La ricetta per essere uomini comprende la carne. Questo è quanto emerso da un’indagine condotta da Vulca Fidolini nel suo saggio “Uomini e diete”, nella quale si individua la relazione fra il consumo di carne e l’affermazione di mascolinità.
Siamo ciò che mangiamo, diceva Feuerbach. E se la carne è l’alimento che veicola mascolinità e virilità, è necessario che un uomo la consumi per essere davvero tale. Al contrario, se rinuncia alla carne, deve dimostrare di essere ancora un vero uomo nonostante le sue scelte alimentari.
Optare per un regime vegetariano o vegano significa apparire meno potenti, ridotti a una posizione subalterna e a una mascolinità indebolita. Trattasi di diete considerate effeminate, poiché si presuppone che non consumare carne renda deboli, suggerendo implicazioni persino sul proprio orientamento sessuale.
L’associazione fra carne e vigore fisico e sessuale ha radici antiche, essendo stata tracciata in epoca medievale. La carne in quanto alimento divenne simbolo della carnalità stessa, e per questo il suo consumo andava regolato soprattutto in ambito ecclesiastico. Con passare del tempo è mutato il contesto sociale ma non il significato che la carne riveste.
Una tipica tavola quattrocentesca colma di selvaggina
Si pensi al rito del barbecue: gli uomini si riuniscono per cucinare la carne, elemento coagulante che funge da collante sociale maschile al pari delle partite di calcio.
Viceversa, un regime alimentare che esclude il consumo di carne risulta più accettabile per una donna. Ed è per questo che, come attestano studi condotti recentemente, la dieta vegetariana o vegana è adottata perlopiù da donne, mentre risultano essere molto più restii a ridurre o abbandonare il consumo di carne gli uomini. Ma non bisogna disperare: acquisire consapevolezza di questi meccanismi che soggiacciono ai comportamenti sociali è il primo passo verso il loro superamento.
Digitando “vegetarianesimo” su Google immagini, compaiono in maniera preponderante solo donne. Una conferma del binomio donna-verdura
La colonna sonora conclusiva della serie tv La legge di Lidia Poët recita: Non sono una madre, non sono una sposa, sono un Re.
Una specificazione necessaria in un contesto culturale, politico e sociale in cui la figura della donna è – ancora – prevalentemente associata al ruolo “naturale” di madre e moglie. Una precisazione che in alcuni casi diventa quasi una giustificazione.
Perché una donna è libera di studiare e di lavorare, ma a un certo punto dovrà pur mettere su famiglia. Non può certo anteporre la carriera o le proprie ambizioni alla maternità.
Oppure, può diventare madre e continuare a lavorare, ma sacrificherà del tempo alla famiglia, perché spetta comunque a lei la gestione della casa e l’accudimento dei figli.
Convenzioni sociali, retaggi culturali, processi inconsci interiorizzati che tuttora facciamo fatica a modificare. Figuriamoci nell’Ottocento.
Gli stereotipi di genere sono appresi e interiorizzati fin da bambini: diventa un problema sociale se perfino i testi scolastici veicolano queste distinzioni tra mamma e papà, donna e uomo
Siamo nel 1884 e Lidia Poët è la prima donna a essere iscritta all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino, “fatto singolare e unico in Italia”. Tuttavia, una sentenza della Corte d’Appello dichiara illegittima la sua iscrizione all’Albo degli avvocati:
La nostra legislazione – dicono gli scrittori i quali sono contrari all’esercizio dell’avvocatura per parte delle donne – ha un carattere prevalentemente maschile. […] Così essendo, è evidente come per ammettere le donne all’esercizio dell’avvocatura sarebbe necessario un testo esplicito […] inquantoché non solo si tratterebbe di cosa affatto straordinaria e fuori delle pratiche delle costumanze della nostra vita civile, ma di cosa espressamente vietata dal diritto comune.
Ora è chiaro che per la nostra legislazione le donne non possono esercitare quegli uffici che sono riconosciuti di ordine politico e sociale […] e non possono prendere parte alle elezioni politiche. […] Si avrebbe un avvocato incapace a coprire quelle funzioni a cui l’avvocatura stessa abilita, cioè le funzioni giudiziarie. E se la legge non volle che le femmine potessero coprire siffatte funzioni, è questo un forte argomento per dedurre che quindi non intese nemmeno abilitarle all’avvocatura.
Udienza 18 aprile 1884; Pres. Eula P. P., Est. Talice, P. M. Calenda (concl. conf.) — Poët Lidia (Avv. Spanna e Bernardi)
La serie tv La legge di Lidia Poët parte da queste premesse per dare il giusto riconoscimento a una figura storica che ha contribuito a cambiare le sorti dell’avvocatura in Italia.
Il personaggio di Lidia è infiammato da uno spirito combattivo e ottimista che l’accompagna nella vita professionale e privata. Il fratello Enrico è una figura chiave nel suo percorso di riscatto: nonostante l’iniziale ritrosia verso la professione della sorella, si rivela il suo più accanito sostenitore. Perché è impossibile non lasciarsi affascinare e trascinare dall’animo ribelle e intraprendente di Lidia.
Ovviamente, la società di fine Ottocento non è altrettanto tollerante e ben disposta nei confronti della protagonista: rifiutarsi di sposarsi, intraprendere una professione prettamente maschile o, semplicemente, guidare una bicicletta come un uomo non sono pratiche che si addicono a una giovane donna.
Le analogie con la vita di Lidia Poët sono poche: la storia è assolutamente romanzata e adattata ai canoni della serialità. Non possono mancare elementi narrativi universali come il triangolo amoroso, il rapporto amore-odio tra fratello e sorella, l’amore adolescenziale ostacolato dai genitori.
La critica maggiormente mossa allo show riguarda la scarsa contestualizzazione storica e la decisione di inserire nudi ed espressioni volgari.
Tuttavia, ciò che va apprezzato nella serie tv La legge di Lidia Poët è aver reso noto il personaggio storico e aver sollevato un dibattito sull’uguaglianza di genere. La vera Lidia ha smosso le coscienze e le acque calme dell’avvocatura. Si è battuta per i diritti dei detenuti e dei minori nelle carceri. Si è fatta portavoce di quella parte della popolazione femminile che desiderava ottenere più diritti e riconoscimenti, diventando un simbolo dell’emancipazione femminile. E dopo una vita di lotte e soprusi, soltanto nel 1919, all’età di 65 anni, ha finalmente ottenuto il diritto a iscriversi all’Albo degli Avvocati e a esercitare la professione di avvocata. La prima donna in Italia.
Lidia Poët (Perrero, 26 agosto 1855 – Diano Marina, 25 febbraio 1949)
Tutto ciò, oggi, può apparire datato e anacronistico, soprattutto se confrontiamo la condizione sociale e lavorativa delle donne italiane con quella presente in altre nazioni del mondo.
Invece, dati alla mano, il divario di genere in Italia è stato colmato al 68,1%: un buon risultato, in apparenza. Tuttavia, se si mantiene questo andamento, occorreranno ancora 132 anni per poter colmare totalmente questa disparità (scolastica, lavorativa, salariale, sociale, politica).
L’8 marzo è passato da appena quattro giorni, quanto basta per dimenticare l’argomento fino al prossimo anno. Sensibilizzare è importante, ma occorre anche passare ai fatti e abbattere concretamente gli stereotipi di genere.
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