di Giulia Acquasana
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Nel 1936 Luigi Pirandello aveva 69 anni. A novembre di quell’anno si ammalò di polmonite e solo un mese dopo, il 10 dicembre 1936, moriva uno dei più grandi rappresentanti della letteratura italiana.
Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Mi s’avvolga nudo in un lenzuolo. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Bruciatemi. Il mio corpo appena arso sia lasciato disperdere perché niente, neppure la cenere, vorrei che avanzasse di me. Ma se questo non si può fare, sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna dove nacqui.
Furono queste le parole pronunciate da Luigi Pirandello prima di morire, al contrario di quelle del regime, che avrebbe voluto per lui un funerale fascista. Ma quel che capitò alle sue ceneri fu tutt’altro che silenzioso, come invece avrebbe voluto l’autore.

In effetti, la grottesca storia del suo funerale e la rocambolesca avventura delle sue ceneri sembrano esser figlie proprio della penna del geniale autore. A sollevare questo strambo caso, forse senza rendersene conto, è stato, nel 2022, il regista Paolo Taviani con il film “Leonora addio“, dedicato al fratello Vittorio.
Il film si divide in tre parti: la morte di Pirandello, ambientata in una dimensione onirica e surreale; il viaggio delle sue ceneri da Roma ad Agrigento e il funerale dell’autore; infine, la trasposizione cinematografica della novella Il chiodo. Pochi sanno che “Il chiodo” è l’ultima novella scritta da Pirandello, il suo addio al mondo, e che la scrisse ispirandosi a una notizia di cronaca da Brooklyn: «Bambina uccisa da un ragazzo italiano». Stando alle parole di Paolo Taviani, leggendo la novella è facile comprendere come Pirandello morì disperato.
Si sta parlando molto di aspetto “grottesco”. Non potrebbe esserci aggettivo più azzeccato se consideriamo il fatto che, se cerchiamo sul dizionario Treccani i sinonimi di “grottesco” troveremo tra questi, il termine “pirandelliano”.
Ma perché la storia del funerale di Pirandello viene definita così grottesca da sembrar quasi una novella scritta dalla mano dello stesso autore?
Fino al 1947 le ceneri di Pirandello rimasero a Roma, nel Cimitero del Verano, ma in quell’anno lo scrittore Andrea Camilleri, insieme a quattro studenti, affrontando non pochi problemi giuridici, fecero di tutto per adempire alle ultime volontà dell’autore: essere seppellito in Sicilia.
Ed è qui che il film di Paolo Taviani si incastra con questa storia: la sezione centrale del film racconta il viaggio di un funzionario (interpretato da Fabrizio Ferracane), delegato del Comune di Agrigento, incaricato di scortare in treno le ceneri di Pirandello, da Roma alla Sicilia.
Il presidente De Gasperi, all’epoca, aveva promesso al funzionario tutto il sostegno necessario a questa missione non poco delicata, chiedendo al comando americano un volo speciale esclusivamente per le ceneri di Luigi Pirandello. Ma il pilota americano si rifiutò di volare “con un morto”, motivo per cui il funzionario fu costretto a viaggiare in treno.

Dalle prime scene del film, viene trasmessa allo spettatore l’ansia di questo funzionario, che si ritrova accerchiato da persone distratte e inconsapevoli del contenuto nella cassa che il protagonista porta con sé. «Slow down, bedda matri!» dice il povero funzionario a un uomo americano.
Beh… Slow down, bedda matri! potrebbe essere una battuta scritta da Pirandello in un’opera teatrale, potrebbe essere un suo personaggio a parlare, e invece è Paolo Taviani, che ha saputo rievocare sapientemente il genio di Pirandello con la sceneggiatura del film.
A proposito di ciò, è esemplare la scena in cui, durante il viaggio in treno, il funzionario crede di aver perso la cassa tra un vagone e l’altro e, proprio quando si convince disperatamente di averla persa, trova un gruppo di uomini che la usa come tavolino per giocare a carte. Quando un dei giocatori si sente osservato, dice al funzionario «Che c’è? A Tre Sette stiamo giocando! Tre Sette col morto! Lo conoscete? Vuliti pigghiari u puostu do mortu e iucari cu niautri?».
Alla fine, per fortuna, l’urna cineraria arriva ad Agrigento, ma il prete della città si rifiuta di celebrare un funerale senza bara. Allora ecco la proposta geniale: mettere l’urna con le ceneri di Pirandello dentro una bara, ed ecco che il funerale dell’autore è fatto.
Il protagonista di questa storia, un funzionario statale, potrebbe essere un qualunque protagonista delle novelle di Pirandello. Si pensi, ad esempio, alla novella “Il treno ha fischiato”, in cui il protagonista è un povero computista schiacciato dall’ansia provocatagli dal lavoro e dalla famiglia a cui badare.
Nel film di Taviani, l’ansia del funzionario pubblico è a tratti motivo di risata per lo spettatore: il funzionario ha paura di perdere l’urna cineraria di Pirandello, e la capacità attoriale di Fabrizio Ferracane, insieme alla regia, rendono tutto ciò più buffo e – a questo possiamo dire – pirandelliano.

Il film è girato in bianco e nero fino alla conclusione del funerale di Pirandello, mentre la novella “Il chiodo”, terza e ultima parte del film, è raccontata a colori. La violenza è la vera protagonista di questo racconto: la violenza cruda, incontrollabile e inspiegabile insita negli uomini, accompagnata dalla struggente Romanza di Liolà di Nicola Piovani.
Il film si conclude con gli applausi e il brusio in un teatro, quasi come ci fosse un sipario a separare silenziosamente la storia dallo spettatore, che si alza dalla poltrona dopo aver assistito a questo strambo spettacolo.