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di Chiara Tramontana e Giuseppe Schembari

La passione di Artemisia, pubblicato nel 2002 dalla casa editrice Neri Pozza e tradotto dalla lingua inglese da Francesca Diano, è un romanzo storico di Susan Vreeland.
L’autrice americana mescola arte alla narrativa, raccontandoci, tra realtà e fantasia, la storia della grande pittrice del ‘600, Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio, anch’egli apprezzato pittore del tempo e amico del Caravaggio. È lui che sin da bambina insegnerà alla figlia i segreti dei colori e dei giochi della luce, l’anatomia dei corpi e la magia delle prospettive.  

La scrittrice Susan Vreeland

Artemisia ebbe la sventura di essere stuprata giovanissima da un collaboratore e amico del padre: il pittore Agostino Tassi. Denunciato al Tribunale romano della Santa Inquisizione, sarà sottoposta, com’era consuetudine, alla tortura della “Sibilla” e all’esame delle parti intime sotto lo sguardo concupiscente di Giudici e addetti al processo. Una procedura processuale disumana e umiliante per la vittima, allo scopo presunto di accertare la verità dei fatti. Lungi dall’ottenere giustizia, Artemisia si troverà profondamente e ingiustamente ferita nella reputazione, nel corpo e nell’anima.

Artemisia Gentileschi nel ritratto del pittore Simon Vouet (1623 circa)

“Cancella il dolore con i tuoi pennelli, cara. Dipingi sopra il dolore, finché non ne rimanga traccia. Non fare che la loro derisione ti carichi di vergogna. È quello che vogliono. Vogliono che tu avvizzisca e muoia e lo sai perché? Perché il tuo talento è una minaccia”.

Spirito libero, donna caparbia e lungimirante, infranse tutte le regole (maschiliste) del tempo diventando addirittura, prima donna nella storia, membro dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. E troverà nel potere salvifico dell’arte il rifugio dove poter esprimere tutto il grande phatos di cui era capace, soprattutto attraverso quei volti femminili che dipingeva con grande maestria. 

Susanna e i Vecchioni, opera giovanile di Artemisia (1610)

Fin qui la figura storica di Artemisia Gentileschi che, nel romanzo della Vreeland, diventa però la superficiale eroina protagonista di un romanzo ancor più superficiale. Incapace di creare profonde emozioni nel lettore, tra dialoghi a volte improbabili e un linguaggio a tratti inverosimile per dei personaggi storici dell’epoca. Viene anche il dubbio che la traduzione dall’inglese abbia contribuito a peggiorare un quadro già di suo non esaltante. Insomma, un romanzo storico non da ricordare né da consigliare. 

Giuditta e Oloferne (1620/21)

Un giudizio molto negativo che ha trovato concorde la stragrande maggioranza dei partecipanti al gruppo di lettura di oltreimuri.blog. Le poche voci che si sono alzate in difesa hanno invece sottolineato la buona capacità della scrittrice a rappresentare i difficili e complicati rapporti familiari tra Artemisia, il padre e la figlia.

Da tutti invece è stato sottolineato come il romanzo della Vreeland abbia raggiunto almeno lo scopo minimo di spingere il lettore a ricercare ad approfondire le bellissime opere pittoriche citate e descritte nel testo.

di Simona Canzonieri

Donatella Di Pietrantonio è una dentista pediatrica che si alza molto presto al mattino e si siede a scrivere. In quelle ore silenziose, lontane dal ritmo frenetico della giornata che sta per cominciare, Donatella scrive di donne: madri, sorelle e figlie del suo luogo natìo, l’Abruzzo. L’Arminuta è uno dei frutti di questa sua pratica quotidiana. Un libro pubblicato da Einaudi nel 2017, vincitore del premio Campiello nello stesso anno e tradotto in 23 paesi.

Donatella Di Pietrantonio

“Arminuta” in dialetto abruzzese significa ritornata e in questo aggettivo sta racchiuso il destino della protagonista. Una bambina che viene affidata dai genitori a parenti senza figli e che alle soglie dell’adolescenza viene riconsegnata alla famiglia d’origine. Ecco allora “l’arminuta”, colei che è ritornata, anzi più esattamente è stata “ritornata”, riconsegnata.

Una ragazzina gettata in una condizione di perpetuo esilio in mezzo a due mondi lontani e incompatibili: quello povero e duro della famiglia d’origine che vive in paese, sulle montagne d’Abruzzo, e quello cittadino piccolo-borghese della famiglia d’adozione che vive sul mare.

La ragazza della copertina del Romanzo

“Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati. Il privilegio che portavo dalla vita precedente mi distingueva, mi isolava dalla famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere, invidiavo le compagne di scuola del paese e persino Adriana per la certezza delle loro madri”.

“L’arminuta” e la sorella Adriana nel film di Giuseppe Bonito tratto dal romanzo (Ph Stefano Schirato)

I due mondi apparentemente così distanti possiedono però un tratto in comune: la povertà emotiva. Le due madri, seppur provenienti da due contesti sociali assai diversi, dimostrano la stessa mancanza di strumenti emotivi capaci di aiutare la ragazza nel difficile passaggio di vita. La madre biologica in particolare non sa dare nemmeno un nome ai sentimenti che vive, anche se dimostra a suo modo almeno la volontà di trovare un senso di rapporto con la figlia. La ragazzina rimarrà da sola in compagnia delle sue angosce e paure.

Le due sorelle con il fratello maggiore Vincenzo (Film)

“Nel tempo ho perso anche quella idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.

Unico personaggio positivo del romanzo risulta essere la sorella minore Adriana, l’unica della famiglia ad essere rimasta umana, nonostante la brutalità della vita quotidiana. In netto contrasto con le due figure materne, Adriana dimostra forza e carattere e riesce a concedere amore e aiuto perché ancora capace di ascoltare le proprie emozioni.

Fara Sabina set del film tratto dal racconto

“Ci siamo fermate una di fronte all’altra, così sole e vicine […]. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza.”

È un romanzo che si legge in un weekend. L’autrice usa un linguaggio molto semplice e diretto, anche se un po’ appesantito dalla costante ricerca di metafore, ma riesce a tenere desta l’attenzione del lettore riuscendo a coinvolgerlo in quelle atmosfere di profondo disagio materiale e spirituale. L’uso del dialetto abruzzese non infastidisce, anzi dona quasi il sapore di quella terra e una coloritura gradevole al racconto stesso che risulta ben costruito, seppur con qualche figura (come il fratello Vincenzo) che poteva essere meglio gestita.

Donatella Di Pietroantonio mentre riceve il Premio Campiello (55esima edizione)

Il messaggio che traspare è chiaro e univoco, non è romanzo dai diversi livelli interpretativi. Una lettura gradevole che nei più esigenti potrebbe lasciare comunque un vago senso di insoddisfazione.