di Grazia Dormiente
Nel 2005 il Museo Ibleo delle Arti e Tadizioni Popolari “S. A. Guastella”, realizzato a Modica dall’Associazione Culturale “S. A. Guastella”, aperto nel 1978 e affidato dal 1996 alla gestione della Cooperativa Etnos, è stato chiuso per i lavori di restauro e consolidamento del Palazzo dei Mercedari, sede museale.
È stata offuscata e forse volutamente disgregata, ammucchiata e cancellata la preziosa documentazione etnoantropologica, che impose alla scrivente – ultima insieme con il socio Enrico Spadaro ancora in vita tra i soci fondatori volati alle dimore celesti – di attivarsi per ritessere l’etica della memoria, impegnandosi a salvare l’opera dell’homo faber ibleo, grazie al dialogo costruttivo con l’Amministrazione Comunale di Modica, cui lo stesso Museo dopo un laborioso riallestimento è stato devoluto nel 2021.

Purtroppo difficoltosa ed ardua si è rivelata l’impresa per l’ammasso caotico, confuso e decontestualizzato dei reperti etnoantropologici. Caos polveroso ed indistinto che fu constatato dalla stessa scrivente, solamente nel 2012, durante il sopralluogo richiesto in qualità di legale rappresentante della già citata Associazione Culturale alla Soprintendenza di Ragusa.
Per tale ragione appropriata rimane la riflessione dell’architetto Alessandro Salvatore Ferrara, nominato delegato fiduciario e partecipe al riallestimento museografico: “In italiano, definire il concetto di ‘stato dell’Arte’ è come dire ‘a che punto siamo’ o ‘stato delle cose’, in altri casi ‘da dove cominciamo o ricominciamo’”.

Il museo etnografico che già ospitava la collezione dell’Associazione ‘Serafino Amabile Guastella’, definita, persino dalla stampa degli anni ’70, come la più interessante di tutto il meridione d’Italia, dopo l’importante restauro dell’edificio monumentale nel quale era allestito, si presentava, agli sguardi attoniti di coloro che avrebbero dovuto riattivare il percorso museale, in maniera molto disordinata, giusto per usare un eufemismo.

Infatti, a voler essere più chiari e obiettivi, lo stato nel quale versava ogni oggetto, con o senza gloria, della straordinaria collezione era meritevole di essere appellato come “criminoso”, perché incautamente abbandonato a se stesso, pur essendo la maggior parte di essi tutelati da un vincolo di interesse etno-antropologico emanato con Decreto dell’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana (n. 7121 del 6 luglio 1996).

Io e il delegato fiduciario della Soprintendenza non abbiamo potuto esimerci, a tal punto, dall’avviare un dialogo costruttivo con l’Amministrazione Comunale, presieduta dal Sindaco Ignazio Abbate, che ha compreso l’importanza di restituire alla sua e nostra Modica un museo, nato dalla passione civile di autentici animatori culturali, la cui gratuita prestazione era rivolta al servizio della comunità cittadina.

A ben riflettere Modica ha rappresentato negli anni settanta del secolo scorso il superamento della tradizionale cesura tra antropologia e storia e sulle tracce storiografiche di Les Annales ha manifestato un crescente interesse per le fonti oggettuali e per le tradizioni orali. È di quegli anni la nascita della Casa Museo fondata a Palazzolo Acreide da Antonino Uccello nel 1971 e il Museo Internazionale delle Marionette istituito a Palermo da Antonio Pasqualino e Janne Vibaek nel 1975.

Bisogna pure rilevare che la Regione Siciliana con la legge n.80 del 1977 fu la prima in Italia ad inserire tra i beni culturali quelli etnoantropologici. Così l’inaugurazione del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari “S.A. Guastella” a Modica nel 1978 si iscrisse nel clima di rinnovamento culturale che permeò la Sicilia, come documenta Antonino Cusumano, docente nel corso di laurea in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo.

A Modica, dove nel 1989 si sono trasferiti i Convegni europei di studi antropologici siciliani, Pietro Clemente ha parlato per la prima volta di “estetica museale”, di rappresentazione come scenografia, di organizzazione degli ambienti e dei percorsi in senso teatrale, di linguaggi espositivi e percettivi: temi e concetti che svilupperà negli anni successivi e contribuiranno alla progettazione di una museografia più attenta ad esporre che a conservare, più sensibile ai bisogni del pubblico che a quelli della ricerca pura, più versata alla comunicazione piuttosto che alla documentazione. (A. Cusumano, Teorie e pratiche di antropologia museale in Sicilia, 2019 consultabile online).

Le registrazioni raccolte durante la ricerca sul campo hanno evidenziato un prezioso catasto di cultura orale e sono servite per narrare il calendario dei lavori agricoli e i segni dei mestieri, unitamente a frammenti memoriali di quanti sono rimasti invisibili nella Storia.
All’inevitabile declino dei mestieri tradizionali, cancellati dalla tecnologia, soggiace anche il tramonto di biografie individuali e collettive, di memorie di gruppi e di comunità, che hanno collaborato, nel corso del tempo, a scrivere i “libri” dei saperi materiali ed immateriali: un mondo di risorse, d’esperienze e, perché no, di creatività rievocante forme di lavoro e rapporti di produzione di un’età certamente travolta insieme con i suoi valori di cultura e d’identità.

Le trasformazioni, cui è stata sottoposta la nostra società, hanno alimentato l’urgenza di una sistematica documentazione di quei tratti culturali inerenti la dimensione quotidiana del vivere, subordinata alle dimenticanze della “grande storia”. Necessaria premessa per comprendere il fulgore restituito ad un bene culturale devoluto al Comune di Modica e riaperto alla pubblica fruizione il 5 giugno 2021.

Il Museo Ibleo apre adesso il suo cancello sull’universo quotidiano del passato, fucina di idee e cose che sono diventati usi, costumi, mentalità e valori collettivi; esibisce l’opera di insuperati “mastri” dell’utile e del bello; attesta la dimensione storica dell’intreccio tra urbano e rurale restituendo i bagliori di complementari manualità; materializza i segreti di mestieri, evocando gesti, parole, valori d’uso e simbolici, imprigionati in manufatti nati dal bisogno, modellati dall’ingegno e dalla fantasia prima della mortificante omologazione del nostro tempo, ritmato da calendari senza feste e stagioni.

La struttura museografica è attualmente costituita dalla sezione “Massaria” che documenta la cultura dei contadini della Contea di Modica, dalla sezione “Botteghe” che esibisce le testimonianze delle attività artigianali, anche di quelle che “andavan per via” ed ancora dalle sezioni degli arredi sacri “Religiosità e devozione” e da quelle che documentano i reperti di “Arte popolare”, comprendenti le collezioni Carretti, Collari incisi e dipinti, Chiavi di carretto e Casse di fuso. Attrezzi, utensili, oggetti d’uso comune e cerimoniali, testimonianze di vita e di costume, d’arte popolare e di ritualità domestiche e religiose, consentono di ricostruire le connessioni tra cicli di produzione e modi di vita, tra processi di lavorazione e rapporti sociali, tra quotidiano ed immaginario, fondamentalmente per le finalità didattiche dei criteri espositivi ed occasionalmente per gli approcci dimostrativi, eseguiti dal vivo da vecchi artigiani capaci di esprimere i linguaggi generazionali dei mestieri scomparsi e di quelli destinati a morire con gli ultimi depositari delle conoscenze tecniche tradizionali.

Su un intreccio di fili viaggia la continuità dei valori storici collegando gli oggetti, logori e vissuti, conservati nel Museo alle peculiarità paesaggistiche, architettoniche ed etno-antropologiche persistenti nel territorio a dispetto dell’imperante “memoricidio”.

Insomma i segni della fatica e della creatività comunitaria, sia pure dimenticati, rivendicano, nel nome della Storia, la loro “certificazione” di strumenti di conoscenza da sottrarre al silenzio ed all’anonimato, non per riproporre folcloristiche ed atemporali aspetti, ma per dare corpo e voce alla memoria collettiva, pena la perdita di identità etno-culturale cui sembrano destinate le nuove generazioni, che insieme con gli oggetti hanno seppellito i linguaggi, i valori, la vita e l’opera della gente dalla quale discendono.
Foto di Alessandro Salvatore Ferrara

