di Giuseppe Cultrera
Giuseppe Blancato che mi guidava per le cave di Pantalica, narrando di arnie colme di miele – quello ibleo, appunto – e di civiltà antiche come quelle pietre, era lo stesso affabulatore che aveva conosciuto Vincenzo Consolo, facendone uno dei personaggi de Le pietre di Pantalica. Erano gli anni ’90 e questi appassionati cultori della civiltà contadina assurgevano, fra gli intellettuali, a riferimenti ideali: specie ora che, antichi come i tempi che mitizzavano, andavano scomparendo. Antonino Uccello ne aveva scoperti molti, utilizzando i loro saperi, compresa la produzione artigianale di utensili e simboli, per costruire un repertorio per i tempi futuri (se andate nella sua casa museo, a Palazzolo, ne avrete contezza).
Blancato era stato uno di questi; analfabeta e autodidatta, come la maggior parte, ma divorato dalla febbre della conoscenza e della trasmissione (accresciuta dai saperi acquisiti) alle generazioni future: «Il segreto di questo nettare (si riferiva all’idromele, che produceva) non lo svelerò a nessuno, lo passerò a mio figlio perché lo usi, custodisca e poi trasmetta ai suoi figli. Consolo, il grande scrittore, voleva che glielo svelassi. Ho spiegato che non potevo. Che nessuno di noi antichi, lo farebbe!»
Diceva queste cose con un sorriso ambiguo, quasi a rimarcare l’incapacità di dialogo con gli intellettuali, per l’approccio diverso a quello che noi esemplifichiamo come “bene culturale”.
Non ho più rivisto il vecchio Blancato, di lì a poco scomparso; ho conosciuto, invece, molti di coloro che egli aveva incontrato e che come allittràti, cioè intellettuali, auspicavano il primato e la diffusione di quei valori arcaici.
Ma temo che la loro voce afona fatichi a interessare il mondo attuale, catalizzato da un vortice tumultuoso e vacuo di conoscenze.
Mentre le pietre di Pantalica stanno a guardare.
Pantalica: fotografie di Giulio Lettica