di Pippo Inghilterra
I palazzi della piazze, come facce della memoria, sembrano raccontare tante storie. Storie di angherie, di clausura, di sofferenza, di povertà, di libertà, di speculazione e perfino di opera dei pupi. Tra i tanti racconti del passato, tre storie ci parlano del Palazzo Iacono-Ciarcià in Piazza Fonte Diana a Comiso.

Il Palazzo Iacono-Ciarcià con la sua struttura particolare d’angolo e la loggetta (“l’archi ri Ronna Pippa”, dal nome della gentildonna Filippa Ciarcià), rimane uno dei meravigliosi fondali della scena teatrale della “platea fontis”. La loggetta, compenetrazione tra spazio esterno e spazio interno (la piazza entra nel palazzo attraverso la mediazione del portico), è ancora oggi uno dei monumenti architettonici più interessanti dello spazio barocco della piazza. Più d’uno studioso e appassionato d’arte lo ha attribuito all’architetto Rosario Gagliardi, ma senza il conforto di una prova.

Il primo fatto di cronaca, che conosciamo, risale alla costruzione del palazzo (1756-57), quando la Badessa del limitrofo Monastero delle Teresiane Scalze si oppose all’apertura di una finestra del palazzo. Probabilmente era un conflitto causato dall’inopportunità della finestra che permetteva di guardare dentro il luogo sacro del convento di clausura. In particolare dove le monache avevano un ampio orto.

Il secondo fatto, riguarda l’abuso del portico. Tutto iniziò con una denuncia “del primo febbraro 1884” per abuso edilizio ed occupazione di suolo pubblico. Ci furono sopralluoghi da parte dall’ingegnere comunale Giovanni Galeoto e controperizie di parte dell’architetto Eugenio Andruzzi di Vittoria. Una parte affermava che il portico è “una enorme difformità”, l´altra che il portico “forma il più bello e magnifico ornato della Piazza Pubblica”.
Il proprietario del palazzo, Don Carmelo Ciarcià, fece ricorso al Sottoprefetto del Circondario di Modica. E tutto finì, quando il Prefetto di Siracusa, il 29 luglio 1885, decretò di accogliere il ricorso del Barone Carmelo Ciarcià, ponendo fine alla controversia dal forte sapore politico.
L’altra sera, passando vicino al palazzo, mi è parso di cogliere sulla facciata un sottile sorriso ironico, quasi beffardo, come quello “dell’ignoto marinaio” del quadro di Antonello da Messina.

Infine l’ultimo fatto riguarda una scena teatrale dove il protagonista è “Lici u filoci”. Era un uomo “irsuto, immane, con aria da Polifemo o da Orlando il furioso” e abitava in un dammuso di Palazzo Iacono-Ciarcià. Una volta “d’inverno, per scaldarsi, bruciava frasche e giornali, senza badare al fumo, al fuoco, che lambiva mobili e sovraporte”. A Ronna Pippa “che lo redarguì dalla finestra, si racconta che abbia risposto correndo alla fontana a mimare, col bastone infilato a più riprese dentro una delle bocche di bronzo, una irriferibile, mai più sentita, minaccia” (G. Bufalino).

Tutte queste storie erano il contrapiglio antico, che si perde nella notte dei tempi, tra fazioni e campanili di due classi sociali: una liberale e progressista e l’altra reazionaria e conservatrice. Incarnate a quei tempi dal mazzacronico dott. Nunzio Comitini e dal cronico Barone Raffaele Ciarcià e che ora, in forma più sfumata, ogni tanto, ricompaiono.