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Luigi Pirandello

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di Mossuto – Canzonieri – Battaglia

Quanto può essere esplosiva un’osservazione riguardante uno dei nostri insindacabili connotati fisici come ad esempio il naso? Nella vicenda umana del protagonista, Vitangelo Moscarda, è il colpo di cannone che principia la battaglia campale per la sua vita. Con uno degli incipit più memorabili della letteratura contemporanea Pirandello lancia la sfida alle nostre capacità di ragionamento e introspezione, trascinandoci nel rovellio interiore del protagonista. Grazie anche ad una prosa lucida, analitica, complessa, che qualcuno ha brillantemente letto come una lunga seduta psicoterapica.

Luigi Pirandello (1867-1936)

Vitangelo ci trascina nel suo vortice di dubbi e domande: chi sono io? Come mi vedono gli altri? Qual è il mio ruolo? E una domanda dopo l’altra, davanti ad uno specchio, reale o metaforico che sia, cadono le sue maschere, o le nostre, se vogliamo. E poiché l’onestà è uno di quei valori che non prevedono mezze misure, Vitangelo arriva allo spasimo, all’annientamento di ogni suo precedente ruolo e legame sociale, seminando ovviamente scompiglio e paura nella sua vita e in quella di chi lo circonda. Fino a passare per pazzo. La pazzia della verità, del nudo senso della vita, che fanno paura perché implicano la distruzione consapevole delle tante identità che compongono il nostro ego.

I riferimenti filosofici di questo romanzo si sprecano, tanto da poter considerare “Uno, Nessuno e Centomila” un vero e proprio romanzo filosofico. Ci troviamo dentro Gorgia, con il suo scetticismo metafisico, l’impossibilità cioè di definire, concettualizzare la realtà; Eraclito, col suo Panta Rei: tutto cambia continuamente, niente rimane uguale a sé. Ammesso che esista questo Sé, perché anche l’Io viene dissolto in questa operazione, in apparenza nichilistica, compiuta dall’autore. Facendo eco a Hume, Pirandello vede l’Io per quello che è, un’illusione: Un fascio di sensazioni e pensieri tenuti insieme da un miraggio.

E allora cosa resta? Qui la filosofia pirandelliana fa un salto e sembra spostarsi in Oriente. Il percorso tormentato di Moscarda può essere letto come la Via dell’Illuminazione buddista: un continuo cadere di illusioni, eliminare strati e strati di questa realtà a cipolla e arrivare al centro, all’essenza intera ed indivisibile: il nulla, o se vogliamo, il tutto.

Ci si può ritrovare a rileggere “Uno, nessuno e centomila” anche in chiave psicologica – com’è accaduto alla psicoterapeuta del gruppo – Vitangelo diventa così il paziente in seduta di psicoterapia. Il linguaggio in prima persona rende quasi automatico questo passaggio. Ci si sente di condurre, pagina dopo pagina, il dialogo socratico con un paziente mai reticente; e si pensa che Pirandello per descrivere l’escalation della follia del suo personaggio abbia usato proprio questa tecnica: il lato geniale dell’autore. Poi man mano che si procede nella lettura si prova a volerlo etichettare, a volergli fare una diagnosi. È un istrionico? Un evitante? Un narcisista? Si ha la percezione di cadere nella trappola del furbissimo autore, cioè fare come tutti i personaggi del romanzo: tentare di etichettarlo, catalogarlo, ingabbiarlo… L’ennesima maschera: il Vitangelo per la terapeuta.

Così si arriva ad essere costretti alla disciplina interiore, occorre fare retromarcia, bisogna lasciarlo andare, libero. Lui sta bene così, ha operato la sua scelta, consapevolmente: morire e rinascere ogni attimo, nuovo e senza ricordi: “Muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”

René Magritte, La Décalcomanie, 1966

Mai nessun romanzo, dopo tanti mesi, aveva stimolato così tanto il dibattito del gruppo di lettura nelle molteplici implicazioni letterarie, filosofiche e psicologiche del testo. Lo stigma del capolavoro autentico probabilmente sta proprio in questo. Per molti è stata anche una feconda rilettura, in una fase più matura della propria vita, che ha posto in luce considerazioni, analisi e pensieri del tutto nuovi. Passare poi da un tipo di linguaggio moderno e scorrevole al linguaggio pirandelliano non è stato agevole per molti. Ma anche qui la sfida ci sta tutta.

La prima edizione del 1926

di L’Alieno

La situazione è grave ma non è seria“. Sentenziava così Ennio Flaiano che sapeva bene di che pasta è fatto l’italiano. In Sicilia, poi, figuriamoci. Le nostre storie assumono i connotati della farsa e della tragedia allo stesso tempo, in una dimensione di nebbie perenni dove la verità appare sempre come l’unica vittima, inconoscibile, insondabile.

Non è un caso del destino che qui siano nati il relativismo del “così è se vi pare” del girgentino Pirandello e, ben prima, il nichilismo del “nulla è, e se anche qualcosa fosse non sarebbe conoscibile…” del filosofo lentinese Gorgia. Potreste mai immaginare due tipi che dicono cose così nati in Germania? Non sarebbe credibile.

L’ex fornace Penna a Scicli (foto di Davide Mauro)

E bisognerebbe ricorrere proprio a Pirandello e Gorgia per tentare di spiegare il come si è arrivati al crollo drammatico, di qualche giorno fa, di tre arcate della fornace Penna a Scicli. Una tipica storia contorta, intricata e ingarbugliata, per uno degli esempi più rari e affascinanti di archeologia industriale. Qui il tempo si fermò in un freddo fine gennaio del lontano 1924, per colpa di un incendio doloso senza responsabili (poteva essere diversamente?).

Le condizioni della struttura della fornace dopo i crolli (foto da palermo.repubblica.it)

Voluta sedici anni prima, nel 1908, dal Barone Guglielmo Penna, era una fiorente e moderna industria capace di produrre una decina di migliaia di pezzi al giorno tra tegole e mattoni da esportare nei paesi della costa mediterranea. Dopo l’incendio solo buio pesto che dura tutt’ora tra la numerosa proprietà degli eredi Penna da una parte, interessati soltanto a fare cassa, e dall’altra l’annosa inefficienza e sciatteria di politica e burocrazia.

Inutile tentare di capire tra vincoli, sequestri, denunce, cause e ricorsi dalla durata infinita. Impossibile venire a capo di torti e ragioni che ancora impediscono di mettere in sicurezza il prezioso rudere e acquisirlo ai beni dello stato.
La “basilica laica” sul mare del Pisciotto, ovvero “la Mannara” della fortunata fiction del Commissario Montalbano, difficilmente potrà essere sottratta all’amaro epilogo. Siamo terra di tragedie.

foto banner di Marco Cupi (da flickr.com)

di Costantino Muscau

“Lei è la sorella? E da quanto tempo?”: così direbbe Totò se potesse rivolgersi alla Sicilia, o alla Sardegna. Altro che isole sorelle. Non sembrano neanche cugine, anzi neanche lontanamente parenti!
Eppure… Chi scoprì la Sardegna?

Proprio un siciliano, giunto quasi 90 anni fa dall’altra parte del mare. La solita esagerazione giornalistica, si dirà. Forse. Ma qual è “il viaggio in Sardegna” che, nell’epoca moderna, ha fatto conoscere all’Italia “l’Isola dei 4 Mori”? Quello di Elio Vittorini scritto nel 1932, ripubblicato nel 1936, col titolo “Sardegna come un’infanzia”.

Lo scrittore siracusano Elio Vittorini

Ancora nel 1932, la Sardegna, dal settimanale “l’Italia letteraria”, era definita “una delle parti meno conosciute d’Italia”. Per questo, il periodico organizzò un viaggio-crociera per giornalisti e scrittori. Era stato abbinato – ricorda lo studioso Sandro Ruiu nel saggio “La graduale scoperta della Sardegna” – ad un premio di 5.000 lire. Il viaggio ebbe 25 partecipanti. La giuria era formata da Grazia Deledda, già premio Nobel per la Letteratura (1926), Silvio Benco, scrittore triestino, e Cipriano Oppo, artista, caricaturista e politico (fascista) romano di origini sarde. Essa assegnò il premio ex-aequo ad Elio Vittorini e Virgilio Lilli.

Il settimanale “l’Italia letteraria”

Sicilia e Sardegna, dunque. Isole di storia, storie di isole. Così vicine e così lontane. Accomunate dalla natura geografica, dal turismo, dal flusso dei migranti, anticamente perfino dalla storia, sono cresciute nei secoli come separate nella casa del Mare Nostrum. Per qualche strano motivo, “la terra della luce e del lutto” (Gesualdo Bufalino) e quella che è “quasi un continente” (Marcello Serra) si ignorano.

Eppure… Ricorrendo alla distinzione che operò Lucien Febvre (1878-1956), un grande storico francese attento alla Geografia, entrambe sono “isole crocevia” non “isole prigione”. “Già dal II millennio a.C. i rapporti tra le maggiori isole del Mediterraneo erano stretti, formando in alcuni casi una sorta di rete insulare”, ha scritto Carmine Ampolo, romano, accademico italiano, docente della Normale di Pisa. A sua volta Sandro Filippo Bondì, celeberrimo archeologo e professore di Archeologia fenicio-punica nell’Università Tuscia di Viterbo, ha studiato a lungo “gli interscambi culturali e socio-economici fra Africa Settentrionale e le due isole e le relazioni con la Sicilia e la Sardegna nel mondo punico”.

Eppure, eppure… L’interrogativo resta: ma i sardi vanno in Sicilia, la conoscono? I sardi – è stato detto e scritto – sono pronti a confrontarsi con il “continente”, a parlare dei “continentali” facendone un bel mazzetto omogeneo che fa implicito riferimento a tutti gli italiani da Roma in su. I napoletani vengono nominati a parte. Nessuna particolare considerazione circa la Sicilia. Vivendo in un’isola così lontana dalla terraferma, i sardi si considerano gli unici grandi isolani d’Italia. E vedono la Trinacria uno spunto dello Stivale e quindi non tanto isola.

Sorge però spontaneo l’altro quesito: i siciliani che cosa ne sanno di quella regione-sorella che dista poco più di 460 km?
Vittorio Cravotta, uno scrittore contemporaneo (certo meno famoso di Vittorini) ha dato alle stampe il libro “Le due isole”, in cui si vanta di essere figlio di due culture: “ho trascorso 23 anni in Sicilia, 50 in Sardegna grazie a mia moglie barbaricina Miriam, che mi ha legato indissolubilmente alla terra dei Nuraghi”.

Vittorio Cravotta, sardo-siciliano, 23 anni in Sicilia e 50 in Sardegna

Vittorio Cravotta era figlio di Giuseppe, maresciallo dei carabinieri, vittima, per la sua moralità, dei soprusi di qualche superiore: dovette lasciare l’Arma e si adattò a lavorare come operaio per 7 anni nei cantieri che il governo aveva organizzato a Sant’Alfio, (Catania) proprio nel Comune dove fino a poco tempo prima aveva comandato la stazione. Nel 2019 il Consiglio Comunale di Sant’Alfio ha risarcito dell’ingiustizia il carabiniere intitolandogli una piazza.

Naturalmente, sono pochi quelli che possono definirsi “sardo-siciliano”, come Cravotta. Di sicuro gli abitanti delle due isole non si disprezzano né si disistimano: basti dire che il direttore di uno dei due quotidiani sardi, La Nuova Sardegna, è un messinese! Resta, però, incomprensibile come mai siano radi i rapporti fra queste due terre che possono vantare tre premi Nobel per la Letteratura e una ricchezza archeologica diversa, ma rilevantissima.

I tre Premi Nobel per la letteratura di Sicilia e Sardegna: (da sinistra) Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo e Grazia Deledda

Sul finire degli anni ’20, il periodico “Le Vie d’Italia” suggerì un itinerario congiunto tra “due isole sorelle”, addirittura “la creazione di un’unità turistica”. Peccato che le due isole sorelle fossero Sardegna e Corsica. Nel luglio di quest’anno (2021) è stato organizzato un gemellaggio fra il complesso nuragico di Barumini e il museo di Pompei, tutti e due compresi nell’elenco dei 55 siti Unesco italiani. Mai che a qualcuno sia venuto in mente di stabilire uno scambio, o a un abbinamento, con uno dei 7 siti Unesco della Trinacria.

Il periodico “Le Vie d’Italia”

Ancor più clamoroso, per non dire scandaloso, il festival letterario “Mediterranea. Cultura, scambi, passaggi” (Alghero, luglio 2021). Dedicato “agli affascinanti aspetti culturali, letterari e paesaggistici del Mediterraneo, all’anima cosmopolita delle sue genti e all’ampio respiro delle civiltà che l’hanno attraversato”, non ha preso in considerazione la Sicilia.

Due anni fa a Nuoro venne lanciata l’iniziativa “il Nobel incontra il Nobel, un ponte fra Grazia Deledda e il turco Orhan Pamuk“. Perché non si è mai pensato a un collegamento fra Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo?

Un confronto fra le due isole nel 2020 è stato organizzato dal Sole24ore per scoprire storie di eccellenza e di ripartenza e per studiare nuovi modelli di comportamento che possano essere da esempio e stimolo per il tessuto economico locale. Avrà seguito?

Qualche anno più indietro si discusse la costituzione di un gruppo europeo di cooperazione. Si fondava sulla dichiarazione comune dei Presidenti delle isole del Mediterraneo (Taormina, 21 ottobre 2004), che auspicava la creazione di un’Euroregione. Ne farebbero parte tutte le sei regioni appartenenti alla rete “Eurimed – isole del Mediterraneo” (Sardegna, Sicilia, Baleari, Creta, Corsica, Gozo), più una rappresentanza di Cipro. Se ne è saputo più niente? Si attendono notizie e sviluppi.

Per fortuna, recentemente, è comparso uno… spiraglio di luce in fondo al mare. Nel 2018, infatti, è stato messo nero su bianco da Terna (l’operatore di reti di trasmissione dell’energia elettrica) il gigantesco progetto di un doppio collegamento sottomarino fra Ichnusa e l’antica Sicania (più Campania). Si chiama “Tyrrhenian link” e dovrebbe assicurare una risposta ai bisogni energetici di Sicilia e Sardegna. Il completamento dell’opera è previsto entro il 2028. Avverrà questa “sorellanza elettrizzante” fra le due terre? Chi vivrà, vedrà.

“Mi accontenterei per ora – confessa una siciliana che insegna in un liceo di Sassari – che ci fossero collegamenti aerei comodi fra le due isole!”. Via mare, poi, tra Cagliari e Palermo la grande strada azzurra non è meno ardua da percorrere.

Recentemente, una collega siciliana della Rai, inviata per gli Esteri, mi ha confessato: “Nella mia carriera giornalistica ho visitato per lavoro 55 Paesi. Non sono, però, mai stata in Sardegna. Mi vergogno!”. Le ho suggerito di diventare l’Elio Vittorini di questo Millennio. Di imbarcarsi per Cagliari e di calcare le orme del suo illustre conterraneo e di preparare un “Reportage in Sardegna”. “L’uomo non ricorda nulla, ma ricostruisce di continuo”: è una massima di Lucien Febvre. Non sarebbe ora di cominciare a costruire un ponte tra Sicilia e Sardegna?

Nato e cresciuto in Sardegna, Costantino Muscau è diventato grande (e vaccinato) a Milano. All’ombra della Madonnina si è laureato, è diventato giornalista e ha… scoperto la Sicilia. Come giornalista professionista non si è risparmiato nulla (a parte l’esperienza televisiva). Ha lavorato in un giornale del pomeriggio, in una radio privata, in un quotidiano popolare, in un mensile di salute, in un settimanale familiare e poi al Corriere della Sera per 20 anni. Qui si è occupato di attualità nazionale e internazionale. Ha avuto anche un’esperienza di (mini) direttore per quasi due anni al Corriere, quando gli è stata affidata la responsabilità di “Corriere anteprima”, freepress pomeridiana. La scoperta della Sicilia, anzi prima di tutto dei siciliani, è avvenuta all’Università Cattolica di Milano. Qui ha incontrato giovani del messinese, del Belice, del palermitano dalla testa ricca di intelligenza, dal cuore pieno di altruismo e dalla lingua non biforcuta, ma sapida di humor, che se ne fa un baffo di quello inglese. Il gemellaggio con l’umorismo sardonico e la sardità riservata, ma non circospetta ha prodotto amicizia imperitura. Poi ha conosciuto la Trinacria, battendola in lungo e in largo per lavoro. E invidiandole, con ammirazione, quasi tutto (ma non il mare!).