di Luigi Lombardo
Aprili fa li ciuri e li billizzi
e si ni godi lu misi ri maiu,
ad iddu li faciti li carizzi
e iu ca li meritu nul-l’haiu.

I fiori onorano il mese di maggio: se ne coprono le campagne, se ne adornano gli altari, le edicole votive, le porte di casa, e i capelli delle ragazze. Era uso diffusissimo un tempo (ma non molto fa) che le ragazze e i bambini intrecciassero i “ciuri i maiu” e li attaccassero alle porte delle case proprie o altrui dando ad essi la forma di una croce. Con il fiore di maggio (maiu in siciliano) si pronosticava l’amore col conosciutissimo “m’ama non m’ama”: l’amore, il desiderio, lo scherzo insomma le vitalità più nascoste esplodono in questo mese. Presso gli antichi Romani era appunto il mese degli amori, in quanto mese dedicato alla dea Flora, da cui traevano origine le Floralia caratterizzate da grande liceità e licenziosità.

Era il mese degli amori e delle giostre, nonché, in epoca moderna (ma l’usanza sembra importata dalla Cina) del lancio degli aquiloni, chiamati “comete” (cummedi). I giochi collettivi di maggio, come il palio della cuccagna, chiamato a Palazzolo con parola oscura quarantamau, la rottura delle pentole, la corsa coi sacchi, le gare a chi mangia di più confluirono pari pari nella festa laica del 1° maggio, mentre dall’altra parte del versante del sacro la chiesa ha progressivamente spento le licenziosità delle feste pagane di maggio, per cui le feste del mese si caratterizzano per il forte significato devozionale e dall’incremento del culto alla vergine, alla Madonna, alla quale venne dedicato il mese.

Certo è sempre possibile vedere in questo pullulare di devozione mariana un pallido residuo delle feste pagano-agrarie di Flora, o di Maia, madre di Mercurio e dea della Terra nutrice e feconda, cui si offrivano sacrifici il primo giorno del mese (il 1° maggio appunto). Le feste cristiane di maggio, pur con il loro connotato liturgico, rivelano l’antichissimo legame coi riti agrari, orbitanti attorno al complesso mitico-rituale della nascita, della vita e morte del grano. Le cerimonie del mese avevano sempre un carattere propiziatorio per un buon raccolto e di garanzia affinché la spiga non fosse colpita dalla ruggine (la robigo dei Romani), che i siciliani chiamavano “rrisinu”, malattia pericolosissima, in quanto faceva deperire il raccolto: si diceva di
“lauri arrisinati
si ni cogghi la mitati” (del frumento colpito da rugine se ne raccoglie la metà).

Per questo il mese di maggio era temuto dai contadini che lo chiamavano maiu lu longu, un mese che pareva non finisse mai. A maggio si richiedeva perciò una buona pioggia (ma una sola volta per carità!) per lavare il frumento, già quasi giunto a maturazione: “nta maiu una buona [pioggia] ni lava li rissini”. Si portavano in processione, nel caso di siccità perdurante, madonne e crocifissi per impetrare ora pioggia ora aria salubre (non troppo umida) che aiutassero il frumento in maturazione.

Si offrivano primizie in chiesa e in particolare il grano bruciarieddu (il frumento prematuro): lo si raccoglieva, si faceva seccare, si intrecciava a forma di croce e si offriva in parte al cosiddetto “Patriabbunnanzia” (il padre abbondanza), che era una statua del Cristo alla colonna (come ancora avviene a Buccheri), mentre un’altra parte si consumava ritualmente in casa dopo averlo tostato sul fuoco (da qui il termine bruciarieddu). Si riteneva che in questo mese si cula l’oru, cioè il frumento maturasse raggiungendo il colore dell’oro, che perciò scendeva dal cielo sul seminato.