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Il ponte tra l’analogico e il digitale

di Giulia Cultrera

Dopo Boris, brillante e originale serie tv italiana, è la volta di un’altra promettente produzione nostrana. Leggera, divertente e terribilmente nostalgica. Sulle note degli 883, in una suggestiva cornice partenopea tinta di mille colori, questo telefilm vi sbloccherà tanti ricordi.
Un piacevole tuffo nel passato alla riscoperta dell’infanzia e dell’adolescenza dei “mitici anni 90” in cui ancora usavamo floppy disk, VHS, audio cassette, walkman, gettoni e schede telefoniche. Un rapido ritorno al presente in un contesto adulto, maggiormente tecnologico e digitale. In poche parole, la spensierata Generazione 56k.generazione 56k

L’evoluzione tecnologica porta con sé il cambiamento: il passaggio dalle cartoline a Instagram, dalle cabine telefoniche allo smartphone, dalle ricerche interminabili sui libri e sulle enciclopedie all’istantaneità e moltitudine di risultati sul web. E cambiano anche le relazioni: si passa dai rapporti fatti di attese, sguardi, lenta conoscenza e tante aspettative, alle distaccate e fulminee app di incontri, la cui massima interazione, talvolta, è rappresentata da un tap sullo schermo. Rimangono invariate, però, le paure, le insicurezze e le incomprensioni che accompagnano e segnano queste relazioni.generazione 56k

Ieri come oggi, il fulcro di tutto è sempre la connessione, prima analogica, poi digitale. Come direbbe il buon vecchio Bojack “In questo mondo terrificante, tutto ciò che abbiamo sono le connessioni che creiamo”.
E in questo l’avvento di Internet ha sicuramente aiutato: ci ritroviamo in un villaggio globale interconnesso. Ma ha anche accelerato troppo il processo, cambiando radicalmente le modalità di relazione. Il rischio è di ritrovarsi intrappolati in questa rete digitale, preferendo rifugiarsi dietro a uno schermo per non esporsi o rapportarsi concretamente con qualcuno.generazione 56k

Quindi questa Generazione 56k, cresciuta a cavallo tra l’arrivo di Internet e il boom tecnologico dei decenni successivi, è riuscita a stare al passo con il cambiamento? Inizialmente timorosa di cliccare sull’icona del browser per non ricevere una bolletta del telefono salatissima, ha assistito all’evoluzione digitale in tutte le sue forme, interiorizzandole e facendole proprie quasi in automatico.
Ecco perché questa è una serie che tutti i nati a partire dagli anni ‘80 – in arte millennials o generazione y – dovrebbero vedere. È la serie dei nostalgici che, per carità, non rinuncerebbero certo alle meraviglie tecnologiche del presente, ma non disdegnano neanche un malinconico tuffo nel passato, quando tutto era una novità e appariva meno frenetico. Lento quanto la velocità di caricamento di un modem 56k. E andava bene così.generazione 56k

Per concludere in bellezza la nostra passeggiata nel viale dei ricordi, ecco il caratteristico rumore del modem 56k mentre tentava di stabilire una connessione Internet.


Ma in tutto questo, qual è stato l’effetto dello sviluppo tecnologico sui nostri genitori, appartenenti alla generazione dei baby boomer? I The Jackal, tra i creatori della serie Generazione 56k, hanno realizzato un divertente corto cercando di dare una spiegazione al complicato rapporto genitori-dispositivi tecnologici.

di Giusi Pizzo

Da quando la mia giovane alunna Sofia mi ha spiegato che un boomer è “qualcosa di veramente brutto” (sic!), confesso di aver ospitato in me un piccolo inquieto dubbio, poi fugato da un calcolo veloce che mi colloca – con sollievo mio e di Sofia– in quella che il Pew Research Center chiama Generazione X, ossia generazione-ponte tra i famigerati boomers e i cosiddetti millennials (Generazione Y), tra un’era d’identità certe e una d’identità liquide, tra sicurezza e precarietà, tra analogico e digitale.

Etichette che sociologi e demografi usano, non senza ambiguità semantiche e contrastanti definizioni. La mia generazione, per intenderci, è quella della caduta del muro di Berlino e dell’attentato alle Torri Gemelle e, in termini pop, quella di Dalla, De Andrè, Madonna e gli U2.

Sofia, che appartiene alla Generazione Z (quella dei nativi digitali o selfie-generation) si percepisce estranea a quella babele di suoni ed eventi passati, così come io, a vent’anni, mi percepivo altro da chi i suoi vent’anni li ha vissuti nell’Età dell’oro, per dirla con Hobsbawm, cioè nell’età della ricostruzione post-bellica, oppure nei cortei del ’68.

Eppure la mia generazione, nonostante il disincanto e il venir meno della passione civile, ha comunque mantenuto un legame rosso-sangue con le precedenti, coltivandone la memoria ed ereditandone i modelli educativi. Un filo che si dipana tra la conquista di spazi e libertà, una ricerca romantico-retorica dell’identità e il grande abbaglio delle ideologie. Meno partecipe e meno ideologica, ha accompagnato l’esaurirsi della dimensione attiva e dialogica del pensiero, dentro cui la politica è possibile e al di fuori della quale esistono solo individualità egotiche.

Rinunciando all’approccio argomentativo alla realtà, proprio della dialettica delle domande e delle risposte che pone in essere una prospettiva comune, ha consumato quel processo insito nella società di massa che la Arendt chiama “perdita del mondo” o “polis perduta”. Come se la battaglia per l’uguaglianza avesse solamente conformato gli individui, dentro una sfera pubblica che non sa più, scrive la Arendt, “riunire le persone impedendo che si cadano addosso”.

Renè Magritte, “Golconda” (1953)

Le trasformazioni profonde del vivere e del sentire – esistenziale, sociale, economico – hanno travolto certezze e quotidianità e, in assenza di un soggetto comunitario e politico in grado di far fronte al cambiamento e alla complessità della nuova rivoluzione, decifrandola o de-cantandola, la Generazione X ha tollerato tutto e a tutto si è abituata. Generazione di transizione, dunque, ma sostanzialmente passiva, genitrice dei Millennials e della Generazione Z, a cui trasmette le caotiche risultanze di quella condizione di tiepida partecipazione al farsi della Storia, non frutto di confronto civile e democratico, ma decisa altrove, da soggetti economici privi di volto e difficilmente identificabili.

Renè Magritte, “Riproduzione vietata” (1937)

Levata l’ancora, la cosiddetta Next Generation, naviga tra i flutti imprevedibili e implacabili del dio-mercato, dove c’è posto solo per il paesaggio solitario dell’individualismo, dentro cui persino l’alfabeto emotivo che consentiva di chiamare per nome i sentimenti, ha smesso di scrivere e raccontare. La mia generazione, poi, ha rinunciato ad educare, quando ha ridotto la formazione alla misurazione e l’individuo ad oggetto di cui calcolare ambigue e vacue competenze, estranee all’arte del vivere, ma funzionali all’incastro nell’arcipelago economico, anch’esso precario e incerto. Quell’arte del vivere che per i Greci significava consapevolezza delle proprie capacità ed esplicitazione di sé nella realizzazione del proprio daímon.

Salvador Dalì, “La persistenza della memoria” (1931)

“Abbiamo fatto il raccolto – scrive Nietzsche – ma perché tutti i nostri frutti si corrompono?”. Quale notte abitata dalla speranza abbiamo consegnato alla Next Generation perché possa andare oltre questo tempo disabitato? Con quante riserve d’acqua sta attraversando il deserto?

Renè Magritte, “Meditazione” (1936)