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Palazzolo Acreide

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di Luigi Lombardo

Da un anno è trascorso il 700° anniversario della morte di Dante, il sommo poeta, orgoglio italico, cruccio studentesco. Le iniziative sono state tante. Molti si sono cimentati col poeta fiorentino, attraverso vari modi espressivi: critica letteraria, teatro, cinema. Il fotografo palazzolese Francesco Carracchia lo ha fatto attraverso il suo mezzo espressivo che lo accompagna fin dagli esordi negli anni ’70: la fotografia. Ne è nato un prezioso volume autoriale, pubblicato nel 2021, dalla casa editrice “Giuseppe de Nicola”.

Il testo, accompagnato dalle foto, si pone subito l’interrogativo-dilemma: “Dante uomo del 1300 o… cittadino del terzo Millennio?”. Fiumi di parole sono state scritte sul tema della “contemporaneità” dell’opera d’arte, ammessa da Croce, che ne fa un principio decisivo. In un certo senso anche il nostro bravissimo fotografo concorda col grande critico letterario. Infatti con parole e soprattutto foto, ripercorre il cammino salvifico del poeta dalla disperazione dell’inferno, che nulla consente, alla tenue speranza del Purgatorio, al trionfo dell’assoluto con il Paradiso.

Il fotografo palazzolese Francesco Carracchia

Ma soffermiamoci coi temi affrontati dall’autore nei vari comparti in cui è diviso il libro seguendo la Commedia Divina dall’Inferno al Paradiso. Lo stesso autore indica i temi racchiusi in ciascuna cantica “fotografica”, che attualizza i luoghi danteschi (ci limitiamo al solo Inferno):

«I temi dell’Inferno attuali: Periferie. Il ventre cieco della città. Luoghi della dimenticanza e dell’abbandono. Le architetture che opprimono, i deserti della solitudine, gli spazi che sembrano dilatarsi per dividere e separare. Le periferie diventano un inferno quando vengono intese come ghetti urbani, luoghi della devianza, assenza dei servizi essenziali. Polvere sulle poche aree verdi, gabbie di cemento a soffocare i rari alberi che vi crescono.

Degrado ambientale: la natura soffocata e violentata. Le discariche a cielo aperto, le fabbriche dismesse, le spiagge trasformate in immondezzai o mangiate dalle mareggiate, l’abusivismo edilizio, gli ecomostri che fanno ammalare il paesaggio, la sacralità dell’acqua schiavizzata dalle dighe e dalle centrali elettriche.
Altri temi: marginalità, indifferenza, violenza».

Questi i temi che l’autore affronta a commento della prima cantica. E ne abbiamo subito un esempio quando l’autore-fotografo deve esemplificare le varie tematiche. Lo fa affrontando l’inferno degli inferni moderno: Auschwitz nel capitolo intitolato: «Dante ad Auschwitz: la poetica di Dante nell’opera di Primo Levi». Come mai? L’occasione è la citazione che Levi fa della famosa terzina dantesca:
«Per me si va ne la città dolente
Per me si va ne l’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente»

Lo fa nel primo capitolo (Il viaggio), descrivendo l’attesa nel campo di raccolta di Fossoli prima di essere deportato nel più terribile ed emblematico dei campi di sterminio. E aggiunge Primo Levi:
«Ma se l’inferno dantesco risponde ad un ordine divino ad un “alto fattore” di giustizia; non così l’inferno dei lager il cui cancello (la “porta di schiavitù”) è sormontato da tre parole di derisione: Arbeit Macht Frei».

“Ultima fermata: L’inferno di Aushwitz” è il titolo della prima fotografia, che può sembrare una fine anziché l’inizio di qualcosa come l’autore vuole dimostrare. Lo fa mettendo a nudo i mali della società contemporanea l’inferno moderno con la sua “febbrilità”, come l’autore chiama lo stato di ansia e motilità frenetica della “vita moderna”, le contraddizioni che si spalancano nel nostro vissuto di uomini: ieri Mostar (una foto straordinaria del cimitero ne descrive il dramma), oggi, aggiungo io, l’Ucraina e i morti di Bucha, vittime innocenti di un “sogno”, di una ideologia che decenni addietro ci portò nell’inferno nazista.

E qui l’autore introduce il dramma degli “ultimi”, gli emarginati, i perdenti e perduti. Qui salta fuori l’impegno civile del Nostro, la sua formazione civile, l’essere stato in gioventù vicino agli ultimi attraverso un forte impegno politico. Ma come Dante, l’autore fotografo intraprende un altro viaggio che lo porta alle “terre di mezzo”, luoghi dell’instabilità, dell’attesa, dell’inquietudine di chi attende l’arrivo del “treno” in una stazione isolata e fredda: siamo al Purgatorio dantesco, non luogo per eccellenza.

In questi “non luoghi” l’autore mette immagini di aeroporti, stazioni, sale d’aspetto, centri commerciali; ma anche i cimiteri, luoghi dell’assenza dolente, «spazi del ricordo, della riconciliazione. Qui il tempo con la sua furia e la sua fretta cessa di travolgere ogni cosa e assume invece la dimensione dell’eterno» (cit. p. 65).

Questi luoghi della instabilità ci introducono al terzo stadio del viaggio “dantesco” dell’autore: l’ubi consistam, il luogo delle certezze, il Paradiso su questa terra dove i temi sono: la bellezza: intesa come valore etico, che si fa estetico. Energia universale; la creatività: arte di strada, musica scienza, comunicazioni; impegno sociale: la forma più alta e più bella di condivisione. Significa regalare il proprio tempo agli altri.

Eh sì, l’autore è pervenuto davvero in Paradiso, che non è il culmine del viaggio dantesco, l’assoluto ineffabile, ma l’approdo e la partenza verso un nuovo viaggio nel mondo della “febbrilità”, il reimmergersi nell’hic et nunc della contemporaneità, che poi è la cifra che contrassegna tutto il volume, che ci lascia, nonostante tutto, speranzosi, umanamente “beati”.

di Luigi Lombardo

Dopo l’Unità d’Italia si rese necessario rinominare molti centri siciliani, a causa delle tantissime omonimie con altri comuni del neonato stato italiano. Gli esempi sono tantissimi: Novara di Sicilia, Monterosso Almo, Chiaramonte Gulfi, Palazzolo Acreide, Polizzi Generosa, Alcara Li fusi, Termini Imerese etc. Il secondo nome distintivo si partiva per la maggior parte da una medesima ideologia. Rifarsi ad antiche denominazioni, alle origini antiche della città; in altri di una semplice specificazione geografica: Novara di Sicilia ad esempio. Per Mazara si aggiunse Del Vallo per legarla alla antica prerogativa di città capovalle.

(Da sx in alto in senso orario) Chiaramonte Gulfi, Palazzolo Acreide e Monterosso Almo

La ricerca (e la fantasia) degli storici locali cominciò a lavorare di fino, trovando delle volte denominazioni che facevano ridere e per questo non prese in considerazione. Tantissimi sono i casi di comuni che disseppelliscono il nome greco o romano dell’antica città: due esempi tipici sono Palazzolo e Chiaramonte, così come Termini, Calatafimi, Canicattini, Cattolica, Contessa, Galati, Giardini, Licodia, Mirabella, Montalbano, San Marco, Sant’Angelo, Scaletta. Molti comuni aggiunsero il nome dell’antico feudatario: Priolo (Gargallo), Motta (Camastra), Chiusa (Sclafani).

(Da sx in alto in senso orario) Licodia Eubea, Canicattini Bagni (piazza XX Settembre) e Mirabella Imbaccari (Palazzo Biscari)

Chiaramonte certamente deriva dall’antica dinastia dei Chiaramonte, stirpe di origine francese (normanna), trasferita in Sicilia e che dominò la scena politica siciliana per almeno due secoli. Era così potente che diede il proprio nome alla città murata di propria fondazione, imprendibile alle falde dell’Arcibessi, a baluardo dell’ampia e ricchissima pianura, dove si trovavano i resti dell’antica Gulfi. A questa città i Chiaramontani si rivolsero al fine di qualificare la loro città, riportando in auge la “antica patria”.


La stessa cosa succede a Palazzolo. Qui il 28 Agosto del 1862 nella sessione n. 45 il Consiglio Comunale delibera:

«Il consiglio sulla considerazione che il Comune per trovarsi omonimo a vari altri del Regno trovasi nel caso di cui è oggetto la ministeriale dello interno n° 12783 […] nello svolgere quale aggiunta potrebbe farsi all’attuale denominazione, non volendo affatto cangiarla per motivi fondati sulle patrie storie e tradizioni, rimanendo naturalmente la speciale situazione appiè del monte dove surse la vetustissima Acre e da ove il popolo immediatamente alla di costei distruzione si tradusse a stanziarsi nell’attuale zona che da quasi otto secoli, attraverso li varii avvenimenti porta inalterato il nome di Palazzolo, a volere permanentemente indicare siffatta derivazione che altronde forma il patrimonio tradizionale di tutti, ad unanimità delibera che il comune di Palazzolo in provincia e circondario di Noto fosse riconosciuto e distinto dai comuni omonimi sotto la denominazione di Palazzolo-Acreide».

La delibera fu trasmessa al governo centrale che il 28 Giugno 1863 emise il “Regio decreto che autorizza alcuni comuni ad assumere nuove denominazioni”. Al 18° punto figura il comma riguardante Palazzolo che così recita: «[Si autorizza] il Comune di Palazzolo (Noto) ad assumere la denominazione di Palazzolo Acreide, in conformità della deliberazione presa il 28 agosto 1862 da quel Consiglio Comunale».
Contrasti politici, scontri di classe, tra fazioni più che tra veri e propri partiti percorrevano il Risorgimento ibleo. La divisione in quartieri e la loro caratterizzazione di parte politica (conservatori e progressisti) non bastava perché si ci misero anche i santi (o meglio furono messi in campo dai facinorosi di tutti gli schieramenti.

Palazzolo Acreide, piazza del popolo (foto Elyparker da Wikipedia)

Comunque, superata la tempesta, occorreva riconciliare le parti nei limiti della normale guerra dei quartieri, quella antica, collaudata dove i santi giocavano alla “guerra”, senza toccare l’establishement locale. Il collante ideologico fu l’antica Madre. Una madre, tollerante, accogliente, pacifica, come le immagini materne delle madonne e delle sante venerate dal popolo. l’antica patria Akrai che tutti univa. La storia antica offrì il placebo alle antiche inquietudini.

L’antica Akrai (foto Wikipedia)

I Palazzolesi scelsero di chiamarsi, oltre che Palazzolesi appunto, Acrensi, come gli accademici che nel settecento fondarono l’Accademia del Progresso. Chiaramonte scelse l’antica patria che un tempo prosperò nella piana ai piedi del munitissimo castello. Santa Croce aggiunse il nome della città greca di Camerina: la cultura classica forniva il materiale usato in un’operazione, in origine di natura amministrativa, ma che presto divenne il culmine di quella che tutti più o meno cerchiamo: le nostre origini, personali e collettive. Fu trovata alla fine l’antica madre.

Ciò che i nostri avi hanno vissuto più di tre secoli fa, nel 1693, è purtroppo esperienza destinata a ripetersi nel tempo. E non sarà certo per punizione divina, né per le bizze dell’Etna, ma per colpa della faglia ibleo-maltese sopra la quale siamo seduti. Oggi la scienza è in grado di spiegare tutto, all’epoca no. Ecco che fiorivano narrazioni che “hanno avuto un largo e particolare riflesso nei canti e nelle storie del popolo siciliano”, scrive Luigi Lombardo. L’articolo commemorativo di oggi (che segue gli articoli di Paolo Monello sull’argomento) parla proprio di questo.

di Luigi Lombardo

Le catastrofi naturali (terremoti o eruzioni vulcaniche), le epidemie (colera o peste), ma anche altri eventi catastrofici di natura socio-economica, come guerre o carestie, hanno avuto un largo e particolare riflesso nei canti e nelle storie del popolo siciliano.

Nate dalla fantasia di ignoti, o parzialmente noti, poeti popolari, quasi sempre illetterati, se non del tutto analfabeti, queste, che per convenzione siamo soliti chiamare “storie” in versi, si diffondevano rapidamente fra il popolo attraverso i cantastorie, che giravano i paesi della Sicilia soprattutto al tempo delle feste e delle fiere. Questi cantastorie girovaghi potevano essere anche gli autori dei brani, o spesso erano solo gli esecutori.

“U ciaraulu” canta una storia popolare in piazza

Particolarmente diffusa in Sicilia è la “Storia del terremoto del 1693”, che ci è pervenuta col nome di “Tirrimotu ranni” o “Tirrimotuanticu”. Di essa ho raccolto diverse varianti, ma le più importanti sono la storia completa raccolta a Palazzolo e una lunga variante raccolta a Modica: la combinazione delle due storie ha permesso di colmare lacune e di dare il giusto significato ad alcuni versi, altrimenti incomprensibili o poco chiari.

U “Fascettu”. Frontespizio di un volume sul terremoto del 1693 (XVIII sec.)

L’informatrice, Domenica Angelico di Palazzolo, mi recitò a memoria, in un’unica seduta, tutte le 48 ottave della storia composte a rima alternata con la classica ‘ntruccatura. La donna che all’epoca aveva 94 anni, era una contadina, che aveva imparato il canto più di settanta anni prima da una ragazza di dodici anni, una spicalora di Solarino (SR). Come si legge nell’ultima ottava ne è autore tale Tanu Accaputu (Gaetano Accaputo), di cui al momento abbiamo poche notizie.

Incisione da carta geografica (1693)

La storia deve essere coeva o di poco posteriore al fatto, perché, come bene nota il Pitrè, è raro che una storia si occupi di un fatto trascorso da molti anni. D’altra parte alla 15a ottava il poeta dice: «E chiddi ca sunu vivi a lu prisénti/puonu cuntarvi la crurilitati», facendoci capire come la memoria fosse viva al tempo del poeta.
L’informatrice non cantava ma recitava. Lei stessa però mi aveva detto che si cantava durante la mietitura e la raccolta delle spighe. Il cantante e musicista Carlo Muratori la musicò nel 1993.

(Da sx) stampa settecentesca che raffigura una scena di terremoto e un’incisione popolare dello stesso periodo

Ma di recente ho scoperto la versione cantata da un anziano contadino di Palazzolo, che l’aveva appresa dal padre capuciurma e abilissimo cantante popolare.
La storia inizia solennemente, come fosse una poesia epica classica, con l’invocazione rituale e scaramantica:

Ratimi urienzi, gintili signuri,
cosi trimenni vorru accuminzari.
Cumanna Cristu pi li piccaturi
e-r-ogni uomu ci-avissi a-ppinzari.
Succurru a-vvui supremu criaturi,
rati forza a sta lingua a spiegari:
m-mènniriri notti a li cincu uri
menu na quarta si giustu parrari.

Il canto in questione, come altri canti consimili, si fonda su una precisa credenza di origine cattolica: quella della colpa e della riparazione. Si tratta di una convinzione largamente diffusa fra gli strati popolari: l’ideologia provvidenziale cristiana, per cui mali come pestilenze, malattie, guerre e catastrofi sono castighi di Dio, inflitti agli uomini per i loro peccati e per riportarli sulla buona strada.

Stampa devota di Salvatore Puccio raffigurante San Vito martire, protettore dai terremoti e altri mali

Questi peccati scatenano la collera divina che si manifesta con simili “avvisi”, che portano terribili eruzioni o catastrofici terremoti. La distruzione sarebbe totale se di volta in volta non intervenisse ad intercedere presso il figlio la Madonna, Madre di Dio, vera “abbucata” (avvocata), degli uomini presso il figlio. Molte di queste storie perciò hanno come motivo centrale lo svolgimento e la drammatizzazione del contrasto fra la volontà punitrice di Dio e la lacrimevole intercessione di Maria, coadiuvata spesso dai santi patroni.

Due stampe devote del XVIII sec. per la protezione dai terremoti

L’importanza della figura della Madonna, come mediatrice fra uomo e Dio, al fine di placare l’ira divina, si affermò al tempo delle grandi pandemie, che a partire dal XVI secolo sconvolsero l’Italia. Ne conseguì un incremento del culto verso la fine del secolo e con le successive epidemie del secolo XVII. Proprio a seguito delle epidemie di peste che colpirono la Sicilia, il re di Spagna e Sicilia, nel 1643, ordinò a tutte le città di Sicilia di mettersi sotto il patronato della Madonna, scegliendo l’immagine più popolare presso le masse popolari.

Madonna del terremoto (Francia 1505)

Era il modo tradizionale di rispondere all’angoscia che derivava dalla incomprensione del fenomeno, dalla tendenza a rifugiarsi sotto le ali protettive del mito. La comunità si risollevava attraverso la ripetizione memoriale dell’evento: ecco allora nascere le quarantore del 9-11 gennaio di ogni anno, dove in chiesa si “rappresenta” il terremoto. Un tempo questo rito prevedeva che ad un certo punto della messa si facevano cadere per terra oggetti metallici, le sedie, e altri oggetti reperibili in chiesa: a Palazzolo il rito prendeva il nome di trièppitu (tremito). Così le classi popolari e in generale tutti i partecipanti al rito superavano l’angoscia dell’evento, di cui si sapeva solo che era espressione della volontà divina.

Orazione contro i terremoti (sec. XIX)

E oggi? tutti sappiamo che il terremoto ha origini fisiche, perfettamente spiegabili e misurabili. Grazie a questo tutto dovrebbe essere facile, non rendendosi necessaria alcuna forma di esercizio risarcitorio nei confronti del Dio. Ma è davvero così emancipato l’uomo moderno dalla paura del terremoto? Credo di no. E allora quali forme di espulsione dell’angoscia e della paura si praticano oggi dalle comunità? Su tutte prevale la possibilità di informarsi in tempo reale sull’evento attraverso i media. Ma al momento dell’insorgere della prima scossa non c’è nulla a cui aggrapparsi e l’evento è vissuto drammaticamente e angosciosamente. A nulla vale la conoscenza del fenomeno e la natura dell’uomo viene fuori: un essere fragile e impotente di fronte all’ignoto.

di Roberto Lo Guzzo

Dicevamo, nel primo articolo, che nella cultura popolare il “fuddittu” è una figura demoniaca, e solo in senso lato sta per “vento vorticoso”. Altrove si ha la voce “marzamureddu”, a cui rimanda il vocabolario siciliano etimologico di Michele Pasqualino. Il Pitrè nel suo saggio sui costumi siciliani dedica un intero capitolo al “dragone”, a proposito del quale scrive “specie di procella che formasi da un turbine a foggia di colonna dal mare fino alle nuvole”, e in un altro luogo “nuvola nera in forma di coda”.

Giuseppe Pitrè (1841-1916). Può essere considerato come il fondatore della scienza folkloristica in Italia

Pubblica inoltre alcuni scongiuri, in voga perlopiù tra i marinai, per allontanare questa minaccia. Tali scongiuri erano noti anche a Modica, come testimonia, tra gli altri, un articolo di Carmela Giannì apparso in rete. La giornalista pone l’accento sul rituale che accompagnava la giaculatoria recitata alla bisogna dalla madre, nella fattispecie il gesto della mano destra che simula una forbice per dare efficacia plastica alle parole “spàcchila mm’ienzu”.

“Diu uomu, Diu fici uomu
Diu ci ni scanzi ro lampu e ro truonu.
Sùsiti Angilu, nun nurmìri
tri nùvili vitti vinìri:
una ri acqua, una ri vientu,
una ri cura ri draunàra.
Pìgghila, spàcchila nm’ienzu
e abbièlla nta na cava scura,
unni nun ci canta nghiaddu,
unni nun ci luci luna,
unni nun’ci àbbita nissùna criatùra”.

Modica nel XIX sec.

L’invocazione, che richiama quella della tradizione messinese “Sant’Ancilu nun durmìri” edita dal Pitrè, era rivolta a San Michele Arcangelo, ovvero a colui che “lotta con i suoi angeli contro il drago”(Ap. 12, 7). Dunque la cultura popolare conserva il ricordo di questi fenomeni atmosferici estremi, senza però distinguere tra tornado mesociclonici, quelli cioè legati ad una struttura temporalesca rotante o “supercella”, e i cosiddetti “landspout”, meno violenti e in quanto tali più simili alle trombe marine (waterspout).

Lo schema di formazione di una “supercella” (immagine da ilmeteo.net)

E dal gergo marinaresco, particolarmente dalla provincia di Messina, paiono giungere gli scongiuri e lo stesso rito del “taglio” della coda. Se i fatti a cui si riferiscono questi termini non sono entrati nei libri di storia è solo perché le trombe d’aria, le tempeste e perfino gli uragani, sono risultati alla lunga meno catastrofici rispetto ad altre calamità. E così, in un’area che è stata costantemente funestata da terremoti, alluvioni, epidemie, la memoria di questi eventi atmosferici “minori” è andata quasi perduta.

Una tromba marina (foto di Xemenendura da Wikipedia)

Risulta perciò soprendente ritrovare notizie relative ad una qualsivoglia tromba d’aria andando a ritroso nel tempo. Eppure, nel saggio scritto a quattro mani da Lancetta e Stoppani (Passeggiate nei dintorni di Modica) si fa riferimento ad una tromba che avrebbe investito Pozzallo nell’autunno del 1882: “contemplavamo un gigantesco carrubo che, rovesciato sul terreno, colle radiche poste allo scoperto, era stato vittima di qualche terribile colpo di vento”. La tromba si sarebbe originata, secondo il racconto di un testimone del luogo, dal mare per abbattersi in seguito sulla terrarferma: “una dragonara che venne fuori dal mare l’ha colpito […] il diavolo ci fu […] gli alberi volavano per aria come mosche”. Ancora più sconvolgente la notizia, rinvenuta sul Journal officiel de la République française dell’8 novembre 1872, relativa a un ‘uragano’ abbattutosi su Modica il precedente 24 ottobre. Si tratta di un resoconto piuttosto dettagliato, redatto da un anonimo corrispondente locale, testimone oculare dei fatti, nonché docente presso l’Istituto Tecnico di Modica.

Saggio di Lancetta e Stoppani in cui si fa riferimento ad una tromba d’aria che avrebbe investito Pozzallo nell’autunno del 1882

L’area interessata dal ciclone, oltre a Modica e al suo territorio, fu quella di Palazzolo Acreide, dove si registrarono danni più rilevanti, come ad esempio la distruzione del nuovissimo teatro. Le vittime, secondo il rapporto ufficiale della Luogotenenza dei Carabinieri, furono 21 nel distretto di Modica e circa un centinaio nel distretto di Noto.

Panorama di Palazzolo Acreide (XIX sec.)

Il corrispondente da Modica, non sa come chiamare questo fenomeno atmosferico: “la parola turbine è troppo vaga e quella di tromba ha un senso troppo limitato”. E ciò perché con ogni probabilità non si trattò né di un turbine (fuddittu) né di una semplice tromba d’aria (cura ri draunara). “Comunque la si voglia chiamare – taglia corto – alle 9 di sera del 24 ottobre, la città visse un momento terribile: le tegole volavano dai tetti, le porte e le finestre scricchiolavano sui cardini; una capanna che si trovava lungo la strada principale fu sollevata e sbattuta contro il muro. I lampioni si spensero, alcuni pali in ghisa che li sostenevano caddero. I vetri delle finestre andarono ovunque in frantumi”. Le campagne furono maggiormente colpite: “dei grandi alberi di carrubo furono contorti, sradicati, fatti a pezzi […] le pietre rotolarono, la terra fu gettata in virtù della forza centrifuga contro i muri a secco, al punto da far credere che fossero stati cementati”.

Un grosso albero d’ulivo sdradicato da una tromba d’aria

Nella Cava Fazio una casa fu rasa completamente al suolo: sotto le macerie furono recuperati 9 corpi. La casa “Cristidda” in contrada Rassabìa andò distrutta e al suo interno furono ritrovati 8 cadaveri, nonché le carcasse di una quarantina di pecore e di due muli. Nelle case vicine furono recuperati altri corpi, sicché il totale delle vittime fu stimato alla fine in 31.

Al di là delle incongruenze sul numero delle vittime (a Palazzolo furono 32, e non un centinaio, come ha ribadito recentemente in un suo articolo Nello Blancato), e perfino sul giorno del disastro, dalla descrizione dettagliata del fenomeno, nonché dei suoi drammatici effetti, si potrebbe valutare lo stesso come un tornado mesociclonico EF3.

Cava Fazio a Modica

Un altro “uragano” si era abbattuto su Modica in data 2 gennaio 1830. L’episodio, riportato dalla Gazzetta Privilegiata di Milano del 20 febbraio, riguardò soprattutto il comune di Scicli, dove esondarono i torrenti: “effetti non meno funesti produsse l’uragano nella comune di Modica. I guasti cagionati alle fabbriche ed alle campagne sono importanti”.

In questo caso tuttavia il racconto degli effetti prodotti fa pensare più ad una pioggia copiosa che ad un tornado in senso stretto. Del resto, anche nel caso delle disastrose e più note alluvioni di Modica del 10 ottobre 1833 e del 26 settembre 1902, si parlò impropriamente di uragano, e di ciclone.

Questi episodi, in primo luogo l’uragano del 24 ottobre 1872, sfuggiti a quanti si sono occupati di sventure cittadine, meriterebbero di essere approfonditi, o almeno ricordati insieme ai tanti eventi disastrosi che hanno caratterizzato la storia della città di Modica, e dai quali questa “melagrana spaccata”, subissata, colpita, è sempre rinata più forte e più bella, qualificandosi pertanto come città resiliente.

Alcune notizie dell’uragano del 24 ottobre 1872 di Modica furono riportate in un quotidiano francese