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di Stefano Vaccaro

La contea di Modica comprende dodici comuni, che però nella contea propriamente detta, quella dei Cabrera e della corona spagnola, ebbero vicissitudini di aggregazione e disgregazione, di espropriazione e di restituzione, di pegnorazione e di vendita, per cui forse non c’è stato mai un tempo in cui si trovassero effettualmente riuniti. Più tardi, al tramonto della feudalità, trovarono riunione nell’amministrazione circondariale. Il circondario di Modica: e Modica ne era anche il centro geografico. I comuni sono quelli di Biscari, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Giarratana, Ispica (fino al 1935 Spaccaforno), Monterosso Almo, Pozzallo, Ragusa, Santa Croce Camerina, Scicli, Vittoria. Gli elementi che li unificano, sicché ancora oggi si può parlare di una contea o circondario di Modica in accezione di diversità rispetto al resto della Sicilia, sono il dialetto, le colture agricole, l’architettura rurale e urbana, lo spirito associazionistico.

La Contea di Modica (l’enclave in giallo nel sud dell’Isola) nella Val di Noto

Ciascuno dei dodici comuni ha per caratteristica esuberanti centri storici e magnifiche cattedrali in gran parte frutto di una sistemazione urbanistica ed una rinascita architettonica occorsa all’indomani del terribile sisma che l’11 gennaio 1693 distrusse per intero il Val di Noto.

Arroccati su un monte, adagiati in fondo alla valle o con l’affaccio verso l’Africa, nei paesi iblei non si ha il tempo di distogliere lo sguardo dalle energiche capriole barocche di chiese e palazzi, un trionfo di pietra e di luce, che subito si rimane abbagliati dalla visione di impressionanti scorci di natura.

Sulla campagna ragusana, adornata da rurali tramezzi in pietra – i muri a secco – che cingono sentieri e strade, Sciascia insiste descrivendo l’organizzazione di autosussistenza di certi tipi di masserie qualificanti l’antica Contea, – oggi diventati agriturismi – gli allevamenti e le attività produttive, tratteggiando un mondo campestre lontano dai ritmi cittadini, dove a scandire il tempo erano l’alternarsi delle stagioni, le fioriture dei germogli, i tempi del raccolto e i rintocchi di isolate chiese di contrada, un mondo lontano intriso di forese ritualità.

Scorcio di campagna ragusana (2009), foto: Giorgio Leggio

In quanto all’architettura rurale, in cui si possono includere (e siamo nel paesaggio) quei muretti a secco che fanno suggestiva geometria – e crediamo si debbano più a una necessaria operazione di spetramento che a una gelosa segnalazione di confine della proprietà: e dovrebbero essere tutelati come parte integrante e caratteristica del paesaggio – e le case di villeggiatura che tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro, con grande e vano dispendio, e specialmente nella campagna modicana, hanno incorporato le antiche masserie o le hanno sostituite, è da osservare che ubbidivano a un criterio di autosufficienza, di autarchia. A differenza della masseria di feudo nella Sicilia occidentale, la masseria della contea bastava a se stessa. […] Nelle masserie si allevavano cavalli, maiali, bovini, ovini, qualche capra, molto pollame.; c’erano i mulini ad acqua; si facevano i formaggi (famoso e inimitabile il caciocavallo; si filavano e tessevano lana, canapa e cotone; si lavorava, anche esornativamente, il legno: pali, collari per gli animali, ciotole, mestoli, cucchiai; si conservavano in insaccati e gelatine le carni del maiale; e miele e cera non mancavano, da alveari costruiti e stazionari come da alveari naturali ed errabondi […]: il celebrato miele ibleo, da cui in qualche parte della contea ancora si distilla un vino.” 

Tipica masseria siciliana

Dolci alla ricotta, al cioccolato, al pistacchio, con cannella, mandorle o scorze d’arancia, per chi giunge negli Iblei a godere non è solo la vista, già meravigliata nell’osservare le complesse evoluzioni di statue indorate dal sole e puntute torri campanarie, vivaci manifestazioni di un’inclinazione per il capriccio e l’esagerazione che è voglia di vivere dopo la morte; o l’olfatto, inebriato dalla macchia mediterranea, profumata di rosmarino selvatico, cappero, lentisco e ginepro, dall’odore del mare, di un mare antico, incontenibile e pieno nell’avvicinarsi alla costa.

A gioire è anche il gusto poiché l’alta qualità dei prodotti che qui vedono la luce – dal miele già cantato da Virgilio e da Plinio il Vecchio, ai formaggi, il caciocavallo DOP e la provola ragusana, all’olio anch’esso DOP e i vini Vittoria e Eloro –  ha trovato perfetta unione con l’eredità culinaria lasciata da secoli di dominazioni, tra tutte quella spagnola, la cui influenza si riflette ancora oggi sulle tavole dei siciliani, piatti semplici e pietanze talvolta curiose che hanno colpito positivamente Sciascia, già completamente conquistato – lo confessa egli stesso – dalla bontà del cioccolato di Modica.

L’antica disposizione del caciocavallo ragusano per la stagionatura

E per esempio: la cucina della contea – e non c’è differenza tra quella familiare e quella che le trattorie offrono: la sola parte della Sicilia in cui, come in Puglia e in Toscana, si è capito che bisogna, nelle trattorie, attenersi alla cucina locale – irresistibilmente richiama alla Spagna per il prevalervi dei piatti di legumi: ceci, fagioli, lenticchie, fave secche conditi con buon olio crudo  (e le fave, a volte, anche con aceto e origano);  e richiama anche a quella sobrietà che per Menèndez Pidal è “la qualità basilare del carattere spagnolo”. Sobria è la gente della contea. Altro richiamo, per restare alla gola, è quello del cioccolato di Modica a quello di Alicante (e non so se di altri paesi spagnoli): un cioccolato fondente di due tipi – alla vaniglia, alla cannella – da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archétipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione. E qui sarebbe da fare un inventario della pasticceria modicana: le cedrate, le cotognate, i torroni, le cobaite: ma ci vorrebbe un descrittore di sapori della vocazione e sottigliezza di Magalotti nelle lettere sugli odori. Bisogna però particolarmente ricordare quei dolci fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente: un dolce nutrientissimo e di lunga conservazione, e si potrebbe dire un dolce da viaggio”.  

Le mpanatidde, i dolci modicani ripieni di carne e cioccolato

La prima parte dell’articolo di Stefano VaccaroSciascia e la Contea di Modica (I parte)

di Luigi Lombardo

Col nome giugniettu i siciliani indicano il mese di luglio, come dire “piccolo giugno” e questo perché in questo mese si continuano i lavori legati al frumento appena mietuto: è il mese della trebbiatura. Un tempo si faceva con i muli a retina, guidati da un solo trebbiatore, in grado di controllare una o due coppie di muli. È il mese delle transazioni sul grano e come ci dice la poesia sui mesi dell’anno:
Giugniettu è favorevuli a li mircanti
s’arricuogghiunu pieni di frummenti
e-rretini ri muli ci n’è bastanti
e cu ddisia cosi ci n’è pi-nnenti
e lu massaru cu-ccori fistanti
se nun si trasi a pagghia nunn-è-ccuntenti.
E a lu zappunaru ci-arresta ravanti
la pala, li cirnigghi e li trarenti

Ma leggiamo un vecchio almanacco agricolo del 1874:
Si finiscono di mietere i grani e le timinie e si principia la trebbia, si miete la canape, si zappa la vigna, e si tolgono sempre i germogli. Si raccolgono zucche, cocomeri, peperoni, pomidoro e poponi e altre piante della stagione. Si bada a non far coricare il bestiame fuori di giorno nelle ore di caldo, e si terrà fuori invece la notte. Si preparano intanto le terre (i maisi i stati) preparando bene e soleggiando quelle terre che sono rimaste a riposo. Si irrigano gli agrumi e si raccoglie il miele migliore, quello di satra, lasciando solo il necessario nutrimento. Si bada alla trebbia, conservando i grani in fuori asciutti, e ben divisi nei magazzini per non confondersi poi le sementi e le quantità diverse che depreziano – si prepara per il ricolto delle mandorle, carrubbe ed altri frutti della stagione che vanno a maturarsi nel vegnente agosto”.

Ma è la trebbiatura l’operazione clou del mese. Parliamo qui di “pisatura” cioè con l’uso di animali (muli soprattutto o qualche giumenta). Si iniziava a pisari (trebbiare) verso la tarda mattinata (quannu u suli cauria), allorché si metteva mano alla prima cacciata: si sfasciavano i covoni (regni) e si riempiva l’aia, spargendovi le spighe quanto più possibile in modo uniforme. La quantità di covoni sfasciati e sparsi sull’aia dipende dal numero di bestie che si impiegano. Con due muli si spargono tre mazzi (ogni mazzo consta di venti covoni).

La prima cacciata si faceva sempre più leggera. Il contadino (cacciaturi o pisaturi) fa entrare gli animali nell’aia, ponendosi al centro di essa. Egli regge in una mano le redini (i cuddani) e nell’altra una corda bagnata (u capu), con la funzione di stimolare (ma non picchiare) gli animali. Intorno all’aia si dispongono altri contadini detti misaluori (da mese, cioè operai assunti a mese), con la funzione di ributtare dentro l’aia (arrunciari) i mannelli e le spighe che fuoriescono. Il contadino “cacciatore” veste un camicione fuori dai pantaloni e un largo cappello di paglia calzato sopra un fazzoletto (muccaturi) tenuto annodato al mento.

(Foto areaiblea.blogspot.com)

Il pisaturi si pone al centro dell’aia e, aiutato dai compagni, dispone le bestie nell’aia ai bordi, mentre lui occupa il centro. In quel momento egli è “axis mundi”, un vero officiante che compie un rito millenario: frangere le spighe, separare il grano dalla paglia. Come un bravo officiante egli avviando i muli recita una solenne preghiera:
Maria vinni e-ll’ancilu passau
e st’armaluzzi m’arraccumannau
A nomu do santissimu saramientu!
e in coro, come nella mietitura:
Saramientu!

(Foto areaiblea.blogspot.com)

E adesso il trebbiatore è veramente solo a dominare la forza dei due o quattro muli che girano l’aria sotto lo scrocchio della zotta e le voci di incitamento dell’officiante.
Lu baiu cci rissi a lu murieddu
mentri ca campu iu aia ffari u iaddu
riferendosi alla maggiore forza dei muli bai. Non manca lo scherzo a stemperare la durezza del lavoro:
Marianazzu ci dissi a li buttani
lu tiempu si piagghia comu veni, iù!

A questo punto si alza un grido possente:
Maria vinni!
E i muli fanno a vutata con un giro su sé stessi, Gli incitamenti si susseguono, si approfitta del sole allo zenith per trebbiare un frumento secco e caliatu. Il dialogo con gli animali è continuo. Uno o due operai muovono la paglia sotto i piedi dell’animale: alla fine del lavoro un grido liberatorio:
Lientu! viri ch’è tardu e n’am’a-gghiri
viri ca è tardu e m’accupa lu cori! Fora!

(Foto milocca.wordpress.com)

Si pulisce l’aia (s’annetta l’aria) con la scopa dell’aia (scupazzu), fatta di steli d’iperico: il gesto in effetti è altamente scaramantico e simbolico, serve cioè ad allontanare le negatività del luogo.
Nelle masserie iblee l’aia è a-bbalata, cioè il suolo è formato dalla viva roccia e lastricato nei punti più sconnessi. Le aie più curate sono tutte bbalatati, lastricate con mattoni di calcare di forma quadrata, delimitati lungo la circonferenza da blocchi quadrati. Raramente è di terra battuta; in quest’ultimo caso prima di iniziare il lavoro si bagnava per bene il suolo (s’abbivirava), quindi si spruzzava rapidamente con acqua e vi si spargeva della pula (l’aria s’abbunava cco prullazzu i l’aria).

La spagliatura iniziava appena si alzava il vento, via via che si spaglia il frumento e le spighe vanno da una parte e la pula dall’altra. Alla fine si celebra la fine dei lavori con una lauta mangiata, al suono de friscalettu e tammureddu.
A questo punto il grano è pronto per la misurazione e la divisione: leva questo, metti quest’altro, spesso al povero contadino restavano gli occhi per piangere.

friscalettu e tammureddu