascicoli della rivista, con sobria e raffinata mastrìa. “Apprendiamo – scrive il direttore Gubernale nel secondo numero – con vivo compiacimento che la Onorevole Giuria della Esposizione Internazionale di Torino ha conferito al nostro Tipografo Sig. Zammit Michelangelo la più alta onorificenza, Gran Diploma e Medaglia d’oro per lavori tipografici esposti”. Ci teneva a rimarcarlo, al colto e raffinato stuolo di lettori e collaboratori, il creatore e maggior sostenitore della rivista: un prodotto che non aveva nulla da invidiare – e per contenuti e per contenitore – alle numerose e, a volte, più note riviste dell’isola e d’Italia. Anzi “la rivista parve così interessante, che a di lei esempio, altre due ne sorsero con lo stesso programma in Girgenti e in Caltanissetta: la prima intitolata Akragas e la seconda Sicania”.

La Siciliana: raccontare un’isola
Avola: Palazzo Gubernale. A destra: Altra copertina de La Siciliana (1931, anno IX)

Personaggio originale questo intellettuale siciliano che sebbene provinciale concepisce una rivista di largo respiro, la crea, dirige e finanzia per un quarto di secolo e nel contempo pubblica decine di saggi – piccola parte di una mole considerevole, oggi presso la Biblioteca di Siracusa, frutto di ricerche storiche e archivistiche appassionate – ìdea una Accademia Siciliana “per la diffusione della cultura delle memorie che riguardano la Sicilia” e persino concepisce e realizza una sceneggiatura cinematografica (Dioniso, 1921). Ma non è il solo in quelle tempèrie socioeconomiche e culturali che agitavano l’inizio del secolo breve e che sarebbero sfociate in grandi invenzioni e progresso scientifico, ma pure in violenti conflitti – non a caso definiti mondiali – dentro cui le istanze etiche e culturali, compresse e insidiate, agitarono invano un diritto di primato morale. E restringendo l’ambito al mondo attorno al nostro, è facile identificarne molti fra i collaboratori o estimatori della rivista.

 

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Chi furono questi collaboratori li leggete nel frontespizio dei vari numeri della rivista. Tra i più noti Giuseppe Pitrè, Paolo Orsi, allora direttore del museo di Siracusa, Stefano Bottari, storico dell’arte e Angelo Fortunato Formìggini, originale intellettuale e editore modenese.

Del vasto stuolo di quelli meno noti citerò alcuni di coloro che firmarono gli articoli dei primi numeri della rivista.

Il medico Vito Graziano (Ciminna [Palermo] 1864 – 1942) descrisse alcuni aspetti etno-antropologici del suo comune, articoli che poi confluirono nella più impegnativa pubblicazione Canti e leggende, usi e costumi di Ciminna (1935).

Il comisano Antonino Catalano era un docente scolastico impegnato nella promozione sociale e culturale della sua area.

La Siciliana: raccontare un’isola
Roberto Rimini, Processione, 1934

Sacerdote era invece Raffaele Flaccavento (Comiso 1870 – 1951) che si firmava con lo pseudonimo di Fulvio Stanganelli, usato poi in tutta la sua vasta produzione storica e scientifica. Il suo Fiore di proverbi comisani è anche un tributo alla ricerca demologica del Pitrè. Con uguale impegno e spirito di servizio fu bibliotecario e consigliere comunale. Scrisse Vicende storiche di Comiso antica e moderna, Catania, 1926.

Tra i primi e più attivi vi fu il barone chiaramontano Corrado Melfi (Chiaramonte Gulfi 1850 – 1940) già collaboratore dell’Archivio del Pitrè e di numerose altre riviste storiche o araldiche. Alla ricerca archeologica dedicò gran parte delle proprie energie e sostanze: dimostrò che il suo paesello era l’antica Acrilla, prima greca e poi romana, nelle Ricerche sulle antichità di Gulfi, Caltagirone, 1889 e Appendice alle antichità di Gulfi, ivi, 1891. Nei Cenni storici sulla città di Chiaramonte Gulfi (Ragusa,1912) raccontò le vicende della nuova città medievale e moderna.

Sebastiano Salamone è autore de La Sicilia intellettuale contemporanea (Galati, Catania 1909/1913), repertorio biobibliografico di autori siciliani; e di varie opere storiche sulla sua Augusta.

Giambattista Ferrigno (Castelvetrano 1862 – 1952) fu storico della sua città, autore di numerose monografie la più nota delle quali fu la Guida di Selinunte (Palermo, 1933) che ebbe molto successo e una cui sintesi uscì su La Siciliana nel numero 4 (aprile) del 1929 col titolo Palmosa Selinus.

Michele Alesso (Caltanissetta 1868 – 1922) “scrittore di demopsicologia e di storia municipale” autore, tra l’altro, de Il Giovedì Santo in Caltanissetta (1903). Diresse col Prof. Salvatore Raccuglia Sicania, rivista di storia archeologia e folklore.

Salvatore Raccuglia (Villafrati 1861-1918) docente, collaborò allo Archivio delle Tradizioni del Pitrè e fu autore di numerose pubblicazioni di argomento pedagogico, storico e di tradizioni popolari. Fondò le riviste Akragas (Agrigento,1912) e Sikania (Caltanissetta,1913).

La Siciliana: raccontare un’isola
Roberto Rimini, Fiera a Vizzini, 1936

Calogero Sajeva (Bivona AG 1876) notaio e contemporaneamente giornalista: “L’operosità di questo giovane letterato – dice un suo biografo – è semplicemente prodigiosa: dirige una rivista, compila un dizionario biografico, scrive da tre a quattro opere, collabora in molti giornali e riviste, redige per intero un giornale battagliero settimanale di Palermo e allo stesso tempo esercita la professione di notaio!”. Diresse La Favilla di Caltanissetta, Il caporal terribile di Palermo Vita ed arte di Agrigento; fondò la Casa Editrice Empedocle per la quale redasse una serie di saggi, dispense, biografie (interessanti un D’Annunzio e un F.T. Marinetti e il futurismo di visionaria modernità).

Esempio di intellettuale dinamico e poliedrico fu l’avvocato Carmelo Grassi (Motta Camastra (ME) 1872 – 1952) autore del poderoso Notizie storiche di Motta Camastra e della valle dell’Alcantara (4 voll.), Catania, Siracusa, 1905. Condirettore (1912) e poi direttore onorario de La Siciliana.

Sebastiano Pisano Baudo (Lentini 1845 – 1826), docente di italiano è autore della Storia di Lentini antica e moderna (2 voll.), Lentini, tip. Saluta 1898 – 1902.

Giuseppe Rametta Garofalo (Siracusa 1863 – 1916) fu musicista e docente, autore, tra l’altro, di una Storia di Siracusa e di un Saggio sui canti popolari siciliani, Roma, 1895. Direttore onorario de La Siciliana.

Giuseppe Russo (Girgenti 1849) dotto prelato, dantista, storico, linguista e demologo, produsse centinaia di opere eterogenee.

gaetano gubernale
Biglietto autografo di Gaetano Gubernale all’amico Corrado Melfi di Chiaramonte Gulfi

Il canonico Giuseppe Traina (Castronovo di Sicilia 1866) coniugò impegno sociale e ricerca storica nella sua comunità. Un esempio di moderna ricerca etno-antropologica è l’originale e sintetico Un primo e nuovo saggio di soprannomi.

Basilio Buontempo (Alcara Li Fusi (ME) 1860 – 1943) fu insegnante e direttore didattico. Interessante la sua autobiografia Vita di un educatore (1915).

Vincenzo Cannizzo era nativo di Licodia, fu archeologo ed allievo di Paolo Orsi. Tra le pubblicazioni Topografia archeologica di Licodia Eubea, Catania, N. Giannotta, 1909.

Antonino Navarra Bivona è autore della monografia Selinunte nella storia, nell’archeologia, nel folklore, Palermo, 1913.

Salvatore Pitruzzella (Naro 1886 – Palermo 1958) fu studioso d’arte e archeologia. Nel 1938 pubblicò Naro arte, storia, leggenda, archeologia.

Vincenzo Sardo (Castiglione 1871 – Catania 1953) di nobile famiglia si appassionò alla ricerca e agli studi storici. Interessante Castiglione citta demaniale e città feudale: sue vicende storiche attraverso i secoli, Palermo, Tip. Domenico Vena, 1910.

Giuseppe Messana D’Angelo (Alcamo 1895 – 1942) divenne poeta e scrittore di storie patrie. Fu uno dei più giovani collaboratori de La Siciliana.

 

***

Sconosciamo perché, nel dicembre del ’31, La Siciliana cessò di colpo la pubblicazione. Probabilmente difficoltà economiche e stanchezza per l’impegno oneroso: essendo stato per tutto il percorso editoriale il Gubernale l’unico redattore, amministratore e curatore della rivista.

In un appunto autografo dell’amico e collaboratore barone Corrado Melfi (nell’ultima pagina dell’ultimo numero, nella propria copia) leggiamo a futura memoria: “Fin qui perché la Siciliana fallì e resta sospesa”. Il Melfi volendoci rendere edotti della interruzione del suo saggio a puntate Alcuni poeti vernacoli analfabeti chiaramontani dei secoli XVII, XVIII e XIX chiariva pure la repentina chiusura della rivista.

I problemi economici avevano accompagnato la difficile impresa del giovane studioso sin dai primi anni; spesso fu costretto a premettere un “Avviso ai morosi” ricordando ai distratti che “La Siciliana si pubblica col contributo degli abbonati perché non ha fondi riservati”. D’altronde i pochi benefattori e sostenitori da soli non permettevano neppure le spese di stampa (a quei tempi, al contrario d’oggi, parecchio onerose).

gaetano gubernale
Roberto Rimini, Festa di nozze, 1919

Difficoltà ancora presenti, al ritorno dalla guerra, tra interruzioni e riprese, mentre il giornalista editore avvicinava una cerchia di intellettuali che, come lui, avevano precipua la frequentazione e promozione della cultura, espressa in tutte le forme anche quelle più popolari, quali la ricerca folklorica o la storiografia municipale. Sempre premettendo il rapporto umano ai conti in rosso.

Così, il 6 gennaio 1931 scriveva all’amico Ottorino Gurrieri, anziano bibliotecario di Ragusa:

Non è assolutamente detto che, perché un decreto qualsiasi Le decurta il 12% o un altro lo manda a spasso – come Lei dice – per il raggiunto limite di 55 anni, e non le permettano quindi di potere distrarre £ 20 all’anno, io non debba mandarLe la rivista che Le sta a cuore.

Conosco da tempo la via del sacrificio e so trovare ben io le £ 20 per coprire il suo vuoto; ma “La Siciliana” non l’abbandonerà, specie ora che è entrata nel suo ventesimo anno di vita e che è nel punto di fondare una Accademia.

Sappiamo come andarono le cose da lì a poco…

Càpita di esser sconfitti da imprevisti eventi e allo stesso tempo vincere nel grande agone dell’umanità. Ai sognatori, spesso.

 

Alcune illustrazioni sono opera del pittore siciliano Roberto Rimini (1888-1971). Sono tratte dal sito: Roberto Rimini Official Website • © 2015 Giuseppe Maimone Editore

di Giovanna Giallongo

Ci sono melodie che hanno il potere di farci viaggiare nel tempo. Esse stimolano la nostra immaginazione e ci vedono protagonisti di un passato intriso di eventi storici e culturali. Se tale melodia, poi, si accompagna alla passione per un paese molto lontano da noi e per il quale si nutre un intimo legame allora il gioco è fatto! Per questo oggi faremo quattro chiacchiere con Marcello Difranco, fondatore dei Tir Na Nog, band ragusana che reinterpreta la tradizione musicale e culturale di uno dei paesi più affascinanti del mondo. La Scozia!

Tar Na Nog
I Tar Na Nog

Chi ascolta i Tir Na Nog non può non notare il forte legame con la cultura celtica. Cosa ti ha spinto a fondare una band simile?

Da piccolo ero affascinato dalle leggende nordiche e dalla narrativa fantasy medievaleggiante. Crescendo, capii che quel mondo magico si ispirava a popoli realmente esistiti (celti e vichinghi). Dopo molti viaggi nelle regioni dal passato celtico e un primo approccio con la musica, gli strumenti e il canto di quella tradizione,  ho fondato nel 2006 uno dei primi e pochi gruppi di musica celtica in Sicilia nonché uno dei più longevi della provincia (17 anni) coinvolgendo altri musicisti che hanno sposato il progetto: i Tir Na Nog

Ogni pezzo è legato all’altro al fine di raccontare una storia e di ricreare un’atmosfera. Sei tu la penna dei testi che cantate? Qual è la chiave di volta usata per la creazione e per l’interpretazione dei testi?

Esatto. La nostra scaletta invita il pubblico a viaggiare, attraverso la musica, nello spazio e nel tempo. Ogni brano, strumentale o cantato, ha sempre qualcosa da raccontare. Che sia una vicenda storica, un personaggio, un luogo, un sentimento o un sogno. Avendo rinnovato il nostro repertorio, nell’attuale scaletta proponiamo brani folk tradizionali con nostri arrangiamenti e brani inediti di nostra composizione di cui sono autore. La scrittura musicale è curata in collaborazione con Massimo Arena e Annett Augugliaro. 

Tar Na Nog

Alcune canzoni sono scritte e cantate in gaelico. Questa scelta proviene da studi conseguiti prima della nascita del gruppo o è stata sviluppata negli anni per ricreare atmosfere celticamente “originali”?

Si, abbiamo selezionato alcuni brani in lingua gaelica. Si tratta di un idioma che ha vissuto una fase di crisi seguita da una campagna di recupero avviata dai governi irlandese e scozzese. Oggi, ci si imbatte perfino in segnaletiche e cartelli in doppia lingua: inglese-gaelico. Avendo vissuto in Scozia, ho avuto modo di approcciarmi a questa lingua antichissima  che, abbinata alle metriche e melodie celtiche, acquista una connotazione musicale unica.

La tua melodia è tanto forte quanto dolce, quella dolcezza tipicamente medievale che rievoca concetti e valori quali guerra, coraggio, patria, bellezza e amore. Questi possono essere considerati i concetti base di alcuni pezzi come Boadicea o Vercingetorix. Puoi parlarci dei personaggi a cui ti ispiri?

Dall’età classica al medioevo, la storia dei Celti è triste e nostalgica poiché racconta il dramma di un mondo sopraffatto da popoli invasori. É inevitabile, dunque, che personaggi del mito o di fantasia come Norma, Asterix e Obelix e Re Artù o condottieri come Vercingetorige, Boadicea e Calgaco, incarnino ideali di libertà e di identità culturale attraverso la loro ribellione all’oppressore.

Tar Na Nog

Pochi mesi fa è uscito un vostro nuovo album. Vorresti rivelarci qualche curiosità?

Il caso ha voluto che sotto Mabon e Ostara, le due festività celtiche legate agli equinozi d’autunno e primavera, sia nato questo nostro secondo album intitolato Celtic Tales, uscito a marzo. Ogni melodia e testo hanno una storia da raccontare su personaggi, vicende storiche, paesaggi. Abbiamo scritto e composto testi e melodie giocando con metriche e tematiche celtiche affiancando i nostri inediti a una serie di brani tradizionali. Durante la fase di composizione e registrazione abbiamo voluto sperimentare apportando innovazioni sugli inediti nei quali non mancano sonorità celtic pop, celtic rock-metal, tribali e medioevali.

Domani, “A Tutto Volume”, il festival ragusano che mette al centro la parola e i libri, inaugura la sua quattordicesima edizione. Come di consueto, seguiranno fino a domenica 18 giugno delle giornate interamente dedicate ad alcuni protagonisti della letteratura e della saggistica italiana, che presenteranno i loro lavori più recenti al pubblico ibleo. 

La nostra Redazione ha deciso di presentare l’evento attraverso l’esperienza di chi a Ragusa fa della diffusione della cultura libraria la propria missione. Lasciamo quindi la parola alle libraie del centro storico superiore ed inferiore del capoluogo ragusano e al loro rapporto con “A Tutto Volume”… 

“A Tutto Volume” è la manifestazione culturale più attesa dell’anno dai ragusani e non solo! Da libraia indipendente, ho vissuto in prima linea tutte le edizioni del festival vedendolo crescere nel corso degli anni. In libreria abbiamo allestito una vetrina interamente dedicata ai libri dei protagonisti della manifestazione e ciò ha suscitato e suscita curiosità nella clientela che attende con ansia il programma per scegliere gli incontri da seguire.
Il
 gruppo di lettura “L’ora dei libri”, che si riunisce ogni mese in libreria, dedica ogni anno un intero appuntamento al festival. Quest’anno abbiamo letto il libro di Francesco Piccolo, che sarà presente all’evento con “La bella confusione” (Einaudi editore), con la speranza di poter incontrare l’autore, come abbiamo fatto negli anni passati.
L’anno scorso, insieme all’associazione “Librai Iblei”, di cui sono presidente, abbiamo creato una sezione tutta dedicata ai ragazzi in collaborazione con la direzione del festival. Nell’ultimo periodo, infatti, ho riscontrato un incremento dei lettori adolescenti, che si avvicinano alla lettura attraverso i social, seguendo autori e generi ben precisi.

Forse, nel festival manca proprio una sezione stabile dedicata a questa fascia d’età e credo che in futuro, visto l’interesse mostrato, si dovrebbe dedicare ampio spazio ai libri ”Young adult” e ai fumetti Manga che hanno moltissimi appassionati. 

Nei giorni del festival le vendite in libreria registrano aumenti non solo dei volumi dedicati alla manifestazione ma anche di libri di vario genere per cui… viva “A Tutto Volume”!

(Daniela La Licata – Libreria Flaccavento)

Daniela La Licata con lo scrittore Gianrico Carofiglio, presso la Libreria Flaccavento

Sin dalla prima edizione, “A Tutto Volume” è stato accolto dai nostri clienti con affetto ed entusiasmo sempre maggiori. Nei giorni che precedono il festival si percepiscono grande attesa e curiosità sugli autori che saranno i protagonisti degli incontri e sui loro libri.
E l’onda cresce nel corso della manifestazione, quando il centro di Ragusa si trasforma in cuore pulsante della parola e in un momento di festa che vede riuniti i lettori attorno a un’importante occasione di condivisione delle idee.
Da parte nostra, per i prossimi anni, auspichiamo una maggiore presenza degli autori amati dai più giovani e magari, perché no, una sezione dedicata ai fumetti e ai manga che, negli ultimi anni, sono diventati un vero e proprio fenomeno che ha spinto molti adolescenti ad avvicinarsi alle librerie.

(Simona Godano – Libreria Mondadori Ragusa)

Simona Godano (prima a sx) durante la presentazione di “Giallo siciliano” (Delos digital) al Termini book festival

In questi sedici anni di vita la Libreria di Ibla ha visto nascere e crescere ” A tutto Volume”, ha visto i lettori ragusani e non attendere con entusiasmo l’inizio Festival per poter incontrare i diversi autori dei libri presentati, che arrivano da tutta Italia. Un connubio perfetto che unisce la vivacità culturale con il riappropriarsi di piazze, vicoli e giardini della nostra città.
Non possiamo che essere più che felici di una iniziativa che condivide con noi lo stesso obiettivo: avvicinare le persone alla lettura, siano essi lettori appassionati, cittadini comuni e turisti curiosi, senza dimenticare i lettori più piccoli che possono accostarsi con semplicità e curiosità al mondo letterario, grazie alle tante attività proposte durante il Festival. Vedere gli spazi della città pieni di lettori, per noi, che da tanti anni viviamo per e nei libri, è uno stimolo molto positivo che accogliamo a braccia aperte. Sembra quasi che i libri prendano vita tra i nostri palazzi barocchi e strade cittadine, facendosi scoprire dalle persone che si confrontano sui temi del momento.
In un mondo frenetico come quello in cui viviamo, fatto di incertezze e domande, il libro è e rimarrà il miglior mezzo per aiutarci a riflettere e a interrogarci su tutto quello che ci circonda e sulla nostra interiorità, stimolando un colloquio continuo e costruttivo con noi stessi. Vi aspettiamo, come ogni anno, soprattutto nell’ultima giornata del Festival, nel quartiere che rimane per noi quello più bello, a Ibla.

(Susan Arroyo, Libreria Ubik Ibla)

Susan Arroyo alla Libreria Ubik di Ragusa Ibla

di Giovanna Giallongo

Si chiamava Carlotta, nata Principessa del Belgio. Il suo era un sangue dal colore blu intenso. Figlia di Leopoldo I, Re dei Belgi, e di Luisa d’Orléans; cugina della Regina Vittoria d’Inghilterra e di suo marito, il Principe Alberto; nipote di Maria Amalia di Napoli e Sicilia, Regina dei Francesi, moglie di re Luigi Filippo di Francia e nipote di Maria Antonietta.

Carlotta del Belgio, particolare di un ritratto fattole a dieci anni

A sedici anni, nel 1856, conobbe l’amore della sua vita: Ferdinando Massimiliano D’Asburgo Lorena. Non vi fu nessuna possibilità per i pretendenti della bella Carlotta la quale, l’anno successivo, convolò a nozze con Massimiliano. Entrambi erano figli secondogeniti che mostrarono grande intelligenza e apertura mentale. Massimiliano si distinse a corte per le migliorie apportate alla marina militare tanto da acquisire la carica di Vicerè dell’Impero Lombardo-Veneto. Carlotta, invece, seppe muoversi tra le maglie strette della corte attirando le simpatie della suocera Sofia ma malcelando la rivalità con la cognata, l’Imperatrice Sissi, legatissima a Massimiliano.

Massimiliano e Carlotta vissero molti anni nella beatitudine del loro amore, spensierati. Si erano sposati per volontà loro non per politica e questo li rendeva consapevoli della grande influenza che l’uno aveva sull’altra. Arte, musica e cultura erano i loro interessi comuni e Carlotta stessa fu un’interessante artista dilettandosi nel dipingere vedute, molte delle quali visibili ancora oggi nelle sale del Castello Miramare, dimora che Massimiliano fece costruire per loro due non appena ricevette il congedo dall’incarico di Vicerè.

Franz Xaver Winterhalter, particolare del ritratto di Massimiliano d’Asburgo, 1864

Tuttavia l’amore, come spesso si dice, non basta. Carlotta aspirava ad altro. Si era stancata di vivere una vita beata quasi come fosse in esilio. Desiderava una corona e, per ironia del destino, la monotonia di Miramare venne interrotta dall’offerta presentata a Massimiliano: prendere il trono del Messico dove, dopo appena mezzo secolo dall’indipendenza spagnola, si viveva un periodo di disordine politico.
Massimiliano accettò e insieme a Carlotta lasciò Trieste alla volta del suo nuovo regno.

Il viaggio durò un mese e mezzo e il 28 maggio 1864 i nuovi sovrani arrivarono in Messico trovandovi una situazione politica tutt’altro che favorevole alla monarchia tanto da spingere Carlotta a rientrare in Europa per cercare appoggi politici al regime del marito. Si recò a Parigi, a Vienna e a Roma facendosi accogliere da Papa Pio IX dinnanzi al quale la sovrana mostrò i primi segni evidenti del suo squilibrio mentale. La leggerezza dell’amore era ormai stata schiacciata dai pesanti meccanismi della storia infatti, mentre Carlotta iniziava il calvario della malattia, Massimiliano venne arrestato dalle truppe repubblicane e fucilato nel 1876. Si dice che alla notizia della morte dell’amato marito, si fosse sentito lo stridente suono del cuore di Carlotta spezzarsi.

Cesare Dell’Acqua, Partenza di Massimiliano e Carlotta per il Messico, 1866

Ogni speranza fu perduta. Qualsiasi cosa la facesse rimanere ancora in piedi, con un barlume di lucidità, sparì nel momento stesso in cui la morte portò con sé l’essenza vitale dell’uomo che aveva amato da tutta una vita. Che senso aveva, ormai, ragionare o fare uso di quell’intelletto tanto apprezzato se la linfa vitale che dava brio alla sua intera esistenza non esisteva più? Diagnosticata l’infermità mentale, Carlotta visse per un periodo al Castello Miramare, rinchiusa per proteggerla soprattutto da sé stessa. Devastata dalla follia, fu ricondotta in Belgio nel castello di Bouchout dove visse fino alla morte avvenuta a gennaio del 1927.

Può essere, dunque, l’ambizione il vero nemico dell’uomo? Non sarà, certo, solamente questo aspetto del carattere a rendere gli uomini nemici di sé stessi tuttavia per Carlotta e Massimiliano, l’ambizione è risultata fatale!

Eduard Manet, Esecuzione dell’Imperatore Massimiliano del Messico, 1868

Massimiliano non voleva vivere una vita all’ombra del fratello maggiore, il Kaiser Francesco Giuseppe. Si scontrò con lui parecchie volte uscendone sempre sconfitto ed è stato proprio il senso della sconfitta e il desiderio della rivalsa ad avere esaurito ogni possibilità di felicità. La sua ambizione ha avuto un caro prezzo: la sua stessa vita e la sanità mentale di Carlotta la quale, anche se in minima parte, aveva contribuito alle mire espansionistiche del marito volendo anch’essa sempre di più.

Storia di amore e guerra ma soprattutto di letale ambizione! In fondo, la vetta del monte si trova ad un passo dal precipizio.

Foto del banner: Cesare Dell’Acqua, Matrimonio tra Carlotta del Belgio e Massimiliano d’Austria, 1857.

di Silvia Bracchitta

Restaurare significa lasciare un segno, il nostro segno, sopra un’opera che era nata senza di noi, che in origine non ci prevedeva

A questo importante concetto di Giorgio Bonsanti, aggiungerei che restaurare significa permettere ad un’opera d’arte di continuare ad esistere nel tempo, dando la possibilità a chi verrà dopo di noi di continuare a goderne. 

Terminati gli studi a Firenze, e dopo aver messo in campo le mie competenze in Toscana, nel 2015 ho deciso di restaurare, senza lucro, un’opera che appartiene alla chiesa Santa Maria la Nova, di Chiaramonte Gulfi, paese nel quale vivo. 

anime purganti
Santa Maria La Nova, Chiaramonte Gulfi

La tela è quella delle “Anime purganti”, realizzata nella seconda metà del Settecento dal pittore palermitano Gaetano Mercurio.

Dopo alcuni sopralluoghi per capire come spostare la tela senza comprometterla ulteriormente, il dipinto è stato collocato nella zona predisposta ai lavori. La complessità dell’operazione era data dalle dimensioni notevoli dell’opera e dal fatto che questa fosse fissata male al telaio e alla cornice, e quindi instabile.

anime purganti

Questa foto mette a confronto lo stato iniziale e finale delle “Anime purganti”. Saltano agli occhi la condizione del colore, che si presentava sbiadito a causa di diversi fattori: la polvere che si era depositata nel tempo e la selvaggia pulitura che era stata eseguita in un precedente intervento di manutenzione, che faccio fatica a chiamare restauro. 

Ma la causa principale del deterioramento era dovuta alle candele. Infatti, il fumo dovuto alla combustione scurisce e sbiadisce il colore. Probabilmente, se fosse stato protetto con una vernice adeguata non avrebbe raggiunto queste condizioni.

anime purganti
Le tre fasi del restauro delle “Anime purganti”

La prima fotografia evidenzia il pessimo stato di conservazione dell’opera prima del restauro.

La seconda è stata scattata al termine delle operazioni conservative, che hanno previsto la pulitura e il consolidamento della pellicola pittorica, l’inserimento di strisce perimetrali sui bordi della tela e il fissaggio al telaio originale.

Inoltre, qui sono documentate le stuccature e l’imitazione della superficie, due fasi molto delicate e importanti. La preparazione in dipinti di questo tipo ha una duplice funzione: contrastare la tensione e i movimenti della tela e creare una base per il fissaggio colore.

La restauratrice Silvia Bracchitta durante il restauro

Dopo aver stuccato le lacune con gesso e colla animale (come nella preparazione originale) sono stati ripristinati l’andamento della superficie pittorica e la trama della tela. Queste operazioni servono a mantenere una corretta leggibilità del quadro, dopo l’intervento di restauro.

Nella terza foto si possono notare le integrazioni pittoriche eseguite con colori a tempera e la verniciatura protettiva finale.  La differenza cromatica serve per colmare le lacune presenti nella tela e viene eseguita con la tempera perché è stabile nel tempo (cioè non cambia di tono), è coprente e facilmente reversibile.

anime purganti

Il restauro della tela, del telaio e della sua cornice è durato un anno. In quel periodo, il mio lavoro aveva generato molta curiosità tra gli abituali frequentatori della piazza. La chiesa si animò di un via vai di persone che, a detta del vice parroco di allora, non aveva mai visto entrare.

Mi stupii di quell’entusiasmo inaspettato, che fu per me uno sprone ulteriore. 

Il quadro delle “Anime purganti” è tutt’oggi nella chiesa di Santa Maria la Nova, certamente più vicino al suo stato originale. E’ un piccolo esempio di come l’impegno, la passione e la conoscenza abbiano acceso nella comunità chiaramontana un nuovo interesse per il suo patrimonio. Un bene comune molto ampio e variegato che non aspetta altro di tornare a splendere nel tempo.